Abitare la terra, una visione cristiana dell’ecologia – Recensione di Cinzia Picchioni

Elizabeth Theokritoff, Abitare la terra, una visione cristiana dell’ecologia, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2012

«È difficile evitare la conclusione che, con una popolazione umana in crescita continua, non basta per l’umanità nel suo complesso fare di più con meno, personalmente dobbiamo anche imparare a far meno con meno» (p. 9)

Teologa e ortodossa

È scritto da una teologa (e si sente!) ortodossa che quindi prende in considerazione vari aspetti della tradizione ortodossa, partendo dai padri della chiesa, passando per gli asceti, i santi, i testi liturgici, la vita sacramentale, arrivando a scrittori e teologi ortodossi recenti che si preoccupano per l’ambiente con riflessioni «eco-teologiche». Il libro mi sembra adatto per chi voglia riflettere seriamente sulla questione ecologica (e non solo fare generalmente l’«ambientalista») e si prefigge lo scopo di esplorare in che modo la tradizione cristiana ortodossa comprenda la natura come creazione di Dio e il posto degli uomini in essa, e questo – indica l’«Introduzione» – può descriversi come «ecologia cristiana», cioè «una comprensione teologica degli uomini-nel-mondo, dell’ecosistema spirituale che costtuisce la creazione di Dio» (p. 16); e la visione ecologica della chiesa comprende il rapporto sia con l’«ecumene (la terra abitata, la comunità umana) sia l’«ecosistema» in cui viviamo (p. 17). Ma anche: «La preoccupazione ambientale cristiana non è una distrazione rispetto al dar da mangiare all’affamato, vestire l’ignudo e prendersi cura del povero […] dobbiamo preoccuparci di affrontare i problemi ambientali con misure concrete» (p. 8) Il libro, partendo da una riflessione teologica, ritiene utile chiedersi «quali sono gli ostacoli nella natura umana che rendono tanto difficile adottare soluzioni realmente efficaci, specialmente a problemi globali di importanza capitle quali i mutamenti climatici?» (p. 18).

Noi, che vogliamo controllare tutto

Molto interessante è anche tutta la riflessione sulla «cultura del controllo»:

«un desiderio costante di controllare la natura […] Molti trovano assolutamente normale, ad esempio, mangiare fragole in pieno inverno, rilassarsi in una casa fresca nel mezzo di un’estate dal clima subtropicale, o sedere su un prato accuratamente innaffiato accanto a una piscina in una località semidesertica. O anche, […] volare attraverso oceani e continenti per un fine settimana di vacanza […] soddisfazioni di questo tipo […] riflettono l’idea che non si dovrebbe permettere alla natura di restringere le nostre attese, che se ci va di fare qualcosa non si deve autorizzare né la stagione, né il clima, né la distanza a intromettersi sulla nostra strada» (pp. 11-4).

Questa riflessione sul «controllo» è veramente interessante, e avrei dovuto trascriverla tutta, perciò vi invito a prendere in prestito il libro alla Biblioteca del Centro Studi Sereno Regis (se siete di Torino) o comprarlo, e andarvi a cercare le pagine indicate.

Noi, che stiamo leggendo

L’autrice si rivolge poi proprio a noi che leggeremo (o che stiamo leggendo) il libro, nel paragrafo intitolato «Ascesi ecologica oggi»: «Possiamo esser sicuri che chi sta bene nel mondo attuale (fra cui la maggior parte dei lettori di questo libro) dovrà volare meno, guidare meno e consumare meno beni esotici […] è necessario anche mettere in discussione la bugia secondo cui la soddisfazione dei propri desideri è la chiave per una vita piena e felice […] molti ambientalisti scoprono ora ciò che la tradizione ascetica cristiana ha insegnato per almeno due millenni: la gioiosa libertà di una vita semplificata, meno caricata rispetto a molte altre da preoccupazioni terrene» (pp. 100-1), o anche: «Atti di responsabilità ambientale sono meno diretti dei tradizionali atti di compassione, ma non meno reali. In un mondo globalizzato, restringere le opere di misericordia al mendicante che bussa alla porta indica una miope mancanza di immaginazione» (p. 239).

Noi, quelli di «aam terranuova»

Che sorpresa è stata poi trovare il motto «agire localmente, pensare globalmente», dei bei tempi in cui collaboravo con la rivista «aam terranuova» e partecipavo ai «campi» sul bioregionalismo e sul ritorno alla terra, letto in una chiave diversa e persino «migliorata»: «Il motto “pensa globalmente, agisci localmente” è per i cristiani ortodossi a un tempo troppo largo e troppo stretto. Noi siamo chiamati a pensare non soltanto globalmente, ma cosmicamente, e ad agire non soltanto localmente, ma personalmente. A pensare cosmicamente, cioè a esser coscienti che il nostro fine ultimo non è migliorare il mondo, ma trasformare tutta la creazione» (p. 238)

Noi, le zecche e le zanzare

Come un libro di fiabe è tutta la parte delle storie di santi e del loro ambiente (pp. 103 ss.), in cui scopriamo qualcosa di più sulle misteriose, affascinanti icone: «L’icona rivela a tutti noi quello che il santo percepisce intuitivamente: ogni pietra, ogni albero è un “teologo senza voce”, che ci parla di Dio e ci rimanda a lui» (p. 136), ma nonostante questo anche gli ortodossi hanno gli stessi dilemmi che abbiamo noi: «Un eremita del deserto può coesistere con la fauna locale, ma la popolazione di una città è costretta a mandar via molte, molte altre creature. E poi ci sono le creature i cui interessi appaiono in diretto conflitto con i nostri: “amare tutto con lo stesso amore” si applica davvero alla zanzara e alla zecca? A quest’ultima domanda il santo asceta potrebbe rispondere “Sì”» (p. 136), e, più prosaicamente, la nostra autrice ci fornisce un’altra risposta: «Per tornare, ad esempio, alla sopramenzionata zecca, stiamo scoprendo troppo tardi quanto l’esplosione della popolazione di zecche sia legata all’estinzione dei piccioni viaggiatori, che spogliavano le querce delle loro ghiande. Non essendoci più gli uccelli, la grande abbondanza di ghiande nutre una popolazione sempre crescente di topi, ospiti delle zecche. C’è stato un mondo in cui potevamo coesistere più facilmente con la zecca, e l’abbiamo distrutto. Non nei giorni di Adamo, ma nel XX secolo» (p. 137).

Noi, che siamo tutti collegati

E siccome a volte ho sentito dire: «Ma di che vi preoccupate del panda (o dell’uso sconsiderato dell’aereo, o della plastica o degli allevamenti intensivi o…) voi ambientalisti con tutta la gente che muore di fame», come se ci dovessimo occupare solo di fare la carità, senza minimamente mettere in discussione il nostro stile di vita, mi ha fatto particolarmente piacere ritrovare in questo libro parole che di solito si leggono nei libri che si occupano di «decrescita», di «semplicità volontaria», di «cambiare paradigma»; ci sono persino riflessioni sull’alimentazione e su come «usiamo» gli animali: «Viene fuori che quasi nulla di ciò che facciamo (il luogo in cu viviamo, quanto lontano viaggiamo e con quali mezzi, quale cibo e quali altri prodotti comperiamo) è una faccenda puramente privata […] ci accorgiamo di come ogni cosa finisce per toccare ogni altra persona e cosa. Per un cristiano questo quadro della realtà dovrebbe suonare abbastanza familiare. […] preghiamo il “Padre nostro”, non il “Padre mio” […]» (pp. 13-4) e ancora: «Quando tentiamo di trascegliere una cosa in se stessa, troviamo che è saldamente legata a tutto ciò che vi è nell’universo mediante migliaia di invisibili corde impossibili da spezzare» (John Muir, esploratore scozzese – 1838-1914 -, le parole sono tratte da My First Summer in the Sierra, New York 2003).

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