Guerra e pace, pace e guerra

Enrico Peyretti

Un centro di studi per la pace deve studiare la guerra per trovare come uscirne verso la pace, e deve conoscere le vie della pace per uscire dalla guerra.

La guerra oggi è cambiata: è sempre capace di distruggere tutto (le atomiche ci sono, tante, disponibili, e crescono i detentori), ma si è raffinata. Coi droni ben mirati esegue sentenze di morte extragiudiziali decise in casa sua da un giudice che applica l’unica legge della propria volontà e interesse. Non disdegna i bombardamenti classici, fuoco dal cielo, senza pericolosi contatti col nemico designato, su un territorio abitato da umani, da domare col terrore e con ferite profonde e prolungate. Ogni banda può fare la sua guerra con l’arma invincibile della vita-morte, il corpo-bomba del volontario sui-omicida. Si può fare la guerra senza sparare: l’antica arte dell’assedio che affama e asseta si è evoluta nella guerra economico-finanziaria che impone la dura volontà di pochi ricchi a popoli interi. Chi decide la guerra? La decide chi fabbrica le armi, e naturalmente deve venderle, pena disastri nei profitti e perdita di lavoro, benché sporco. E contro chi? Contro i terroristi, che certo ci sono, ma sono sempre solo quelli là, così disumani che rendono giusta la guerra. Perché giusta? Perché è sempre umanitaria, è dovere di proteggere. E chi la fa la guerra? Sempre (quasi sempre) un soggetto plurimo, una coalizione, così le responsabilità sono divise, la causa è internazionale, si ottiene un avallo o un impotente silenzio dell’Onu, e si procede.

Una polizia internazionale non si è mai costituita, perché gli stati non la sanno pensare e non la vogliono: la polizia argina e riduce la violenza armata, taglia il commercio di armi, non è guerra su guerra. Ma gli stati non hanno altra concezione del conflitto grave che non sia la guerra: non hanno preparato altro, non pensano altro, non immaginano e quindi non costruiscono altri mezzi. Gli stati si identificano ancora simbolicamente nell’esercito, loro culla di nascita. L’esercito è un complicato meccanismo a molla, caricato, a rischio continuo di scattare per una piccola spinta.

La guerra si è fatta più tecnica, astuta, sottile, non meno feroce, e più pericolosa. Ma l’analisi della guerra non deve mangiarsi il più delle nostre energie.

E se questa è oggi la guerra, è da costruire la pace. Quale pace possibile? Una possibilità nuova si lascia intravedere: nella coscienza comune la guerra è meno accettata oggi che nei secoli e decenni passati. Non è più una fatalità naturale. Non sappiamo ancora come evitarla sempre, ma intanto non l’accettiamo più. La subiamo, sul nostro paese, o sul televisore, o negli effetti economici (per alcuni vantaggiosi), ma non siamo d’accordo come un tempo: in Italia accettavamo con pena i bombardamenti alleati perché facevano finire la guerra. Oggi ci sentiamo impotenti (meno di quanto è reale), ma non siamo davvero rassegnati. La guerra è dissacrata, salvo per pochi fanatici. I popoli hanno assaggiato una vita più agiata e vorrebbero tranquillamente averla e mantenerla. Il diritto di pace non è praticato sempre, ma è scritto nei codici e nella convinzione.

Questo è un punto d’appoggio per sollevare il mondo. Quindi si tratta subito di costruire la leva: un’idea della politica planetaria, nella interdipendenza dei popoli e delle condizioni di vita, e perciò i relativi strumenti politici di sicurezza comune e di giustizia internazionale. Se entra nelle menti, oltre la dissacrazione della guerra, anche la volontà di organizzare la pace, cioè la soluzione non distruttiva dei grandi conflitti, come la civiltà ha imparato a fare su piccola scala, allora la via della pace comincia ad aprirsi. Sarà impresa lunga, di generazioni, ma si può impegnarvisi subito, perché è possibile, dunque è da fare. Si sta meglio vivendo questa breve vita mortale che torturandola con morte aggiunta. Si potrà impedire di uccidere senza dover aggiungere altro uccidere.

In questa impresa c’è bisogno di intelligenza, di risorse mentali e morali, più che materiali. È compito della cultura storica, filosofica, scientifica, delle arti immaginative, della scuola di ogni grado dalla materna all’Università, dell’educazione popolare, dell’informazione, anche degli investimenti economici, che oggi per ogni dollaro alla cultura di pace ne danno diecimila alla multiforme fabbrica della guerra. Uccidere ed essere uccisi è ormai una cosa troppo stupida, per noi. Noi siamo ancora stupidi, ma la politica di potenza lo è di più. Noi possiamo farci più intelligenti e attrezzati per costruire vie di pace, crescita di umanità.

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