Nicola and Bart. Sacco e Vanzetti a 85 anni dalla morte

Massimiliano Fortuna

La vicenda, nelle sue linee di fondo, è molto nota. Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, Nicola and Bart, erano due italiani di credo anarchico emigrati negli Stati Uniti. Arrestati nel maggio del 1920, con l’accusa di rapina e duplice omicidio, vengono condannati alla pena capitale. Nonostante molti dubbi sulle modalità processuali comincino a farsi strada in una porzione dell’opinione pubblica americana e nella stampa (persino in quella quasi reazionaria), e nonostante il moltiplicarsi di manifestazioni di protesta in varie parti del mondo e di appelli in favore della loro liberazione, le mozioni per l’apertura di un nuovo processo non vengono accolte. Il 23 agosto 1927 i due anarchici salgono sulla sedia elettrica. Passati cinquant’anni esatti il governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, li riabiliterà ufficialmente.

Sacco e Vanzetti sono diventati quasi un mito pop del Novecento: cantati da Joan Baez, ricordati in film e documentari, paradigma delle battaglie contro la pena di morte e l’ingiustizia delle istituzioni statali. In occasione dell’ottantacinquesimo anniversario della morte Claudiana ha pubblicato un libro, curato da Lorenzo Tibaldo (già autore, pochi anni fa e sempre presso Claudiana, di un volume che ricostruiva la loro storia: Sotto un cielo stellato), che contiene le loro lettere e altri scritti dal carcere. Una buona occasione per incontrare i due uomini al di là dei simboli che sono diventati. Proprio Vanzetti, in una delle sue lettere, scrive: “poche pagine di un uomo dicono molto più di una voluminosa biografia”.i

Gli scritti di Sacco, sovente circoscritti in un’atmosfera intima e legata all’ambito familiare, sono assai meno numerosi di quelli di Vanzetti, il quale, invece, quasi impressiona per le sue capacità di comunicazione e, ancor più, per la sua consistenza intellettuale e la vastità di interessi e di letture fatte, nonostante una vita vissuta spesso in condizioni disagiate e all’insegna della fatica del lavoro. Le sue pagine sono contrappuntate da analisi politiche e sociali, considerazioni filosofiche e religiose, note storiche; leggendolo si è portati a condividere l’impressione che il suo avvocato William Thompson mise sulla carta nel ricordo del loro ultimo incontro, e cioè che in lui nulla ci fosse del fanatico o dell’indottrinato incapace di ascoltare e vagliare posizioni diverse dalla sua.

Ad ogni modo una cosa sembra emergere con chiarezza sia dalle pagine di Sacco che da quelle di Vanzetti, e cioè una sincera dedizione agli ultimi, ai più poveri, a quanti rotolano ai bordi della vita sociale, in conformità con il loro credo anarchico, che si può condensare nel rifiuto appassionato di ogni forma di sfruttamento perpetrato dagli uomini ai danni di altri uomini e nella ricerca di un modo di vivere che consenta la maggiore uguaglianza possibile di opportunità.

Se torniamo al fatto che li ha visti protagonisti, possiamo individuare diversi nuclei di discussione che si implicano e in un certo senso scaturiscono uno dall’altro. Questa storia, infatti, può essere considerata perlomeno sotto tre aspetti: la si può seguire, in primo luogo, come evento processuale a sé; in secondo luogo come un caso giudiziario che permette un’analisi della società e della giustizia statunitensi dell’epoca; infine come una storia emblematica che induce a riflettere sull’intreccio fra il potere e la protesta, sull’ordine costituito e la contrapposta volontà di modificarlo, e sui metodi con i quali ci si propone di farlo, vale a dire se ispirati alla violenza o meno.

In prima istanza ci troviamo dunque di fronte a un processo, a un’inchiesta giudiziaria, al cui svolgimento ci si può quasi appassionare come se si trattasse di un abile racconto poliziesco. Sacco e Vanzetti erano colpevoli o innocenti rispetto alle accuse che gli vennero rivolte? È opportuno ricordare che fra quanti, nei decenni successivi, si sono occupati del caso non si dà perfetta uniformità di vedute. Accanto a una letteratura innocentista, ormai maggioritaria, se ne trova una colpevolista, a propria volta suddivisa in due filoni: nel primo si contano coloro che considerano entrambi colpevoli, nell’altro quanti ritengono colpevole il solo Sacco, o quantomeno molto più informato sui fatti di quanto abbia lasciato intendere.

Sta di fatto che i molti dubbi relativi alle testimonianze oculari e alla perizia balistica, oltre al modo sbrigativo con cui furono sottovalutati o non presi in considerazione i testi a favore degli imputati (compreso Celestino Madeiros, reo confesso della rapina che portò al duplice omicidio, che dichiarò Sacco e Vanzetti estranei ai fatti) inducono a ritenere molto alte le probabilità di un errore giudiziario.

Se però la vicenda di Sacco e Vanzetti si riducesse a questo, cioè a un processo sfociato in una condanna a morte dubbia, non si distinguerebbe da tanti altri casi giudiziari controversi saliti all’onore delle cronache. Casi che vanno a rafforzare un argomento di quanti – anche a prescindere da precise convinzioni morali sull’intangibilità della vita umana – si oppongo alla pena capitale, vale a dire che la sua irreversibilità non si concilia con la possibilità che il condannato possa rivelarsi in seguito innocente.

Ma, appunto, Sacco e Vanzetti non furono i protagonisti di un semplice caso giudiziario, bensì di un caso giudiziario che si incastona in una cornice politica e sociale e che si rivela essere, come l’affaire Dreyfus in Francia una ventina d’anni prima, una sorta di cartina di tornasole e di cassa di risonanza di tensioni e contrapposizioni profonde diffuse nelle società teatro degli avvenimenti. Al centro del caso Dreyfus stava l’antisemitismo, qui la paura di una rivoluzione anarchica e comunista.

In considerazione di questo l’effettiva innocenza o colpevolezza dei due italiani passa in una certa misura in secondo piano, perché anche nell’eventualità in cui fossero stati effettivamente colpevoli, il verdetto a cui si è giunti è stato il frutto di una volontà di condanna data in partenza e radicata in pregiudizi politici e razziali. Le parole del giudice della Corte suprema William O. Douglas, scritte una trentina d’anni dopo l’esecuzione, riassumono perfettamente i termini della vicenda:

Leggendo il resoconto del processo dopo tanti anni, si rimane convinti che Sacco e Vanzetti, accusati di omicidio, furono invece condannati perché pacifisti, antimilitaristi, sovversivi. Forse erano colpevoli, forse non lo erano: questo non è il punto più importante. Ciò che pesa sulla coscienza americana è il fatto che Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti morirono il 23 agosto 1927 al termine di un processo che, in retrospettiva, appare non essere stato condotto con onestà e giustizia”.ii

Nell’America del primo dopoguerra, funestata da un aumento della criminalità ordinaria, prende corpo e si diffonde la paura di una rivoluzione anarchica e comunista, posizioni spesso considerate alla stregua di un indistinto nucleo di ribellione contro l’ordine costituito. In questo clima alimentato da posizioni xenofobe (in primo luogo contro gli italiani, la cui colonia anarchica era cospicua) e odio di classe trova origine la vicenda di Sacco e Vanzetti.

Rivendicazioni sindacali e lotte finalizzate a migliorare le condizioni lavorative degli operai, nelle quali Sacco e Vanzetti s’impegnarono, per il fronte più reazionario sono intese alla stregua di azioni sovversive e come tali vengono contrastate. Non si può negare del resto che atti di violenza provennero anche dalla fazione “contestatrice”, il più grave fra questi fu compiuto da Mario Buda, se non amico conoscente di Sacco e Vanzetti, che nel settembre del 1920 fece esplodere a Wall Street un carretto carico di dinamite causando la morte di 33 persone e il ferimento di altre 200. John Dos Passos, il celebre autore del 42° parallelo, così descriverà quel periodo quarant’anni dopo:

È difficile far rivivere il delirio dell’ondata di arresti, scatenata da Palmer [Mitchell Palmer, l’allora procuratore generale degli Stati Uniti]. Radicali, stranieri e nostrani furono denunciati e gettati in carcere, in tutto il Paese, da rappresentanti della legge e da organizzazioni non governative come l’American Legion.

I persecutori dei “rossi” avevano anch’essi le loro giustificazioni. La strage dei loro avversari, sulla quale i rivoluzionari russi avevano fondato il potere dei soviet, era ancora fresca nella memoria della gente. Certe imprese anarchiche come l’esplosione di Wall Street e l’attentato dinamitardo contro la casa del ministro della Giustizia, a Washington, fecero crollare le tesi secondo cui gli anarchici e comunisti sarebbero stati soprattutto teorici del dissenso.iii

Quegli anni furono segnati da una sostanziale sospensione di alcuni diritti civili e la vicenda giudiziaria di Sacco e Vanzetti ha finito per diventarne il caso per antonomasia. Felix Frankfurter, professore di diritto a Harvard, è stato forse il primo ad argomentare con nettezza che ai due furono negati dei diritti costituzionali e che per questa ragione il loro processo resta una macchia indelebile nella storia giudiziaria degli Stati Uniti.

Si può certo notare come una paura capace di esplodere in forme incontrollate sia un sentimento che alligna nella cultura profonda degli Stati Uniti. Questo, per limitarci alla loro storia interna, ha dato periodicamente luogo a momenti caratterizzati da cacce alle streghe e sindromi reazionarie. Isolare però questo aspetto e vedere nell’America unicamente una società spietata e criptofascista sarebbe ingeneroso, come d’altra parte suonerebbe quale idealizzazione retorica quella di intenderla solo come un inesauribile ricettacolo di libertà e di opportunità. Nella storia statunitense sembrano invece convivere in un corpo a corpo continuo entrambi questi aspetti: una reale conquista di libertà civili e una tendenza all’esasperazione del senso di minaccia, cifre di una terra di sogni che facilmente si convertono in incubi, ma anche caratterizzata dall’impegno e dalla volontà di immaginare il nuovo.

Infine la questione della violenza o della nonviolenza quali metodi di lotta. In generale può essere sufficiente ricordare che esiste una tradizione anarchica nonviolenta e una che non ripudia la violenza come strumento di affermazione politica. Questa accettazione della violenza tuttavia possiede sfumature differenti, per alcuni va intesa come una sorta di legittima difesa contro gli abusi del potere e può portare a colpire obiettivi mirati che rappresentano l’autorità e la violenza statale (re, capi di stato, ecc.), in altri casi invece è stata praticata una violenza cieca e stragista che ha ucciso senza distinzioni.

Nello specifico vediamo cosa emerge dalle pagine di Vanzetti e Sacco. In quest’ultimo, che come ricordato ha scritto assai meno, si trovano un paio di luoghi nei quali il ricorso alla violenza come reazione all’inumanità del potere non è escluso, anzi quasi esaltato come strumento di rigenerazione sociale: “E dovremmo noi inorridire, disapprovare, anatemizzare se il piombo o il pugnale proletario trova la via nelle carni dei satrapi arroganti? Se lo schianto della dinamite smonta la carcassa a qualche illustre istrione del grande palcoscenico sociale?”.iv

Più articolato è il discorso che si può fare a proposito di Vanzetti, in ragione delle maggiori testimonianze scritte. Innanzitutto in Vanzetti, come del resto in Sacco e nell’essenza del pensiero anarchico, l’impegno politico è diretto alla costruzione di una modalità di convivenza umana non edificata sull’oppressione, “l’obiettivo supremo” scrive Vanzetti “è la completa eliminazione della violenza dalle relazioni”.v

L’anarchia dunque possiede un’anima integralmente pacifista, che guarda con orrore e condanna le guerre di conquista e i continui tributi di sangue derivati dai conflitti tra stati sovrani. In Vanzetti possiamo leggere, ad esempio, pagine documentate e incisive contro le imprese belliche dell’Italia e le sue ambizioni coloniali. Ma anche in Vanzetti il ricorso alla violenza come strumento finalizzato alla transizione a una società meno brutale e oppressiva non sembra del tutto escluso.

È escluso, esplicitamente, l’uso di una violenza stragista volta a colpire in modo indistinto, ma non l’azione individuale, come si ricava dall’ammirazione per Gaetano Bresci, l’anarchico che uccise Umberto I. Alla fine dei conti per Vanzetti la violenza ammissibile è quella che si configura come una sorta di atto di autodifesa:

Non possiamo negare che atti di violenza siano stati commessi da uomini che si dicono anarchici, e a volte anche da uomini che hanno il diritto di chiamarsi anarchici. Ma è stata la persecuzione ad indurli a ciò. Hanno agito così per autodifesa oppure perché erano istigati dalla violenza, dalla repressione e dall’intolleranza, sempre esercitata da coloro che detengono il potere.vi

È vero che in uno scritto del 1923 a firma sia di Sacco che di Vanzetti, Dateci o libertà o morte, sembra trovarsi un invito un po’ ambiguo alla violenza,vii ma non è meno vero che se prendiamo in considerazione l’insieme degli scritti dal carcere di Vanzetti si direbbe che nell’anarchico piemontese a prevalere sia un temperamento quasi nonviolento e un carattere poco propenso alla vendetta: “Più vivo, più soffro, più imparo, più sono incline a perdonare, a essere generoso e a pensare che la violenza in quanto tale non risolve i problemi della vita”.viii

L’avvocato Thompson riporta che nel corso del loro ultimo incontro disse a Vanzetti “come dalla storia risultasse che la verità non ha alcuna probabilità di affermarsi dove la violenza è seguita dalla contro-violenza”.ix È vero? Non è vero? Ognuno è libero di fare le proprie valutazioni naturalmente, non si può peraltro evitare di notare che le cornici storiche e culturali non rimangono sempre identiche a se stesse, ma tra epoca e epoca possono variare profondamente. Se però ci accostiamo alla nonviolenza con un approccio laico e non fondato su assoluti morali, viene da dire che la lotta nonviolenta in uno stato dai connotati democratici sembra una soluzione conveniente.

Gandhi distingueva tra una disobbedienza civile “difensiva” e una “offensiva”. Quella offensiva ha di mira un regime tirannico e autoritario il cui ordine si intende sovvertire radicalmente, quella difensiva uno stato con un ordinamento democratico ritenuto nelle sue fondamenta complessivamente legittimo, dal quale però si vogliono eliminare storture e leggi considerate ingiuste. Nulla è scritto in partenza ovviamente e nulla è scontato, e soprattutto nulla è indolore, ma in questo secondo caso, e sul lungo periodo, le possibilità di riuscita di una forza di contestazione nonviolenta sembrano piuttosto alte.

È evidente che bisogna interrogarsi su quale, alla resa dei conti, possa considerarsi uno stato effettivamente democratico. L’America in cui Sacco e Vanzetti sono stati arrestati e processati lo era? Non vi è dubbio che in essa agisse un’indiscutibile forza antidemocratica e una sorta di immaturità democratica, perché una democrazia matura di fronte a atti terroristici, pur gravi, deve essere capace di rispondere, come di recente ha fatto il primo ministro norvegese rispetto alla carneficina perpetrata da Anders Breivik, che al male si risponde con più democrazia non con meno, con l’intangibilità dei diritti civili riconosciuti in un sistema liberale non con il loro indebolimento, con leggi ordinarie non con leggi speciali (a meno di casi veramente eccezionali).

Tuttavia la palese violazione dei diritti riconosciuti dall’impianto democratico della Costituzione americana ha finito per essere la chiave di volta. Le vite di Sacco e Vanzetti non sono state salvate, ma il loro calvario laico durante i sette anni di attesa dell’atto conclusivo della morte e, alla fine dei conti, la loro compostezza morale hanno finito per rivelarsi un’arma nonviolenta ben più efficace delle bombe dei galleanistix più intransigenti.

Tutto questo ha indotto una nazione, o se vogliamo una parte di essa, a interrogarsi sulla validità delle istituzioni giudiziarie del proprio Paese e ha finito per condurre a un ripensamento critico nei successivi anni del New Deal. È soprattutto per questo che Sacco e Vanzetti occupano un posto imprescindibile nella storia americana del Novecento; ma quel che accade nella storia difficilmente è archiviabile a mero ricordo del passato, e siccome le democrazie liberali sono quasi costantemente attraversate da ondate, più o meno insidiose, di tendenze antidemocratiche e illiberali, Sacco e Vanzetti non stanno soltanto dietro di noi ma anche davanti a noi, come una possibilità e un pericolo che bisogna essere preparati ad affrontare.

Note

i Nicola Sacco, Bartolomeo Vanzetti, Lettere e scritti dal carcere, a cura di Lorenzo Tibaldo, Claudiana, Torino 2012 (d’ora in poi LSC), p. 166.

ii Lorenzo Tibaldo, Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, Claudiana, Torino 2008 (d’ora in poi SCS), p. 235.

iii LSC, p. 305.

iv LSC, p. 75.

v LSC, p. 119.

vi SCS, p. 168.

vii “Poi, quando il verdetto di morte vi fu noto, voi compagni e lavoratori, avete saputo ruggire l’ira e il dolore che vi avvampavano il petto arrovellandovi a tutte le audacie, e, sfidando la punta della baionette degl’incoscienti fratelli soldati, e la brutalità dei mercenari sbirri, vi siete rovesciati su le vie e le piazze d’ogni città del mondo […]. E lo schianto della dinamite liberatrice, si unì al vostro urlo immenso, titanica voce di dolore, di volontà, di perdizione e di redenzione. E noi vi abbiamo detto che, a quell’urlo e a quello schianto dobbiamo la nostra vita.”, LSC, p. 294-5.

viii LSC, p. 118.

ix LSC, p. 302.

x Seguaci di Luigi Galleani, l’ala più dinamitarda degli anarchici allora presenti sul territorio statunitense.


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