La guerra ha raggiunto Damasco, che per ora non è però zona di guerra – Robert Fisk

Damasco sotto assedio? Certamente. Ma in guerra? Non ne sono così sicuro. I proiettili sibilano  al di sopra della città, dal Monte Qasioun a Deraya, sollevandosi molto al di sopra del palazzo Azem, del diciottesimo secolo e della moschea costruita nell’aria, la meravigliosa moschea degli Ommaiadi con i suoi fragili mosaici dell’ottavo secolo, l’ultima dimora del Saladino, della testa di Imam Hussein  e di Giovanni Battista. Il luogo vibra per le esplosioni. Tuttavia, nel mio ostello preferito, vicino al fiume Barada, ieri mattina il latte e i croissant alla cioccolata erano freschi come otto mesi fa, sulla prima pagina del quotidiano governativo Thawra c’è una fotografia a colori di cattiva qualità che rappresenta un soldato del regime in mezzo a mucchi di detriti anonimi. Non ho già visto questa fotografia?

Voci di guerra?  Un clichè? Naturalmente. Vero, però. Mercoledì mi è stato detto da amici fidati che il santuario in stile iraniano di Sayyida Zeinab è stato distrutto dal fuoco dei mortai dei Salafiti. La tomba della nipote del Profeta sorge – o sorgeva – su un sito del periodo del quarto califfato. Ieri, quindi, vado in macchina 140 km. a sud di Damasco, rombando lungo paurose autostrade in mezzo a automobilisti ugualmente terrorizzati, e lungo strade di campagna e barricate di terra della prima linea, finché, improvvisamente, svettano sopra di me i minareti di marmo blu e la cupola dorata della tomba della povera Zeinab, sorella di Hussain, la prima martire Sciita del mondo la cui morte ha dato inizio a tutta la  triste frattura all’interno dell’Islam. I mortai crepitano e rimbombano lì intorno, ma tranne che per alcune parti in marmo, il luogo è intatto. C’è un carro armato T-72 nella strada e un gruppo di soldati governativi all’esterno. Ma le voci [di distruzione] sono false.

Si può vedere il cerchio delle speranze che diminuiscono della classe media dalle destinazioni attaccate al di sopra degli autobus di città. Fino a poco tempo fa, erano annunciate su tabelle affisse; ora sono scritte con larghe volute  a inchiostro  su cartoni fissati con nastro adesivo sul parabrezza. Il bus per il sobborgo Jobar ora termina al limite del quartiere dei ribelli. L’autobus a un solo piano della stazione di  Samaria ora finisce il suo percorso proprio dall’altro lato del Vecchio Mercato. Il terminal della grande stazione Haj non ha visto un treno da sei mesi.

Ma chi è sotto assedio? I negozianti e le classi medie del boulevard Mezze, “sostenitori” – una parola sospetta  in questi giorni – del presidente, o la gente del piccolo inferno di Deraya, quelli che sono stati lasciati  nelle cantine  e nel tessuto completamente eroso di case distrutte da lungo tempo i cui nemici  avanzano strisciando come millepiedi attraverso le pareti dei salotti,  dei bagni e dei corridoi? “Un’intera società  sgretolata,”  la descrive un giornalista siriano.

Un intero paese,  si potrebbe dire. Gli anniversari si celebrano con tristezza adeguata. La fondazione del partito Baath; l’inizio dell’insurrezione contro il regime di Assad; il primo importante attacco alle truppe governative. Questo ultimo sconvolge leggermente le narrazioni occidentali di mesi di dimostrazioni pacifiche assalite dalle forze governative fino a quando i ribelli hanno preso le armi con riluttanza nell’estate del 2011. Infatti 25 giorni dopo l’inizio della rivoluzione, un convoglio della brigata centoquarantacinquesima brigata dell’esercito governativo è stato attaccato sul ponte di Banias. Sono stati uccisi 12 soldati e altri 40 sono rimasti feriti. Però, l’altra “narrazione” che parla della disperazione del governo di Assad per la “democrazia” al fine di “salvare la patria”, è anche contraddetta ogni ora dagli attacchi aerei contro i “terroristi stranieri” – e certamente i ragazzi e le ragazze  di Assad possono fare di meglio che tirare fuori i luoghi comuni di Israele e di Washington – che stanno cancellando così tante città.

Parlo con un ex ufficiale delle Forze speciali siriane. “Non ti ricordi l’imboscata e l’uccisione di sette dei nostri migliori piloti nella provincia di Hama?” mi chiede sprezzantemente. “E’ sorprendente che i loro compagni vogliano andare a colpire  la gente che ha fatto questo?” Come è facile che la vendetta diventi un motivo legittimo di guerra, in Siria e in ogni guerra, credo. Casualmente, quasi senza rendermi conto della sua importanza, mi imbatto in questo terribile fenomeno.

Al posto di confine di al-Jdeideh,  tra Siria e Libano, un giornalista Siro-Turco deve ritornare a Istanbul passando da Beirut. Andare a casa in macchina passando dal confine settentrionale è impossibile. “Il mio villaggio è proprio a sud del confine turco. I ribelli hanno ucciso mio nipote. Questo era un messaggio per me.” La casa di una personalità Siro-Armena è stata attaccata a Damasco. I nonni di Yerardo Krikorian erano di Kilis, nell’antica Armenia. I Turchi hanno ucciso suo nonno durante il genocidio del 1915, sua nonna si è salvata. Lei è di Aleppo. “I ribelli sapevano dove vivevo,”  mi dice. “Hanno cercato di uccidere mio fratello quando sono venuti in casa. Avevo chiesto al locale posto di controllo (governativo) di proteggerci quando vedevamo gli uomini armati nella zona. Hanno detto che il loro dovere era soltanto di sorvegliare il quartiere generale della mukhabarat (i servizi segreti) più avanti.” Quando gli stessi uomini armati hanno attaccato la polizia segreta, i soldati del governo alla fine sono stati costretti a combattere.

I servizi segreti, i torturatori, i bastonatori, coloro che minacciano, gli assassini del regime sono da incolpare. E’ sorprendente quanti all’interno del circolo governativo di Damasco che diminuisce costantemente, dicano questa cosa. I soldati dicono lo stesso. I servizi segreti sono colpevoli, hanno iniziato questo affare sventurato, assalendo i ragazzi che dipingevano i graffiti sui muri di Deraa, sono diventati delle furie, pensavano di essere dei re. Si dice che Assad volesse liberarsi di quei delinquenti – ce ne sono decine di migliaia – e che numerosi soldati nell’esercito ancora leale vogliono ucciderli. Ma allora, da quale parte starebbero i servizi segreti?

“Davvero, Robert, questa nazione è sempre stata complicata -ora è soltanto più difficile che mai da capire,” mi dicono. Prendete il comandante dei ribelli che si presume abbia offerto di pagare per 25 carri armati governativi catturati 750.000 sterline siriane ciascuno. “Mi sono rifiutato di vendere per meno di un milione,” si suppone che il loro “proprietario” abbia annunciato orgogliosamente. Gli hanno detto che era pazzo. Un milione di sterline siriane era denaro che non valeva niente.   I carri armati valevano un milione di dollari l’uno.

Prendete il santuario di Sayyida Zeinab. I soldati  all’esterno hanno ricevuto l’ordine di farci entrare. In una piccola stanza che ha fotografie dell’Ayatollah Khameney, il capo supremo dell’Iran,  e di Sayyed Hassan Nasrallah, il presidente di Hezbollah – questo, dopo tutto è un santuario sciita – sta seduto un uomo sorridente, il capo della sicurezza per il santuario, uno straniero, io sospetto,  ( i lettori possono risolvere questo piccolo indovinello senza molta difficoltà) che parla con impressionante facilità. “Sì, abbiamo da proteggere l’acqua e altre cose in questo santuario quando viene attaccato. Abbiamo competenza in queste cose. Non si può proteggere il santuario da un attacco di un mortaio con il Corano.”

Il messaggio, però, è semplice. “Questo santuario non è per gli Sciiti soltanto, ma appartiene a tutti i Musulmani perché Zeinab era la nipote del Profeta. Vogliamo proteggere questo santuario e tutti gli altri, ma dobbiamo proteggerlo perché se viene danneggiato, renderà più rabbiosi nei confronti dei Sunniti tutti gli Sciiti che ci sono nel mondo, quindi proteggiamo tutti i Musulmani.” Questo uomo cordiale vive e dorme nel santuario di Sayyida Zeinab e ci sta da un anno. Mercoledì, l’ultimo attacco con i mortai ha danneggiato una piccola parte del tetto. “Sappiamo esattamente chi sta cercando di distruggere questo edificio. Non sono Sunniti coloro che  fanno questo. Sono stati i Salafiti.” Ah, quei grandi distruttori di tombe, eliminatori di sacrari, liquidatori dei Buddha di Bamyan, i Salafiti. Adesso sono proprio in Siria. I [loro] principali finanziatori: l’Arabia Saudita, la nostra vecchia e ricca amica.

Cammino nella grande spianata con il pavimento di marmo adibita alle preghiere dove trovo un’altra Zeinab, una donna siriana, con due bambinetti in una carrozzina.”Non ho paura”, dice. “Qui è normale, dice.” Non è vero, naturalmente. Vede i due soldati che stanno in piedi in un angolo. Poi c’è Moratada Ali, un trentenne di Najaf in Iraq. Dall’ Iraq? chiedo incredulo. Sì, dice; è un rifugiato che è arrivato qui due anni e mezzo fa per sfuggire al terrore settario della sua patria. Dice di non avere paura. Vive proprio dietro l’angolo con sua moglie e due figli. Il santuario gli “parla”, dice. La guardiana che sta non lontano da Zeinab stessa – la vera Zeinab che si è presa cura della sua vasta famiglia quando Hussain  era morto dissanguato – dice che prega per la nipote del profeta perché la protegga.

Soltanto per caso, parlando con un amico siriano ieri, mi ha detto che suo fratello era stato rapito sei mesi fa. Non me lo aveva mai detto. Non gli competeva  dirmelo,  suppongo. “Lo stiamo ancora cercando,” dice e mi rendo conto che anche lui è sotto assedio. Damasco non è come Leningrado nel 1941 o Stalingrado o Troia e neanche Beirut nel 1982. Non ancora. La migliore descrizione che ho sentito è stata quella di un collega. “Damasco?” ha chiesto.  “Sta morendo. Ma certamente non è ancora morta.”

 

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/the-war-has-reached-damascus-but-for-now-it-is-not-a-warzone-by-robert-fisk Originale: The Indipendent Traduzione di Maria Chiara Starace

12 aprile 2013 http://znetitaly.altervista.org/art/10464

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