Elogio della democrazia parlamentare – Pietro Polito

Norberto Bobbio distingue due forme di governo democratico: la forma di governo presidenziale e la forma di governo parlamentare.

Nel regime parlamentare l’esecutivo è una emanazione del legislativo che a sua volta deriva dal voto popolare; nel regime presidenziale il capo dell’esecutivo risponde non al Parlamento ma agli elettori, perché viene eletto direttamente dal popolo.

Quanto al capo dello Stato, nel regime presidenziale esso è eletto direttamente dal popolo attraverso il ricorso alle elezioni generali a cui possono partecipare tutti gli aventi diritto, mentre nel regime parlamentare esso è eletto dai rappresentanti del popolo riuniti in seduta comune di Camera e Senato secondo le norme stabilite dalla Costituzione.

In Italia vige un regime parlamentare, ma alla luce di come è stato interpretato il mandato presidenziale almeno da Sandro Pertini in poi, in particolare durante il settennato di Francesco Cossiga e anche durante quello attualmente in corso di Giorgio Napolitano, pare legittimo domandarsi: “Il nostro Paese è ancora una democrazia parlamentare?”.

Secondo alcuni commentatori, in realtà, il Paese sta scivolando quasi senza accorgersene verso una larvata forma di democrazia presidenziale.

L’intervento del Presidente della Repubblica che ha definito quella del lavoro “una riforma da fare”, affermando, sicuro, (sulla base di quali elementi?): “Non credo che stiamo aprendo le porte a una valanga di licenziamenti facili”, è stato giudicato “sorprendente” da Gianni Ferrara, uno dei giuristi che insieme a Gino Giugni è stato tra i padri dello Statuto dei lavoratori.

Secondo Ferrara la presa di posizione del Presidente sul più importante e scottante tema dell’agenda politica, la “manutenzione” (o la “manomissione”) dell’articolo 18 e le sue possibili conseguenze nei rapporti tra impresa e lavoro è inusuale non dal punto di vista della mai sconfessata “passione politica di allora degli ideali di eguaglianza e giustizia”, ma da quello della dottrina del diritto costituzionale.

Il Capo dello Stato è il garante dell’unità nazionale e non può pronunciarsi su un atto di indirizzo politico, un atto per altro non ancora esaminato dal Parlamento, sul quale questo non ha ancora legiferato e che al suo interno lo vede diviso, quindi un atto politico che non ha il consenso di una larga parte del Parlamento e che nel Paese incontra l’opposizione del più forte sindacato.

Pronunziarsi – scrive Ferrara – su tale atto ha scosso la posizione del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale. Ne ha anche incrinato quello di garante della Costituzione. Constatarlo inquieta, sconcerta”.

In effetti, il Presidente della Repubblica non avrebbe potuto né dovuto schierarsi per una parte piuttosto che per l’altra, perché come recita l’articolo 87 della Costituzione, egli “rappresenta l’unità nazionale”.

L’art. 87 è l’articolo chiave del Titolo II – “Il Presidente della Repubblica”, che si trova nella parte II della Costituzione – “Ordinamento della Repubblica”, artt. 83-91.

Qual è la ratio del complesso degli articoli relativi al Presidente della Repubblica?

Nel sistema parlamentare attualmente vigente in Italia il Presidente della Repubblica viene configurato come un potere neutro, apolitico, imparziale, che esercita funzioni di garanzia e di controllo e non può svolgere funzioni attive e di indirizzo politico.

Il Presidente è il tutore della Costituzione, svolge una funzione di “rappresentanza e influenza morale”, ma non può imporre al governo la propria politica personale.

In sintesi, il Presidente della Repubblica non dovrebbe prendere decisioni politiche, le può solo suggerire; non dovrebbe formulare indirizzi politici, li può solo favorire o attenuare, il suo compito è di indurre alla riflessione gli organi competenti alla decisione.

L’insieme delle attribuzioni del Costituente al Presidente della Repubblica tendono a delineare un organo sopra le parti, che non rappresenta i governanti ma i governati.

Qual è la morale del discorso?

Si è capito che, dal punto di vista procedurale, la forma di democrazia cui va la simpatia di chi scrive è la democrazia parlamentare e non la democrazia presidenziale. Per la ragione fondamentale che nella democrazia presidenziale i governanti rispondono al popolo e non al Parlamento con i rischi conseguenti di degenerazione della democrazia connessi al populismo.

Con tutti i limiti, universalmente noti, della democrazia rappresentativa il Parlamento rimane l’istituzione centrale delle democrazie contemporanee, il luogo più alto, lo spazio pubblico condiviso in cui si forma e si definisce, attraverso la discussione e il libero voto dei rappresentanti del popolo regolarmente eletti, l’indirizzo politico generale di un paese. Sta qui la caratteristica decisiva che distingue la democrazia consensuale dalla democrazia maggioritaria. In un regime maggioritario la maggioranza è costituita in maniera determinante attraverso il ricorso a espedienti tecnici (il più noto è il cosiddetto premio di maggioranza), diversamente in un regime consensuale la maggioranza e la successiva formazione del governo sono il prodotto di un accordo, se si vuole di un compromesso, tra i partiti rappresentati in Parlamento attraverso un sistema elettorale proporzionale.

Parafrasando un noto detto secondo il quale una cattiva democrazia è preferibile a una buona dittatura si potrebbe dire che un cattivo parlamentarismo è preferibile a un buon presidenzialismo. Non ha perso nulla della sua intensità ed efficacia un brano di Piero Gobetti che traggo dall’articolo La nostra fede (5 maggio 1919): “Il regime rappresentativo non ha più il favore popolare. Ma che cosa volete sostituirvi? La teocrazia?”.

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