La questione tibetana tra est e ovest – Recensione di Nanni Salio

Wang Hui, La questione tibetana tra est e ovest, Manifestolibri, Roma 2011, pp. 158

Non mi è facile affrontare la “questione tibetana”: sono diviso tra una adesione istintiva empatica e simpatica per la causa dei tibetani e la necessità di affrontare con strumenti più rigorosi il lungo conflitto in corso, nel tentativo, finora non riuscito, di contribuire a una soluzione costruttiva, creativa, nonviolenta.

Ho ricevuto da tempo il libro di Wang Hui, autorevole docente di letteratura e storia cinese all’università Tsinghua di Pechino, che in questo suo lavoro offre uno strumento prezioso per ricostruire la storia del conflitto cino-tibetano, analizzandone tre aspetti fondamentali, che possono contribuire a dissipare equivoci e favorire un approccio più equilibrato al conflitto in corso. “Il primo riguarda il fatto che le conoscenze degli occidentali sul Tibet sono fortemente radicate nell’orientalismo,… avvolte in un alone di mistero” (p.19), che vale soprattutto per l’approccio europeo. “Il secondo aspetto ha che vedere con… la manipolazione dell’opinione pubblica… e riguarda soprattutto l’approccio statunitense.” (ibid.) Il terzo aspetto è relativo alle preoccupazioni per la rapidità dello sviluppo economico cinese, diffuse in tutti i paesi, esclusi quelli del terzo mondo.

L’autore passa poi a discutere il rapporto tra colonialismo e nazionalismo nel rapporto triangolare tra paesi occidentali, Tibet, Cina sino all’invasione cinese e nel dibattito interno cinese, negli anni successivi. E infine, il ruolo che i processi di secolarizzazione e di mercatizzzione hanno avuto e hanno tuttora sia sulla società tibetana sia su quella cinese.

Nelle pagine conclusive, Wang Hui analizza il ruolo dei movimenti di protesta e il rischio di cadere in una trappola che chiama “conflitto di ignoranza”, come nuova forma di guerra fredda, esaminando in particolare le proteste in occasione dei giochi olimpici.

Non era negli obiettivi che si era posto l’autore, ma per completare questo studio sarebbe utile prendere in esame anche le proposte che la scuola di “trasformazione nonviolenta dei conflitti” ha formulato, per vederne le possibili potenzialità di dialogo aperto tra le parti (Si veda: Johan Galtung, “Tibet”, http://www.transcend.org/tms/2008/09/tibet ; e anche il mio contributo: “Per una trasformazione nonviolenta del conflitto Cina-Tibet” http://www.ildialogo.org/esteri/asia/trasf26032008.htm)

Gli avvenimenti più recenti, che vedono i monaci immolarsi seguendo l’esempio dei bonzi vietnamiti, insieme ad altre forme di protesta e ad alcune iniziative diplomatiche, rendono ancora più urgente un’azione congiunta e un contributo esterno che sia coerente con le tecniche e i metodi dell’azione nonviolenta, per favorire dialogo, rispetto reciproco, comunicazione e ricerca di soluzioni creative.

Ne abbiamo bisogno se non vogliamo cadere ancora una volta vittime della trappola della violenza. La cultura cinese e quella tibetana hanno strumenti per compiere questo cammino, a maggior ragione se sapranno trarre ispirazione dalla ormai ampia serie di esperienze di lotte nonviolente ovunque nel mondo.

26 luglio 2012

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