Il pragmatismo della politica estera e il moralismo del movimento per la pace: il divario può essere colmato – oppure tertium non datur? – Johan Galtung

I AFFIANCARE GOVERNO E NON-GOVERNO, IL MOVIMENTO PER LA PACE

Per comprendere meglio dove la peace research può essere diretta, lasciatemi giustapporre l’azione degli organi governativi a quella di una particolare organizzazione non-governativa, il movimento per la pace. I governi del sistema di stati risultanti dalla Pace di Westphalia del 1648, inseriti all’interno di una visione eurocentrica della storia, succedettero a signori feudali, re e imperatori. Questi governi s’inserirono nel ciclo di violenza-guerra-pace attraverso l’ultima ratio regis – l’ultima parola del re, la pistola. A chi possiede un martello il mondo ha l’apparenza di un chiodo in attesa. Ma ciò vale anche per il movimento per la pace, la negazione del governo: a chi possiede una bocca il mondo assume le sembianze di un orecchio attento.

Il realismo in quanto dottrina si basa sulla ultima sopra menzionata; è, cioè, una dottrina basata sulla forza, non sulla persuasione a partire da principi basilari, che negozia utilizzando incentivi o attraverso processi decisionali da parte di organi autoritari. Un derivato di questa tesi consiste nel fatto che l’ultima parola spetta a chiunque possegga una forza maggiore, quindi, alle minacce delle grandi potenze. Nel mondo attuale ciò significa Anglo-America: una proposta di pace che paia inaccettabile alla Gran Bretagna e all’America non è “realista”.

Lo scopo supremo del realista è la sicurezza, vale a dire una bassa probabilità di essere ferito/danneggiato dalla violenza di chiunque altro. La filosofia sottostante in questo caso è che il diavolo esiste, pronto a tramutarsi in violento per amor della propria violenza, e che l’unica contromisura a questa minaccia consiste nel mantenere una forza sufficiente a dissuadere e/o a schiacciare il diavolo – così da produrre sicurezza.

L’idealismo come dottrina si basa sulla persuasione da principi basilari, in particolare da quei valori ritenuti universalmente validi e addirittura evidenti. Tali principi tendono ad appartenere alla categoria del dovrebbe essere invece che dell’essere, come la sacralità della vita (umana), con ciò intendendo che la vita (umana) dovrebbe essere considerata come sacra. Ma cosa succederebbe se gli altri non condividessero tale nobile visione? O se l’altro crede che “in una guerra ci possano essere solo sconfitti”? Inoltre, cosa succederebbe se la vittoria potesse essere definita a dir poco come sconfitta? Si tratta di un interminabile dibattito, il cui fulcro s’impernia fortemente sulla concezione che ognuno ha della natura umana. Parole, parole, parole.

Cerchiamo di introdurre queste due posizioni all’interno di qualche dimensione, in nessun modo pretendendo che la giustapposizione risulti completa o che non ci sia un ampio spazio di oscillazione. Ciò che stiamo cercando è sicuramente un modo per creare un ponte tra gli attori, anche nel caso di una contraddizione che sia sostenuta da un profondo odio da entrambe le parti, che influenza l’uso della violenza, o della nonviolenza.

 

Tabella 1 Il movimento governativo e il movimento per la pace

 

Movimento Governativo

Movimento per la pace

1 Attori

Ministero Esteri-Esercito

Permanente, congiunturale

2 Modalità d’azione

Realismo basato sull’ultima ratio

Idealismo basato sulla ratio

3 Epistemologia

Empirismo, pragmatismo basato sui fatti

Criticismo, moralismo basato sui valori

4 Teoria

Paradigma della sicurezza basato sulla forza

Esseri umani propendono verso il male

Paradigma della persuasione basato sulla forza morale

Esseri umani propendono verso il bene

5 Metodo I

Convegni tra élite

Incontri tra persone

6 Metodo II

Trattative su interessi nazionali armonizzati

Risoluzioni, patrocinio

7 Metodo III

Dimostrazioni di:

  • potere dell’incentivo

  • minaccia della forza

Dimostrazioni di

  • potere morale

  • potere della gente

8 Metodo IV

Azioni violente, a esempio bombardamenti

Azioni nonviolente, a esempio boicottaggi economici

 

Per esempio, un boicottaggio gandhiano degli Stati Uniti potrebbe funzionare, ma dimostrazioni di massa invece no. Questo è un chiaro caso di una tesi verso la sua antitesi, almeno in accordo con quanto è presentato nella tabella 1, benché non si neghi che la realtà sia molto più complessa. A ciò non consegue che l’alternativa, un tertium, debba essere una sintesi. La dialettica offre tre possibilità non-esclusive: una trascendenza positiva (una sintesi che accetti le caratteristiche di entrambe le posizioni); una trascendenza negativa (la negazione della validità di entrambe); un compromesso (la raccolta di aspetti un po’ dall’una, un po’ dall’altra posizione).

Stiamo parlando di due visioni del mondo, che si riscontrano entrambe all’interno della medesima società e non soltanto in Occidente, benché nel mondo si continui a percepire la contraddizione esistente tra i seguaci della fede feudale nell’uso della forza da una parte e della fede illuminata nell’umana ratio, che si richiama alla ragione dall’altra.

Il realismo, come è stato precedentemente menzionato, tenderebbe a rendere alleati coloro che supportano i principi del dominio anglo-americano nel mondo odierno – gli Stati Uniti d’America – e tende a rispondere Si-Si-Si a Washington, DC. L’idealismo tenderebbe, invece, a far rispondere i movimenti per la pace del Regno Unito e degli Stati Uniti No-No-No a qualunque affermazione provenga dai loro Ministeri degli Esteri. Le visioni del mondo sono talmente contraddittorie tra loro che sono diventate l’una l’antitesi dell’altra.

Così si nota nel caso dell’attuale coalizione guidata dagli Stati Uniti nella guerra all’interno (e all’esterno) dell’Iraq: un governo dopo l’altro ha disertato tale coalizione. Senza necessariamente averlo dichiarato, questi governi stanno facendo ciò che è stato loro chiesto dai movimenti per la pace: si sono ritirati dall’Iraq. Ma questo ha più le sembianze di una protesta che di una vera e propria alternativa politica di pace.

Probabilmente, il miglior modo di esaminare maggiormente queste due visioni di pace non consiste nella loro ulteriore elaborazione, ma, semmai, nel porsi la questione: come può essere trascesa la contraddizione tra essi esistente? Secondo la tabella esistono otto azioni diverse. Guardiamole. Ma prima, permettetemi un piccolo cenno alla mia vita. Ho rifiutato il servizio militare e sono divenuto obiettore di coscienza nel 1951 in quanto ritenevo inaccettabile le modalità messe in atto dal governo. Nel 1954 ho rifiutato di effettuare, come alternativa, il “servizio civile” perché era per me solo una delle tante maniere di dire “No”, non consistendo in un’iniziativa vera e propria per servire la pace. Il risultato fu che trascorsi 6 mesi in prigione durante l’inverno 1954-55, un modo per esprimere un “No” ancora più estremo. Ho vissuto all’interno di una contraddizione: nei primi anni 1960 ero allo stesso tempo una sorta di consulente del Ministero degli Esteri norvegese, un membro del Comitato Direttivo della War Resisters’ International (a Londra) e il presidente di una sezione di tale organizzazione in Norvegia. Ciò nonostante ero infelice: in un caso ci si basava sull’uso dei proiettili e delle bombe, sull’altro delle parole.

Quindi cercherò di guidare il lettore verso una professione per la pace come un qualcosa che emerge da tale contraddizione, perché è così che ha funzionato nel mio caso: come un tentativo di colmarne la distanza.

Evidentemente siamo alla ricerca di una figura, il professionista per la pace, che possa trascendere la dicotomia governo-movimento per la pace. L’idea che i governi siano inseriti sul binario 1 e gli altri sul binario 2 rappresenta tale dicotomia nel suo stato attuale. Non si tratta neanche di stabilire come mai i governi non viaggino sul binario 1 con la speranza che i non-governi possano attuare una compensazione e consentire un binario 0 come risultato. Visti i danni di cui la diplomazia governativa è capace, questa è una visione più che ottimista. Abbiamo bisogno di una soluzione migliore.

II L’EMERGENTE PROFESSIONE PER LA PACE

Alcune caratteristiche richieste per svolgere tale professione sono chiare. Primo, un professionista per la pace avrà come clienti sia governi che non governi e presterà consulenza a entrambi. Come nella sanità, le capacità del professionista per la pace saranno messe egualmente a disposizione non solo ad amici e rivali, ma anche ad autorità ufficiali (i governi) e a civili (non-governi). Tale professionista non dovrà pensare in termini di amico-rivale o autorità-civili, ma in termini di attori con un disperato bisogno di ricevere qualunque consiglio utile a muovere l’intero sistema di attori più vicino alla pace. La pace è una relazione tra attori, un sistema, cioè, e non una proprietà di uno soltanto di loro. Il professionista per la pace intratterrà dialoghi individuali con ciascun attore, ma avrà come scopo ultimo, nella suo piano complessivo, il sistema di attori.

Secondo, il professionista per la pace respinge l’uso della violenza in quanto il movimento per la pace è basato sull’idealismo del cuore. Ma, inoltre, dovrà combinare l’idealismo del cuore con il realismo del cervello. Questo conduce a una concreta pace attraverso mezzi pacifici: un rifiuto della violenza fondato meno sul piano del moralismo e più su quello del pragmatismo. La violenza non è efficace. Lo spargimento di sangue sul campo di battaglia è come una sanguisuga che succhia sangue. Non è solo inefficace, ma può anche rendere le cose peggiori. Benché non si neghi qualche preventivo e curativo effetto di un minimo di (o minaccia di) violenza, l’approccio del professionista per la pace consentirebbe di escludere l’uso della violenza dal repertorio della creazione di pace e di attingere di più dalla ratio e meno dagli ultima.

Una terza caratteristica del professionista per la pace marca ulteriormente una differenza di base con il passato. Senza rifiutare l’empirismo (legare teoria e dati) e il criticismo (legare dati e valori come metodo di base dell’attività intellettuale), il professionista per la pace sarà portato a concentrarsi su una terza possibilità, il costruttivismo, che prevede il legame tra valori e teoria. I valori sono estraibili dagli obiettivi legittimi delle parti coinvolte in un conflitto, e la teoria è estrapolabile dalle varie realtà attuabili. L’ideale consiste nel creare una realtà dove le parti si sentono a proprio agio e i cui obiettivi possano essere sufficientemente soddisfatti.

Immaginiamo che un bambino, alle prese con sottrazione e addizione di numeri interi, stabilisca che 5+7=7+5=12, che 7-5=2 e che giunga a un ostacolo nel momento di risolvere il problema 5-7. La contraddizione tra l’essere matematicamente corretti e il fatto di gestire il problema relativo a 5-7 si dissolve nel momento in cui i numeri negativi, una nuova realtà matematica, è stata introdotta. E il bambino non sarà più bloccato.

La sfida consiste nel trovare una via che consenta di non sentirsi inceppati tra il pragmatismo che porta, per definizione, a legare i dati alle teorie e il moralismo che conduce a legare i dati ai valori. Il professionista per la pace cercherà qualcosa di diverso, così come farebbe un medico che abbia realizzato che se il sistema corporeo avesse una sufficiente capacità di autoriscaldarsi avrebbe, al tempo stesso, la capacità di produrre buona salute. Né soltanto l’empirismo, né soltanto il moralismo aiuta, anche se la loro esistenza non deve essere ignorata. È necessario un intervento che apporti qualcosa di nuovo, sia nel campo della pace che in quello della salute.

La quarta questione da affrontare è che i paradigmi tanto della sicurezza quanto della persuasione mancano di essere opzioni appetibili. La prima fallisce perché tutti gli sforzi tesi alla dissuasione attraverso l’uso della violenza possono generare come conseguenza una corsa agli armamenti. Inoltre, le azioni per sconfiggere l’altro attraverso l’uso della violenza possono causare traumi e stimolare anch’essi a una rincorsa alla violenza e l’innesco di un ciclo vizioso di ritorsioni. Il paradigma della persuasione fallisce anch’esso in quanto non è basato né su idee, né su incentivi, né sulle minacce. Né fatti né valori sono, da soli, guide sufficienti per l’azione. Le parti giungeranno a un punto morto.

Un governo messo di fronte a uno stato di insicurezza – un rischio di subire violenza – deciderà le azioni da intraprendere sulla base del paradigma della sicurezza. Né la più brillante analisi alla Noam Chomsky, né la più pungente ammonizione morale alla Papa Giovanni Paolo II possono procurare una guida per l’azione che conduca al di là dello status quo improntato al “No, No, No”. Qui è dove il professionista per la pace è chiamato in causa, focalizzandosi innanzitutto sui conflitti presenti da risolvere, poi sui traumi “inconciliati” provenienti dalle violenze passate e sui conflitti passati rimasti irrisolti, e, in ultimo, trovando alternative costruttive. Un’agenda molto ricca di azioni da compiere.

Tutto ciò richiama alla mediazione dei conflitti del presente e alla conciliazione dei conflitti del passato (scartando il “ri” di riconciliazione, in quanto essa è preposta al risanamento di un passato dal ricordo non necessariamente piacevole). Questa è l’essenza del paradigma di pace. Esistono conflitti profondi. E possono condurre alla violenza. Non c’è un’altra via d’uscita: risolvere i conflitti, presenti e passati. Se ciò è ben fatto, otterremo pace, non solo sicurezza.

A ogni modo queste sono solo due delle opzioni di cui il professionista per la pace può avvalersi. Di seguito c’è un lista più lunga di rimedi:

 

  1. ricerca per la pace e studi per la pace;
  2. soddisfazioni dei bisogni fondamentali, cultura di pace, struttura di pace;
  3. moderazione degli obiettivi e analisi delle conseguenze;
  4. mediazione per la trasformazione dei conflitti attraverso mezzi pacifici;
  5. controllo della rabbia;
  6. peace-building intriso di un’educazione alla pace e di nozioni del giornalismo di pace;
  7. nonviolenza e peace-keeping moderato;
  8. conciliazione volta alla rimozione dei traumi passati;
  9. creazione di circoli di pace virtuosi.

 

Non è questa la sede per spiegare nei minimi dettagli il significato di questi punti. Per il professionista per la pace l’impresa consiste nell’aderire a un programma di “pace attraverso mezzi pacifici”, senza soccombere né al pragmatismo violento dei governi né allo status quo moralista del “non in mio nome” tipico dei movimenti per la pace. Il bacino degli strumenti disponibili sopra menzionati ai numeri da 1 a 4 rientra nell’ambito della terapia preventiva, quelli da 5 a 8 rappresentano la terapia curativa, e al numero 9 è menzionato ciò che consentirebbe di costruire una pace positiva all’interno del sistema, traendo dai conflitti il loro creativo e costruttivo potenziale, invece che soltanto quello violento e distruttivo. Ognuno di questi strumenti a disposizione del professionista per la pace si basa su una diagnosi e una prognosi delle malattie sociali. C’è così tanto da fare.

Quali strumenti, quindi, corrispondono ai metodi utilizzati dai governi e quali ai movimenti di pace (metodi I, II, III e IV nella tabella)? Come rispondiamo all’opinione generale che la violenza diretta rappresenta il fumo che proviene dal fuoco dei conflitti non risolti o dalla violenza passata rispetto a cui non vi è stata conciliazione? In via generale, il problema viene affrontato attraverso il potere della parola, dia logos, aiutando, cioè, le parti a raggiungere una visione più profonda e non corrompendole, minacciandole o rimarcando quanto sono cattive. Questo è ovviamente molto simile alla pratica su cui si fonda la psicoterapia: il metodo dialogico. Per questo tipo di socioterapia, la violenza, così come il conflitto e la pace, è una relazione. In tal caso un sistema di attori, e non solo di attori individualmente considerati, è ciò che si deve modificare. Il professionista per la pace deve dialogare con ciascun attore; come egli o ella parlerà con loro può essere oggetto di discussione. Ci sono scuole di pensiero ovunque, ciascuno con i propri punti di forza.

Come da tabella, l’approccio TRANSCEND (Rete per la Pace e lo Sviluppo) consiste di quattro fasi:

 

  • Metodo I: Incontrare tutte le parti, una a una.
  • Metodo II: Conduzione di dialoghi empatici per far emergere la creatività.
  • Metodo III: Dimostrazioni di:
  • trascendenza degli obiettivi, positivamente e negativamente
  • creazione di un nuovo sistema di realtà, idoneo a conciliare gli obiettivi legittimi di tutte le parti;
  • Metodo IV: Azione congiunta per trasformare il conflitto verificandone costantemente l’efficacia. In caso negativo, si applicano nuovamente i Metodi I-II-III-IV.

 

Tale approccio differisce sostanzialmente dagli approcci convenzionali, sia tipici dei governi che dei movimenti per la pace. L’impulso morale, il (pressappoco assoluto) “No” alla violenza è condiviso con i movimenti per la pace, ma il pragmatismo del Metodo IV (azione congiunta) è condiviso con i governi. Non esiste una posizione apodittica, né una verità a priori. Tutto viene testato per valutarne la validità e tutto deve passare tale test.

Il centro dell’attenzione non è più su una parte vincente, come, ad esempio, l’ETA o Madrid, e neanche su entrambe le parti vincenti, la famosa vittoria-vittoria. L’attenzione verrà posta sulla relazione, sul sistema, sulla Spagna che avanza verso una nuova e migliore realtà. Coloro che poggiano su tappeti d’oro, tappeti di bombe, o volano sul tappeto della morale sono spesso a corto d’idee. I professionisti per la pace hanno caratteristiche diverse. Tertium datur.

III DATA LA DISPONIBILITÀ DI UN LAVORO PER LA PACE, ESISTE ANCHE UNA

DOMANDA DI LAVORATORI PER LA PACE?

Mezzo secolo dopo il modesto esordio della peace research in seguito alla seconda guerra mondiale – inclusa la fondazione dell’Associazione Internazionale per la Ricerca per la Pace (International Peace Research Association – IPRA -) 42 anni fa, durante quei nebbiosi giorni a Londra – si ritiene vi sia una forte disponibilità da offrire in merito. Tuttavia, la domanda più assillante è: vi è, là fuori, una richiesta di professionisti per la pace?

Esiste, e il lettore mi perdonerà se fornisco come esempio quanto conosco meglio: ciò che mi è stato chiesto di dire o fare durante la primavera del 2006 – da metà febbraio a metà giugno per essere precisi. Mi sono occupato di dodici casi (o 12 processi nello specifico), alcuni dei quali hanno avuto più successo, altri meno, ma tutti comunque con una certa promessa. L’iniziativa provenne da un intermediario che fu in grado di organizzare un incontro diretto con una o più parti coinvolte nel conflitto. In nessun caso nessuna delle partì coprì le spese di viaggio. Non se ne trasse alcun onorario. Ma il viaggio fu inserito nel contesto di seminari sulla mediazione, sulla conciliazione e così via e questo consentì di bilanciare le spese. Una formula tra le tante?

Prima di addentrarci nell’analisi dei singoli casi: da quale fonte non ci aspetteremmo una richiesta di questo tipo (direttamente o indirettamente) attraverso l’ausilio di un intermediario? Ovviamente da coloro per cui “Vincere non è tutto, ma è l’unica cosa.” Gli egemoni, forse, e i loro sfidanti? O coloro che ritengono già di padroneggiare tutte le abilità necessarie – coloro che pensano di non avere bisogno di un ausilio proveniente dall’esterno, neanche dell’ausilio candidamente offerto dallo sguardo di quattro occhi (o di otto, se tutte le parti arrivano con un collega nella formula dell’uno-a-uno)? Qualunque sia la ragione, il sottoscritto Autore non è stato avvicinato, direttamente o indirettamente, dagli Stati Uniti o dalla Norvegia; è stato avvicinato, per contro, da molti altri paesi, incluso il Regno Unito.

La descrizione dei casi è stata fornita attraverso minimi e sufficienti elementi necessari a identificare il problema e la tipologia di domanda di professionisti per la pace (per ulteriori dettagli il lettore può consultare il sito www.transcend.org):

  1. Danimarca vs. Islam, a Ginevra. Oltre alla controversia riguardante la pubblicazione di vignette, vi fu il rifiuto da parte della Danimarca di impegnarsi in un dialogo e il precedente rifiuto del giornale di pubblicare fumetti sull’ascesa di Gesù in Paradiso (perché avrebbe potuto urtare la sensibilità dei cristiani), in aggiunta all’incendio di bandiere danesi e ambasciate e la minaccia di boicottaggio economico. Ci fu la richiesta di una mediazione.
  2. Germania vs. popolo Herero, a Windhoek. Il caso, che aveva come oggetto la richiesta di scuse (“la richiesta di scuse equivale alla richiesta di ammissione di responsabilità”) e di risarcimento per il massacro del 1904 fu imbastito contro la Germania e gli altri paesi europei temevano le conseguenze dell’ammissione e del risarcimento e, inoltre, la natura di ciascuna forma risarcitoria. La richiesta fu di conciliazione.
  3. Sri Lanka, a Vienna. La questione riguardò la rottura di un accordo di cessate il fuoco con i belligeranti che ancora speravano di imporre la loro soluzione al conflitto. Delle cinque prospettive offerte – stato unitario, decentramento dei poteri, federazione, confederazione, indipendenza – una federazione bicamerale asimmetrica sembra ancora quella migliore. La domanda fu di mediazione.
  4. Israele – Palestina, a Berlino. La questione fu relativa alla costruzione di una struttura per la pace scaturente dall’istituzione di una Comunità del Medio Oriente formata da Israele e dai suoi Stati arabi confinanti (con la previsione del totale riconoscimento della Palestina come previsto dalla risoluzione delle Nazioni Unite), come era avvenuto per l’Unione Europea dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Venne richiesta la ricerca di ulteriori soluzioni.
  5. Turchia-Armenia, a Istanbul. “Successe qualcosa” di grande complessità nel 1915 e che coinvolse più parti e non solo queste due. Si ricercava anche una spiegazione di quanto successe quell’anno in maniera tale che tale questione potesse essere rimossa dall’agenda politica e che la Regione potesse andare oltre. La richiesta fu di conciliazione.
  6. La questione del Kashmir, a New Delhi. L’iniziativa fu assunta da TRANSCEND, assieme a un ex Ministro degli Esteri pachistano, un membro della Commissione Indiana per la Sicurezza Nazionale e me che proposi una “nuova realtà” volta a soddisfare l’India, il Pakistan e il Kashmir. L’iniziativa fu ben accolta e venne discussa ai più alti livelli. La richiesta fu di mediazione.
  7. Myanmar, a Yangon. Una dittatura militare sostiene l’autonomia del Myanmar con la volontà di evitare le secessione del paese; l’opposizione è sostenuta da attori esterni e propone la democrazia e l’affermazione dei diritti umani. L’assolvimento di tutti e quattro gli obiettivi (rimuovere i traumi passati in favore di accordi di cooperazione) può essere la prospettiva migliore. La richiesta fu di mediazione e conciliazione.
  8. Cambogia, a Phnom Penh. “Successe qualcosa”, in effetti, dal 1975 al 1979: i Khmer Rossi contro Phnom Penh. Ma nel più lungo periodo che andò dal 1961 al 1989 (e ancor prima) “accadde” molto altro. L’individuazione di atrocità da giudicare dinnanzi a un tribunale assolve il fine della giustizia punitiva. Ma permane il problema della conciliazione. La richiesta fu per una conciliazione olistica.
  9. Corea, a Seoul. La guerra di Corea (1950-53) svolse un ruolo importante per la guerra fredda e cominciò nel 1948 con la rivolta di Cheju contro l’occupazione americana. Le ragioni della Corea del Nord di sostenere la Corea del Sud contro l’invasione americana non erano prive di fondamento. La richiesta fu di conciliazione attraverso l’ausilio di una commissione storica per verificare quanto avvenne in passato.
  10. Giappone-Cina/Corea, a Tokyo. Le visite del Primo Ministro giapponese al santuario Yasukuni (che divinizza gli ufficiali giapponesi deceduti) acuivano il trauma derivante dalla guerra. La richiesta di erigere un ulteriore memoriale dedicato agli ufficiali e ai civili deceduti di tutti i paesi fu sollecitata e presentata a gran parte del Partito Liberale Democratico giapponese. La richiesta fu di conciliazione.
  11. USA, a Washington. L’impero americano è in decadenza e la politica estera americana deve essere cambiata, ma in che modo? Sono stati organizzati dei seminari, ma il movimento per la pace è impreparato, così come lo è l’opposizione dei Democratici. La richiesta è di peace reasearch e di affermazione di modelli per la pace.
  12. Messico, a Puebla. L’integrazione dell’America Latina sta procedendo a grandi passi e uno dei problemi maggiori a cui far fronte è il coordinamento della politica estera in generale e delle politiche nei confronti degli Stati Uniti in particolare. Sono stati organizzati seminari, ma la maggior parte delle persone sembra impreparata. La richiesta è di peace research e di affermazione di modelli per la pace.

 

Il lettore avrà notato che la richiesta di professionisti per la pace può, in gran parte, essere formulata in termini di mediazione e/o conciliazione. Ma vi è altresì la richiesta di svolgimento di servizi più elementari, come la costruzione di strutture pacifiche e di peace research per esplorare i bisogni. A ogni modo quanto i professionisti per la pace possono offrire, compresi i nove rimedi enunciati, rimane a disposizione e sarà, prima o poi, sicuramente riproposto da chi svolge questo tipo di professione.

Questa metodologia funziona? Riprendiamo i casi prospettati. Nel primo caso (Danimarca e Islam) funzionò. Sono intercorsi dialoghi tra le parti e l’incendio delle bandiere danesi è cessato. Ma una richiesta di scuse, un’esplorazione del confine tra libertà di espressione e rispetto di quanto è considerato sacro da altri e la cessazione del boicottaggio ancora non sono volti al termine.

I casi numero 2 (Germania/popolo Herero), 5 (Turchia/Armenia) e 8 (Cambogia) sono complicati ed è necessario più lavoro in proposito. Il caso numero 3 (Sri Lanka) è piuttosto grave attualmente (ricordiamo la primavera/estate 2006), ma il prospettarsi di una situazione pericolosa potrebbe, la prossima volta, condurre alla pace e non solo a un cessate il fuoco e a ulteriori chiacchiere. Per il numero 4 (Israele-Palestina), la Comunità del Medio Oriente è forse l’unica soluzione per la pace in Medio Oriente, ma è un progetto a lungo termine, benché più necessario che mai. Nel caso numero 6 (Kashmir) vi sono buone probabilità di successo fintanto che quei due leader sono in carica, ma questo non potrà essere per sempre. Il Myanmar (caso numero 7), da parte sua, ha rallentato il proprio dinamismo e tale situazione risulta compatibile con l’idea di un Myanmar tenuto sotto controllo, e non parte di una “comunità internazionale”. Il caso numero 9 (Corea) può svolgere una parte importante nel processo di avvicinamento tra Corea del Nord e del Sud. Quanto richiesto nel caso numero 10 (Giappone-Cina/Corea) è, in un modo o nell’altro, già inserito in agenda. Quel che risulta necessario fare nei casi numero 11 (modificare la politica americana) e 12 (procedere all’integrazione dell’America Latina) sarà fattibile in un prossimo futuro, più consapevole.

Abbiamo a che fare con dei sistemi, non con singoli attori. I lavoratori per la pace devono divenire degli specialisti delle relazioni – specialisti con la più elevata consapevolezza circa le capacità di peace-making, peace-keeping e peace-building di tutti gli attori in gioco. Ovviamente, la maggior parte di questi processi richiede tempo, così come per un essere umano il guarire da una grave malattia. Inoltre, nessun rimedio si offre con la garanzia che funzionerà sempre. A volte, l’applicazione di un rimedio può anche rivelarsi controproducente, quindi è necessario prestare molta attenzione. A ogni modo, la richiesta di professionisti per la pace è enorme. E noi abbiamo molto da offrire.

Titolo originale: “Foreign policy pragmatism and peace movement moralism: can the gap be bridged – or tertium non datur?”

in: Shin Chiba,Thomas John Schoenbaum, editors, Peace Movements and Pacifism After September 11, Edward Elgar, 2008, pp. 173-182

Traduzione di Silvia De Michelis pe il Centro Studi Sereno Regis

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