Eco-sepoltura: la morte a impatto zero

«In diversi paesi sta crescendo la consapevolezza dei problemi legati a una sepoltura artificiosa, e si stanno diffondendo forme di inumazione a basso impatto ambientale. Ogni anno vengono abbattuti 50 chilometri quadrati di bosco per costruire casse da morto, che una volta interrate inquinano il suolo con zinco, vernici e altri materiali di rifinitura. In Inghilterra il 64% dell’opinione pubblica è favorevole all’idea del “funerale verde” e sotto questa spinta sono già sorte pompe funebri che offrono pacchetti a scarso impatto ambientale: bare completamente biodegradabili in cartone riciclato impreziosiste con pittura biodegradabile, feretri più raffinati in bambù intrecciato (…)».

Qualche informazione: Natural Death Centre; Green Burial; una ditta di Novara ha messo sul mercato bare in Materbi; due designer milanesi hanno creato Capsula mundi, un contenitore a forma di uovo, totalmente biodegradabile, in cui il corpo è deposto in posizione fetale, per poi essere sepolto nel terreno, come un bulbo vegetale, sopra cui viene piantato un albero). Anche la cremazione pare avere l’unico vantaggio di risparmiare suolo e spazio, ma «produce troppa anidride carbonica e mercurio» («Mercury emission from crematoria» di A. Santarsiero, G. Settimo e E. Dell’Andrea, 369 Ann. Ist. Super. Sanità 2006, vol. 42, n. 3; 369-373)

«La morte dovrebbe essere il momento in cui l’uomo torna a far parte integrante della natura da cui ha avuto origine ma, mentre tutte le creature viventi di questo mondo si servono della grande impresa funebre che è Madre Terra, l’uomo non lo ha mai fatto».

Ma, forse quei popoli che lasciano i corpi a decomporsi sugli alberi, magiati dagli uccelli l’hanno fatto (e da qualche parte magari lo fanno ancora).

Strano agomento per una «Pillola» di semplicità volontaria, dite? Forse devo raccontarvi quello che è capitato a me, quando si è trattato di seppellire mio padre. Durante uno dei nostri viaggi mi aveva confessato che se fosse stato per lui avrebbe desiderato «sapere» che si avvicinava la morte e allora sarebbe andato su una nave e si sarebbe buttato giù (forse perché aveva fatto il militare in Marina?); oppure gli sarebbe piaciuto essere avvolto in un lenzuolo. Be’, non è successo nulla di questo: è morto in ospedale e le Pompe (ecco sì, proprio «Pompe», nel senso di «pompose») Funebri locali lo hanno vestito, calzato, truccato, gli hanno fatto il nodo – orribile – alla cravatta e hanno completato il tutto con un «velo» sul viso. Altro che semplicità, altro che «morire come termine del nostro ruolo e ritorno alle origini». Ma non solo: al momento di scegliere la bara ho optato per quella più semplice, quella in fondo al catalogo, quella di abete, senza maniglie, senza decori, chiara. L’ho indicata – un po’ «contenta» che almeno quella potesse essere una cosa che sarebbe piaciuta anche a mio padre – e il signore «pomposo» mi dice con un filo di voce: «Veramente quella è per la cremazione; non si può usare quella». Così il funerale di mio padre non è stato come lui avrebbe voluto, di questo sono sicura.

E allora ho pensato (era il 1995), e penso ancora, che è bene riflettere anche sulla morte e sul dopo-morte, come facenti parte della vita. E se si intende condurre una vita «volontariamente semplice» è il caso di pensare anche a una morte «volontariamente semplice»… potendo.

Fonte: «aam terra nuova» del 23 novembre 2008

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