In memoria di Pier Cesare Bori

Enrico Peyretti

Ricevo, lunedì 5 novembre, la notizia della morte di Pier – prevedibile a breve, ma è sempre troppo presto – mentre vedo le Alpi già tutte bianche, splendenti in un sole lucidato dal vento. Immagine dell’immensità.

Un’sms di Elena: “Pier è nella pace”. Ora, invisibile, rimane con noi, amico vibratile di sentimenti fini e grandi, di ricerca inesausta e sofferta, di cammino senza posa, di sete e passione di ciò che è più vero e puro.

Scriveva agli amici nell’ultima sua mail, del 24 ottobre:

«Eccomi! Mi commuove sentire la sollecitudine di tanti cari, vecchi amici, per la mia salute. Devo affrontare una recidiva del mesotelioma (tumore causato dall’amianto respirato in gioventù), provando con una seconda chemioterapia, il cui esito non è affatto certo. Questa chemio – oppure la malattia in sé – comporta vari malesseri e disagi fra cui un grande gonfiore del ventre. Quando ho saputo della recidiva, da cui non si guarisce, anche se si può provare a curare, ho scritto un testo autobiografico, che ho chiamato CV, curriculum vitae, con ironia.  Se qualcuno di voi non ce l’ha e lo vuole, gli mando un  PDF. Uscirà presto da Il Mulino, e ci sarà anche un DVD, con molte mie foto. In tutto c’è molto “io” e “mio”, ma affidati e come dissolti in una quantità di rapporti e di amicizie.

Non mi mancano le risorse spirituali per affrontare queste difficoltà: la semplice preghiera di invocazione, la meditazione che ti aiuta a sorridere delle cose che passano. Ma ci sono e ci saranno momenti di angoscia e o di paura o di dolore fisico in cui è difficile attingere a quelle risorse, mentre vorrei vivere al meglio anche quei momenti. Forse qualcuno di voi ha dei suggerimenti da darmi… Comunque, forza a noi tutti!  Un saluto caro a tutti, Pier Cesare».

Tengo in cuore l’immagine del 14 settembre, quando passai a casa sua: Elena preparava le pizze per tutti, Pier coi suoi compagni di lavoro e allievi in cerchio – c’ero anch’io sulla porta – consegnava, in qualche modo, l’eredità della sua vita, illustrando il suo CV in bozze. Non lo perdiamo, noi suoi amici. I morti cari li abbiamo così vicini che non si vedono.

Altri ricostruirà il suo cammino di studioso, ricercatore accurato sul piano storico e filologico, e mostrerà l’ampiezza dei suoi interessi religiosi, morali, nonviolenti. Bastino qui pochi cenni: la chiesa delle origini e la patristica, il consenso etico tra le culture, la pluralità delle vie, i diritti umani, l’opposizione alla pena di morte, la spiritualità americana, cinese, giapponese (viaggiò e insegnò in questi continenti), la Bibbia, il movimento dei quaccheri (al quale appartenne senza rinnegare il cattolicesimo; diceva che quella dei quaccheri era «l’unica forma decente», o la più decente, di cristianesimo), il dialogo con l’islam, la pratica buddhista, Pico della Mirandola, Freud, Tolstoj, Gandhi, Simone Weil, Schweitzer… Guardando la sua bibliografia si vedrà quante finestre ha aperto a chi era in contatto con lui.

Insegnava filosofia morale (diceva: «Faccio scuola elementare universitaria», e qualche accademico credeva che fosse poco) soltanto leggendo e analizzando i testi da tutte le sapienze umane, di ogni tempo, il più possibile nelle lingue originali, che imparava. E faceva scuola in carcere, con lo stesso metodo che in università (vedi Lampada a se stessi), soprattutto con gli immigrati, i quali spesso scoprivano grazie a lui la dignità della cultura e della spiritualità dei propri popoli, e lo ricambiavano di amicizia e fiducia totale.

Pier Cesare è morto per l’amianto respirato da ragazzo nell’aria di Casale Monferrato, dove abitava allora, e poi non più. Dopo più di mezzo secolo, il mesotelioma nel giro di due anni gli ha tolto il respiro. È l’ennesima vittima di quel delitto industriale già condannato dal tribunale di Torino, ma ancora operante. E il picco della malattia dei contaminati arriverà nel 2020. Operato l’anno scorso, con l’asportazione di un polmone, ha avuto una recidiva alcuni mesi fa, non guaribile, come lui sapeva bene.

Sabato pomeriggio Renata e Rino erano da lui. Mi scrive Rino: «Pier ha avuto momenti di sofferenza molto lenita e di bella vigilanza. Ad un certo momento, eravamo tutti piuttosto sereni, abbiamo trovato al hospice una Bibbia e mi ha detto di leggere la prima lettera di Giovanni. Dopo che sono arrivato a leggere 2,9-11 mi ha detto di fermarmi. “Di’ qualcosa”, ha aggiunto. Giro l’invito a tutti noi, per suggerimento di Renata».

Copio questi versetti. Ognuno può vedere la parte precedente:

«Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v’è in lui occasione di inciampo. Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1Gv 2,9-11).

Per me, Pier è l’amico che ho sentito più prossimo come cammino e ricerca, fin dalla giovinezza, quando, a Roma, ventenni, lavoravamo insieme nella Fuci. Abbiamo continuato a parlarci, io ad imparare. Alla nostra età si parte alla spicciolata, ma non ci si perde. Pier amava un altro versetto del vangelo di Giovanni, caro ai quaccheri: «Era la luce vera, che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (1,9).


Era appena stato nominato titolare della cattedra Unesco per il pluralismo religioso e per la pace. E pochi giorni fa, saputo della nomina di cui era onorato, aveva detto: “Farò ciò che mi permetterà la mia situazione critica di salute”. Non ce l’ha fatta, Pier Cesare Bori, il professore dei diritti umani. E’ morto ieri all’età di 75 anni.

Arrivato a Bologna negli anni ’70, chiamato da Giuseppe Alberigo all’Istituto per le Scienze religiose, ha poi seguito la strada accademica: è stato docente sino dal 1970 ricoprendo l’incarico di professore di Storia del Cristianesimo e delle Chiese a Scienze politiche, insegnando anche Filosofia morale e diritti umani nella globalizzazione. Direttore, con il professor Gustavo Gozzi, del Master in diritti umani e intervento umanitario, è stato visiting professor in Usa, Giappone e Tunisia.

Tra i suoi scritti, Chiesa primitiva (Paideia, 1974), Il vitello d’oro (Boringhieri, 1983), L’interpretazione infinita (Il Mulino, 1987). La sua ricerca su Lev Tolstoj è sintetizzata in L’altro Tolstoj (Il Mulino), e nella traduzione dal russo di Pensieri per ogni giorno (Edizioni cultura della pace). Ma quello di cui andava fiero ultimamente era la traduzione in arabo, che aveva curato dopo l’edizione cinese, del discorso sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola.
Bori era nato a Casale nel 1937, ha studiato giurisprudenza, teologia, scienze bibliche. Sul tema dell’etica interculturale ha pubblicato “Per un consenso etico tra culture” (Marietti 1995) e “Per un percorso etico tra culture” (Nuova Italia 1996). Dall’esperienza con i suoi studenti nelle carceri è nato il libro “Lampada a se stessi”.
I funerali accademici potrebbero essere giovedì in Cappella Bulgari, all’Archiginnasio.
“Silenzio, meditazione e non discorsi”, ha chiesto il professore nelle sue ultime volontà. E una cerimonia accogliente, che non escluda nessuno. Nello stile con il quale ha vissuto.

Luciano Benini e Ilaria Venturi

 

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