Il nostro Capitini – 1. Il paradosso della nonviolenza – Pietro Polito

Intraprendo un viaggio personale nell’opera di Aldo Capitini.

Il filosofo italiano della nonviolenza è uno dei pochi autori del Novecento italiano, per i quali penso si possa parlare, oltre che come è naturale in termini di storia della filosofia e di storia della cultura, come di “un orientamento”.

Così egli parlava di Piero Martinetti.

In questo senso possiamo e dobbiamo parlare di un nostro Capitini.

Nella vita politica, culturale, religiosa – italiana e non solo italiana – Capitini porta una dimensione ulteriore: il paradosso della nonviolenza.

La sua vita e la sua opera sono state un continuo “atto di gettare qualcosa contro”: come è stato detto, “una esemplare pedagogia della nonviolenza”.

Questa “pedagogia” è magistralmente esposta nel libro Religione aperta, recentemente riproposto dall’editore Laterza, a cura di Mario Martini e con una prefazione di Goffredo Fofi.

Religione aperta è un libro di religione, un libro in cui si propone un diverso fondamento alla religione rispetto alle religioni tradizionali (ma di questo scriverò in un’altra occasione). Parlando di un “nostro Capitini” in questa circostanza mi riferisco alla sua pedagogia della noviolenza, cioè a quella pluralità di di modi nonviolenti da lui suggeriti che possono costituire un patrimonio comune.

Di seguito illustro questa pluralità, sia pure sinteticamente e facendo riferimento, come detto, in modo particolare al libro Religione aperta.

Per una trattazione ordinata della materia suggerisco di distinguere tra opzioni, ambiti, modi della nonviolenza.

In primo luogo l’amico della nonviolenza si trova a dover compiere una scelta di principio tra alcune grandi alternative, tra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra l’amore e l’odio, tra la trasformazione e la conservazione.

Non si pensi che la scelta sia facile e immediata perché il positivo e il negativo non stanno mai interamente in una o nell’altra alternativa. Mi limito a un’osservazione sulla alternativa tra il bene il male. Non sempre scegliere il bene potrebbe essere la scelta più opportuna. Tanto è vero che la storia della filosofia occidentale degli ultimi due secoli è stata dominata dall’idealismo e da quell’idealismo rovesciato che è il marxismo, entrambe filosofie dialettiche che poggiano sulla tesi che dal male nasce il bene.

Quanto agli ambiti della non violenza, il discorso è già stato fatto più volte e non solo da Capitini, che sulla scia di Gandhi distingue quattro forme di nonviolenza: verso la società, verso gli animali, verso le piante, verso le persone.

Quali che siano gli ambiti (anche su questo tornerò in un altro articolo) in cui l’amico della nonviolenza cerca di attuare il paradosso egli ha a disposizione un’ampia, ricca articolata varietà di modi nonviolenti.

I modi della nonviolenza possono essere individuali o collettivi. Tra quelli collettivi, forse i più efficaci sono la non collaborazione (che può essere anche individuale) e la disobbedienza civile.

Avviandomi alla conclusione, mi soffermo sui modi personali, lasciando parlare largamente il nostro Capitini.

I modi personali che si trovano indicati in Religione aperta risentono di un felice connubio tra la tradizione cristiana, quella laica e l’ispirazione gandhiana: l’eremitismo, il silenzio, la meditazione, la gentilezza verso tutti, la pratica dei valori, la non menzogna, il pentimento.

Questi per Capitini sono i modi “religiosi” della nonviolenza come escatologia, cioè della nonviolenza come varco aperto tra la realtà attuale e la realtà liberata, la realtà in cui “la morte può finire”.

Sotto il titolo, che non è immediatamente chiaro, Casi, ipotesi (pp. 115 – 118), nel libro Religione Aperta si nasconde un gruppo di pagine belle quanto fondamentali, da cui è possibile ricavare una sorta di breviario delle modalità che secondo Capitini caratterizzano la personalità nonviolenta:

1. La nonviolenza è “una direttiva che va applicata pazientemente, e con la buona volontà di cercare di evitare l’uso della violenza, e con la realtà di correggersi se si devia, e di affrontare il dolore conseguente”;

2. “Chi si mette su questa linea può errare mille volte, ma fa uno sforzo, apre una via, incide nella realtà abituale e fuga l’inerzia: non merita il rimprovero di chi sta inerte a non tentare nulla”;

3. “L’importante [per l’amico della nonviolenza] è non stancarsi mai di tendere ad attuarla, vivendola nelle sue profonde ragioni”;

4. “La trasformazione essenziale, da cui mille altre [portata dalla nonviolenza] è quella di aprirsi ai singoli esseri, vedendoli coralmente, infinitamente, eternamente”;

5. “Volere che i singoli siano presenti e partecipino in eterno… richiede (naturalmente) iniziativa e sacrificio”;

6. “È molto male che agli uomini non si porga l’esempio, l’ipotesi, l’insegnamento di tutto un altro modo di comportarsi”;

7. “Il cristianesimo portò libertà ed autentica cittadinanza mondiale, e al posto della intenzione pedagogico – giuridica, mise la costruttiva e reale apertura dell’animo”;

8. “Opponendo violenza al violento, si ottiene, semmai, un risultato nel momento; mentre opponendo la nonviolenza e i suoi modi si otterrà un risultato più lontano, ma veramente di qualità migliore”;

9. “Bisogna dunque tentare con cuore intrepido; e poi il valore della nonviolenza non sta nel persuadere subito di colpo: essa afferma sé stessa e stabilisce unità amore, apre una migliore realtà; [ …] prima o poi darà il suo effetto, anzi esso ha cominciato già a darlo se c’è stato chi ha cominciato”.

Da queste nove proposizioni si può ricavare che gli amici della nonviolenza, che Capitini chiama anche “ricostruttori dall’animo e dalla sua forza”, operano per un cambiamento non effimero ma permanente, a lunga scadenza, non circoscritto a questo o a quello aspetto della realtà, per una trasformazione globale, la tramutazione della realtà attuale nella realtà autentica.

Le loro “armi” sono la pazienza, la buona volontà, la lealtà, l’errore e la capacità di riconoscere e di correggere l’errore, lo sforzo, l’apertura, la costanza, la coralità, l’iniziativa, il sacrificio, l’esempio, l’ipotesi (che una realtà dove dappertutto dominino forza e prepotenza sia destinata a finire), la costruzione, il coraggio del “cuore intrepido”.

La nonviolenza non può mai essere attuata tutta integralmente, ma ciascuno può intraprenderne il cammino. Il primo passo è quello di liberarsi a poco a poco dall’abitudine che è la giustificazione della nostra inerzia.

 

 

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