Perché non ho partecipato alle primarie del Partito democratico – Pietro Polito

Dal 1975, quando ho votato per la prima volta alle elezioni amministrative, quelle dal cui esito favorevole alla sinistra scaturirono le cosiddette “giunte rosse”, mi sono sempre recato alle urne.
Diversamente non ho mai partecipato alle primarie che in successione hanno indicato Romano Prodi e Walter Veltroni come candidati premier del centrosinistra alle elezioni politiche generali, Pier Luigi Bersani alla guida del Partito democratico, Pierluigi Bersani come candidato della coalizione “Italia bene comune” alle prossime elezioni politiche della primavera 2013.
Perché non ho partecipato alle recenti primarie del Partito democratico? Prima di rispondere, vale la pena ricordare perché sono state primarie di partito e non del centro sinistra. A dire il vero il motivo è sotto gli occhi di tutti e non lo vede solo chi non lo vuole vedere: le due ali esterne al partito, Bruno Tabacci e Nicola Vendola, sono in realtà, o almeno come tali vengono percepite, due componenti interne, come quella di Laura Puppato, o destinate a divenire interne dello stesso partito.
In passato non ho partecipato ai “plebisciti” per Prodi e Veltroni perché non amo i plebisciti. La contesa per la scelta del segretario del Partito democratico non mi ha riguardato non essendo iscritto a quel partito. Ma le ragioni per cui mi sono tenuto alla larga dai seggi (rubo l’espressione a Marco Revelli) non sono di appartenenza partitica.
Tali ragioni sono state in parte espresse bene e preventivamente da Revelli nel corsivo Non m’impegno per un voto minore …, “Pubblico”, domenica 25 novembre 2012.
Revelli adduce tre argomenti: la natura delle primarie come strumento di partecipazione e di selezione politica; la natura di “queste primarie”; la natura dell’impegno assunto partecipando alle primarie del Partito democratico.
In primo luogo, le primarie simulano “una forma spettacolare di democrazia esterna”, rispetto alla classica “democrazia dei partiti”, esse sono “un surrogato di partecipazione, alla fine si risolvono in “un bell’evento pubblicitario”, le primarie non sono una delle forme virtuose della politica.
Queste primarie poi, a giudizio del “politologo di mestiere”, rappresentano un caso che non si è mai visto “in nessuna parte del mondo”, inoltre rese ancora più complicate attraverso “regole cervellotiche”, che contravvengono alla regola aurea: “le regole di una competizione elettorale dovrebbero essere scritte dietro un velo d’ignoranza”, come insegna John Rawls.
Infine, e questa ragione concerne il merito della posta in gioco, il motivo fondamentale per non partecipare alle primarie, sta nel fatto che l’affermazione del partito di Bersani ma anche di quello di Renzi avrebbe implicato l’assunzione dell’impegno “in filigrana” a votare per il partito di Monti.
Al riguardo il rischio che questa sinistra ci riporti a Monti appare più che fondato. Basti dire che tra i tanti sostenitori dell’attuale Premier – Confindustria, Vaticano, i vari “centro” che ci sono in giro, l’ala destra del Partito democratico – si è aggiunto a pieno titolo il più importante giornale della sinistra, “la Repubblica”. Il giorno dell’incoronazione di Bersani il fondatore del giornale lo delegittima come possibile futuro Presidente del Consiglio, scrivendo che il modo migliore per utilizzare le “indubbie capacità [di Monti] a vantaggio dell’Italia e dell’Europa … sarebbe un Monti Presidente del Consiglio in un governo guidato dal Pd”.
Come si è visto, dunque, alle primarie come strumento si possono muovere obiezioni circa la loro dimensione troppo eventistica e circa il carattere più o meno aperto delle regole.
Concordo con Angelo Panebianco, le regole di queste primarie avrebbero potuto essere più liberali, non erano “roba da apparato, da DDR” (così il più radicale dei renziani, Lino Paganelli), ma non hanno certo brillato per apertura e inclusione. Allo stesso modo ha ragione Michele Serra quando scrive che, al termine di “quindici giorni che hanno sconvolto il centrosinistra”, “la sinistra si è lasciata colonizzare dalla telepolitica e l’ha colonizzata, con le rispettive contaminazioni del caso” (Diario dei 15 giorni che sconvolsero il Pd, “la Repubblica”, domenica 2 dicembre 2012).
Tuttavia la ragione principale per cui personalmente non ho partecipato alle primarie del Pd non riguarda lo strumento quanto piuttosto l’”offerta politica” delle primarie. Quanto allo strumento, infatti, trovo enfatica ma non del tutto fuori luogo questa frase di Vendola: “Le primarie sono state una luce nel buio della crisi italiana, hanno rimesso al primo posto nell’elenco delle risorse che ci servono la partecipazione democratica” (“La Stampa”, lunedì 3 dicembre 2012).
Osservo, però, e credo che il leader di Sinistra e libertà sia della stessa idea, che le primarie sono una forma di democrazia indiretta, una espressione della democrazia della delega, che andrebbe irrobustita con forme di democrazia diretta. La democrazia è tanto più in salute quanto più include nuovi soggetti, gli stranieri, quanto più si estende e si afferma in nuovi spazi, la scuola, l’esercito, il lavoro, i partiti, quanto più si riduce il distacco tra la rappresentanza e l’autogoverno.
Detto in breve, non ho partecipato al voto perché penso che le proposte politiche che si sono confrontate alle primarie democratiche non rispondono in modo adeguato alla domanda di sinistra che c’è nel Paese e in Europa. Questo giudizio riguarda in diversa maniera il cattolicesimo democratico di Bruno Tabacci, l’ecologismo democratico di Laura Puppato, il neosocialismo comunitario di Nicola Vendola, il neoliberalismo di Matteo Renzi, la neosocialdemocrazia di Pierluigi Bersani.
Segnalo in questa circostanza il limite più evidente e più grave.
Tali proposte politiche sottendono l’idea di una sinistra italocentrica, al più eurocentrica, come tale poco attrezzata, se non maldisposta, a rispondere alle sfide globali del nostro tempo. Si è soliti dire che le grandi decisioni politiche si prendono in Europa per indicare l’esigenza di uno sguardo più largo e non ristretto al recinto dei confini e degli interessi nazionali. Non basta.
Le grandi questioni su cui la sinistra è in ritardo o appare sorda, sulle quali si misura la capacità e la possibilità stessa della sinistra del futuro di avere un futuro, sono: la rivoluzione delle donne, la cultura dei diritti trasportata sul piano planetario, la promozione di una religione aperta contrapposta alle religioni fondate su una verità unica, la difesa della natura, il conflitto tra ambiente e lavoro, il progetto di un altro modello di sviluppo, la cultura della pace e della nonviolenza.
Di tutto questo ho trovato poco o nulla nella carta d’intenti “Italia bene comune” e poco o nulla ho letto o ascoltato in più di un mese di politica mediatica.

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