La sconfitta deriva dalla violenza o dall’eccessivo pacifismo? – Michael Albert

Ma ricordate che se la lotta dovesse ricorrere alla violenza, perderà visione, bellezza e immaginazione. Cosa, poi, più pericolosa di tutte emarginerà e alla fine renderà vittime le donne. E una lotta politica che non abbia le donne al suo centro, sopra, sotto e all’interno di sé, non è affatto una lotta.”

Arundhati Roy

Chris Hedges ha scritto un attacco molto aggressivo su quello che è definito l’elemento “black bloc” degli attuali movimenti Occupy.  C’è stato un certo numero di reazioni e di repliche. I temi in realtà non sono nuovi e hanno una lunga storia. Come si valutano le questioni della violenza e della nonviolenza? Cos’è, anche, che caratterizza le opzioni della resistenza, dei danni alla proprietà, dell’aggressione o della violenza e come si possono sostenere razionalmente le varie preferenze?

Il pacifismo deriva spesso da una posizione religiosa o filosofica e afferma che la violenza, o anche i danni alla proprietà, sono una cattiva scelta personale, senza eccezioni. Molti pacifisti argomentano pubblicamente a favore della nonviolenza politica utilizzando prove, valori ed esperienze. Di solito rispettano con quelli che hanno opinioni diverse e interagiscono positivamente con loro. Nella mia esperienza l’esempio forse migliore di questa posizione è stato David Dellinger, una persona la cui opera merita di essere rivisitata oggi. Ci sono tuttavia altri pacifisti che non utilizzano principalmente le prove, la logica e l’esperienza per sostenere la nonviolenza ma affermano invece che rifiutare la nonviolenza è immorale. La loro moralità/religione è usata come una carta vincente nel dibattito politico.

Quando chi aderisce a una visione politica afferma che gli altri attori devono essere d’accordo oppure essere irrilevanti, si parla spesso di settarismo.  Sii d’accordo con me oppure sarai un miscredente politico.  I pacifisti per stile di vita, filosofia o religione hanno tutto il diritto di sostenere che il movimento dovrebbe essere sempre nonviolento. Ma se lo fanno proclamando di avere una moralità superiore e scartando come rimbambiti o mal motivati quelli che hanno visioni diverse, non possono aspettarsi di essere presi sul serio. Lo stesso vale per quelli che dichiarano i limiti della nonviolenza e i meriti della militanza dall’alto di una posizione morale. Quelli che affermano che  la distruzione e la violenza sono essenziali per costruire movimenti e conquistare il cambiamento e aggiungono che chiunque la pensi diversamente è uno strumento dello stato, sono anch’essi settari.

E dunque cosa caratterizza le opzioni della resistenza, dei danni alla proprietà e quelle aggressive o violente e come si possono sostenere razionalmente le diverse preferenze?

Riguardo a ogni tattica possiamo chiederci utilmente:

– Quali sono gli effetti su coloro che la utilizzano?

– Quali sono gli effetti su coloro su cui si cerca di esercitare pressione?

– Quali sono gli effetti sui dimostranti cui cerca di estendersi?

– Quali sono gli effetti sull’organizzazione e la cultura durature del movimento?

Il versante “black bloc” del dibattito afferma che tattiche che “eccedono” la nonviolenza tendono ad essere utili in quanto delegittimano l’autorità, riducono le tendenze all’obbedienza, sradicano cultura e abitudini al compromesso, ispirano partecipazione dei lavoratori e delle minoranze, diffondono coraggio, manifestano in forma evidente la rabbia dei manifestanti, promuovono un’accresciuta copertura mediatica che comunica più diffusamente il messaggio del movimento e inoltre accrescono anche i costi sociali a carico delle élite forzandole a cedere. Dal punto di vista dei favorevoli al ‘black bloc’ “i cannibali preferiscono quelli che sono privi di aculei”.

Il versante “pacifista” afferma che tattiche che “eccedono” la nonviolenza tendono ad essere controproducenti in quanto aiutano l’autorità a razionalizzare la propria legittimità, aumentano le tendenze all’individualismo, all’amoralità e o alla paranoia sconsiderate, escludono i lavoratori e le minoranze non organizzate (per non citare quelli non in grado o non disponibili a partecipare a situazioni violente), limitano le discussioni aperte e l’assunzione democratica delle decisioni, oscurano l’oggetto della rabbia dei manifestanti, distorcono la copertura mediatica trasferendola dalla sostanza ai mattoni e agli scontri rovinando così la comunicazione a pubblici più vasti e inoltre forniscono alle élite una scusa per cambiare a proprio vantaggio le regole d’ingaggio.  Dal punto di vista dei “pacifisti”  la violenza è suicida.

Il confronto punto per punto evidenzia la complessità del giudizio sulle tattiche.

La scelta migliore consiste nel tenere dei teach-in [manifestazioni con dibattiti], marce, raduni, azioni di disobbedienza civile e bloccando nel modo migliore un grande numero di persone o nel distruggere cartoline precetto, ogive missilistiche, strutture belliche, o bersagliare finestre, ignorare divieti di accesso, resistere all’arresto o addirittura nell’intensificare un’aggressione attiva contro la polizia, i crumiri o altri settori?

Per saperlo dobbiamo stabilire quali affermazioni dei sostenitori delle diverse posizioni siano giuste e quali sbagliate e come valutiamo il risultato complessivo.  Un fattore che complica le cose è che dobbiamo considerare ciascun caso come un caso a parte. Non possiamo giungere a un giudizio generale, vincolante in ogni occasione, per quanto comodo potrebbe essere, perché in alcune situazioni le tattiche aggressive producono tutti gli effetti positivi che il loro sostenitori si attendono, mentre in altre situazioni le tattiche aggressive producono nessuno dei benefici potenziali. Analogamente in alcune situazioni le tattiche aggressive producono tutti i danni che i loro critici prevedono mentre altre volte le tattiche aggressive rendono minimi o addirittura annullano i danni.  Non ci sono, dunque, regole universali  a proposito dell’attenersi alla nonviolenza o nel superarla, e il meglio che possiamo fare è valutare ogni tattica per cui si potrebbe optare in ciascuna situazione, cercando di rendere massimi i vantaggi potenziali e di rendere minimi i mali potenziali. Con questo atteggiamento mentale, dunque, non si è né black bloc né pacifisti ma invece aperti alle opzioni, attenti a scegliere quelle buone e poi ad attuarle in modi validi, caso per caso.

I fautori e i critici delle tattiche aggressive, ad esempio, devono prestare un’attenzione prioritaria a non offrire alle autorità pretesti per celare le malefatte del governo. I fautori e i critici devono essere ben disposti nei confronti di quelli che non sono d’accordo con loro e lavorare intensamente per accrescere la partecipazione democratica e ridurre le tendenze all’individualismo, alla paranoia e alla passività antisociali. Devono cercare di individuare modi per accrescere la possibilità di una partecipazione ampia e di un dibattito e di un processo decisionale aperti, e in particolare devono cerca di evitare che le loro tattiche allontanino la base che si cerca di ampliare.  Devono sottoporsi a un rigoroso onere di prova al fine di evitare avventurismi o di mettere in pericolo altri o di indebolire in altri modi il rapporto di forze tra il movimento e le élite, sia mediante l’azione sia mediante l’inazione. Devono aumentare i costi sociali di oggi coerentemente con la capacità di far meglio domani.  Devono intraprendere iniziative, o astenersi da esse, in modi che non dividano il movimento, non riducano la simpatia per il movimento o non oscurino il suo messaggio alla base che si cerca di raggiungere.  E sia i fautori sia gli oppositori di ciascuna particolare tattica devono evitare di spingere i partecipanti al movimento a posizioni reciprocamente ostili, anziché combattere le sole élite contrarie.

Perseguire tattiche violente disdegnando la partecipazione e la democrazia o immaginando sfrenatamente condizioni inesistenti risulta essere un giocare a fare i macho anziché ricercare seriamente il massimo impatto.  Opporsi alle tattiche violente parificando danni o distruzioni minori con la violenza catastrofica delle élite sembra fondamentalismo, piuttosto che una seria ricerca del massimo impatto positivo.

Guardando al lato positivo, quando i gruppi prestano seria attenzione agli interessi strategici in modo tale che  gli altri siano consapevoli delle loro motivazioni, della loro logica e della loro attenzione – nonché di come essi tengano conto delle idee e dei programmi dei loro compagni di protesta – allora, anche se vi può essere forte dissenso circa le scelte, il dialogo può essere rispettoso e il dibattito può essere concreto.

Possiamo di certo essere tutti d’accordo sul fatto che il rispetto e il dibattito reale sono obiettivi validi.  E allora non ne consegue che avere regole sulle proteste che agevolino una comunicazione utile tra i diversi gruppi sia molto meglio che avere norme sulle proteste che oppongano reciprocamente i diversi gruppi in scontri ideologici mortali? “Ciascuno a  modo suo” è un buono slogan, se aggiungiamo che le persone diverse devono anche perseguire reciprocamente interesse,  comprensione ed empatia.

Ci sono dimostrazioni in cui il danneggiamento, ad esempio, si sviluppa organicamente dalla logica e dalle intenzioni dell’evento.  Un esempio potrebbe essere il caso di attacchi chiaramente dichiarati a sedi di reclutamento o a edifici dello RTOC [Rear Tactical Operations Center – Centro operativo tattico decentrato, comandi militari di zona – n.d.t.]. Ci sono altre dimostrazioni in cui i danneggiamenti sono controproducenti e irresponsabili in quanto mettono in pericolo innocenti e smorzano il messaggio e la solidarietà dell’evento.

Si consideri un evento di massa in cui quelli che lo hanno instancabilmente organizzato si sono impegnati a marce e raduni legali e anche ad atti illegali, ma nonviolenti, di disobbedienza civile. Si immagini che vi partecipino 100.000 persone.  Si immagini che il primo giorno il successo sia enorme e si sviluppino legami di mutuo rispetto tra basi normalmente frammentate (ad esempio i disobbedienti Verdi e i camionisti, le Vendicatrici Lesbiche e i metalmeccanici). Si immagini che lo sviluppo dell’ottimismo sia contagioso. La partecipazione al movimento aumenta e le riunioni o gli eventi presi di mira sono efficacemente contrastati.

Ma poi la polizia comincia a usare il gas, i manganelli e le pallottole di gomma. A quel punto irrompono  gruppi di violenti altamente organizzati e attaccano le vetrine e la polizia. Dopodiché festeggiano il fatto che grazie alla propria mobilità e organizzazione nessuno di loro è stato arrestato o ferito.  Magari questi militanti dissenzienti irridono e provocano in altri modi la polizia e poi scompaiono, lasciando gli altri, spesso famiglie del tutto impreparate a subire l’impatto della reazione.  Ammiriamo il coraggio di persone consapevoli che potevano agevolmente capire cosa stava per succedere e sfuggirvi se lo volevano, ma che invece hanno usato le proprie capacità per aiutare i loro compagni di dimostrazione meno preparati, o quelli che hanno provocato l’intensificazione della repressione e poi hanno abbandonato la scena?

Si immagini che vari contingenti che avevano offerto energia, musica, creatività e militanza alle manifestazioni e alla disobbedienza civile, oltre a ciò non si siano dati a infrangere vetrine quando la polizia è diventata violenta ma siano rimasti lì con gli altri dimostranti, proteggendoli, assistendo i feriti e aiutando chi era stato colpito dal gas. Ciò avrebbe aggiunto al loro coinvolgimento già positivo un comportamento esemplare a favore dei propri compagni di dimostrazione, anziché una separazione da essi per dedicarsi a  devastazioni controproducenti di vetrine.  L’immagine del dissenso e dell’attivismo trasmessa da ciò sarebbe stata di militanza positiva  con un di più di umanità e solidarietà.

Questo, tuttavia, significa che non possono esserci tempi e luoghi per scontri e danni alle proprietà? No, non significa questo. Almeno non per me.  Invece il tempo e il luogo per comportamenti simili è quando ciò incontra diffusa approvazione e accresce la forza della protesta anziché fornire una scusa perché le persone si allontanino o diventino ostili alla protesta. Fino ai danneggiamenti, nell’esempio proposto più sopra, i contingenti maggiormente militanti avevano probabilmente aggiunto energia, creatività, arte, musica e spesso militanza, coraggio e fermezza molto necessari per molte sedi di manifestazione. Avevano sollevato lo spirito dei partecipanti e svolto in altri modi un ruolo molto positivo entro il programma dell’indirizzo della manifestazione.  E’ stato solo quando alcuni si sono dati a infrangere le vetrine, contro le regole della manifestazione, in questo esempio, che è sorto un problema. E andrebbe osservato che non sono soli i danneggiamenti che a volte sono autorizzati e a volte non lo sono. A volte anche la disobbedienza civile è fuori luogo.  Anch’essa può essere in contrasto con gli orientamenti degli organizzatori cosicché anche lo spontaneo ricorso alla disobbedienza civile violerebbe la logica di un evento e le aspettative e i piani della maggior parte dei presenti. In quel caso, almeno in parte, allontanerebbe quelli che si erano avvicinati al dissenso e non stimolerebbe nuove riflessioni e nuova solidarietà.  Altre volte, tuttavia, impiegare la disobbedienza civile è assolutamente ragionevole e addirittura decisivo per il successo.  Quanto a questo anche una marcia può risultare avventurista; altre volte può essere la tattica ideale.

In altri termini, quali tattiche siano consentite in un evento e contribuiscano alla crescita e al rafforzamento di un  movimento e quali tattiche non siano consentite e danneggino un movimento e la sua causa, è molto raramente una questione di principi inderogabili ma dipende piuttosto da come l’evento è stato proposto e organizzato, da chi partecipi all’evento, da quali siano le attese, da quali prospettive abbia l’evento quanto all’impatto sui risultati sociali e da come l’evento e le tattiche abbiano probabilità di essere percepite dalla base esterna ai confini dell’evento.

Tuttavia, sfortunatamente, questo non è inevitabile.  Spesso è stato tipicamente il caso che una volta che gli attivisti hanno ceduto a un’ottica di danneggiamento, la maggior parte delle volte non si sono preoccupati di tali calcoli.  A quel punto la loro inclinazione diviene una sensazione che danneggiare sia una buona cosa perché, dopotutto, i bersagli sono industrie criminali e danneggiarle è un passo avanti verso la loro demistificazione e la loro distruzione.  Chiunque sia contro ciò è a favore delle industrie, dichiarano. La loro energia mentale non cerca più di stabilire l’impatto delle tattiche possibili, ma solo quale sia il bersaglio da colpire.  Cominciano a pensare che sia il massimo della saggezza dedurre che McDonalds e Nike siano bersagli migliori dei passanti occasionali o di una drogheria a conduzione familiare.  Per un numero relativamente minimo di partecipanti imporre a una grande dimostrazione tattiche che sono contrarie alla definizione della dimostrazione non solo è poco saggio per i suoi effetti, ma anche non democratico in un modo che non dovrebbe mai essere tipico dell’attivismo del movimento.

Naturalmente l’esempio ipotetico citato più sopra è in larga misura reale. La sollevazione contro la globalizzazione industriale che ebbe luogo a Seattle, Washington, D.C., negli Stati Uniti – che è solo uno tra molti grandi casi simili – aveva già, prima che iniziassero le devastazioni, ostacolato l’Organizzazione Mondiale del Commercio.  Aveva già dimostrato la creatività, l’organizzazione e il sapere militanti.  Aveva già cominciato a creare nuove alleanze e legami tra basi diverse. Aveva già combinato livelli diversi di tattiche creative e militanti in una miscela di reciproco sostegno.  I discorsi alle manifestazioni, in molti casi, fecero l’ovvio salto dall’opposizione al libero scambio all’opposizione ai liberi mercati e dall’opporsi alla speculazione globale all’opporsi al capitalismo in quanto tale.  Erano state gettate le fondamenta perché le conquiste si moltiplicassero.  Poi, l’aggiunta della violenza, per quanto emotivamente comprensibile fosse, prevedibilmente non conquistò una visibilità utile che altrimenti sarebbe mancata. Non aumentò il numero dei partecipanti alla dimostrazione o dei simpatizzanti con essa.  Non provocò maggiori informazioni concrete da trasmettere nei canali convenzionali o in quelli della sinistra; al contrario sostituì la sostanza a proposito della globalizzazione con una infinita litania di rumore riguardo alle tattiche della polizia e degli attivisti.  Non rispettò, e tanto meno  ampliò, la democrazia. Quello che fece, in realtà, fu (a) dirottare l’attenzione dai problemi reali, (b) offrire un pretesto per la repressione che altrimenti sarebbe stata inequivocabilmente interpretata come la repressione di un dissenso legittimo e (c), cosa decisamente più importante, fece sì che molti  avvertissero che il dissenso è un atteggiamento non solidale in cui alcuni ritengono di avere il diritto di violare antidemocraticamente le intenzioni e i desideri della maggior parte degli altri.

Di nuovo, il problema non è se i danneggiamenti o altre azioni aggressive siano di per sé buone o cattive. Si supponga, tornando a Seattle, che il black bloc non si fosse dedicato a infrangere le vetrine ma si fosse trasformato in un gruppo di sostegno per i sofferenti per gli attacchi della polizia, sollevando gli spiriti e proteggendo i corpi.  Si supponga che centinaia e poi migliaia di altri lavoratori e studenti si fossero uniti agli sforzi di disobbedienza civile per il senso di comunità che essi manifestavano e per la chiarezza dei loro obiettivi. Si supponga che le azioni di sostegno si fossero estese a tutto il paese, diffondendosi come si è diffuso più di recente il movimento Occupy.  Si supponga che lo stato avesse usato ripetutamente  il gas e le cariche di polizia per schiacciare tali sforzi. E si supponga, in questo contesto, che una buona parte della popolazione della città, del “pubblico” nel paese e una vasta maggioranza dell’elettorato che si era recato a Seattle, o altrove, per dimostrare avessero provato solidarietà nei confronti dei manifestanti.  Ora si immagini che, dopo una lunga sequenza di reazioni totalmente nonviolente, compresi sforzi di parlare effettivamente con gli addetti della polizia, che la polizia carichi ancora una volta una qualche riunione o marcia pacifica e che alla fine la gente ne abbia avuto abbastanza e non accetti le percosse ma invece difenda la propria posizione.  Si supponga che cambi atteggiamento e decida che sia ora di contrattaccare. Si immagini che ciò porti a scontri e poi anche a macchine rovesciate, erezione di barricate, e così via. I danni alle proprietà causati dai dimostranti in una mischia simile farebbero sembrare poca cosa quelli commessi dai violenti a Seattle e si estenderebbero in modo esuberante (anche se non saggio) al di là dei bersagli industriali e danneggerebbero anche le proprietà di innocenti.  Alcuni direbbero che ciò non andrebbe probabilmente bene ma di fatto, invece, come descritto, ciò potrebbe avere un sapore e una logica totalmente diversa dai danneggiamenti di Seattle, e potrebbe ampliare, anziché ridurre, i movimenti e le basi coinvolte. C’è sempre della discrezionalità nell’uso delle tattiche.

A volte una tattica è saggia e a volte quella stessa tattica è sbagliata.

Quel che è stato sbagliato da parte degli attivisti politici che hanno devastato Seattle o da parte di quelli del nostro caso ipotetico di cui sopra o in qualche evento violento di Occupy è stato che (1) nonostante i loro altri sinceri e validi contributi agli eventi, la loro valutazione è stata terribilmente sbagliata. E (2) essi hanno egocentricamente ritenuto che il loro solo giudizio fosse giustificazione sufficiente per consentire loro di violare spettacolarmente le norme accettate da centinaia, migliaia e a volte decine di migliaia di altri dimostranti.

Cambiare la società non è questione di infrangere vetrine, naturalmente.  E’ un processo di sviluppo della coscienza e dei veicoli di organizzazione e di movimento e poi di applicazione di essi per ottenere conquiste che avvantaggino basi che lo meritino e creino condizioni per vittorie ancora ulteriori, portando a un cambiamento istituzionale permanente.

Coltivare la coerenza, la fiducia e la solidarietà del movimento – non solo in un piccolo gruppo di affini, ma più diffusamente – è una parte considerevole del programma.  Coerenza, fiducia e solidarietà tipicamente non sono promosse quando piccoli gruppi violano antidemocraticamente il programma di dimostrazioni di massa per perseguire le proprie inclinazioni private, anche quando il piccolo gruppo ha ragioni plausibili per le proprie preferenze.

Il fatto che le grandi industrie siano così ignobili che attaccarle è moralmente consentito se produrrà del bene non significa che il fatto che siano così ignobili autorizzi gli attacchi se essi producono del male.  Nell’organizzazione contro la guerra del Vietnam mi è capitato spesso di comparire di fronte a uditori molto vasti e animati, di tenere lunghi discorsi, e poi di rispondere a domande. Fu un periodo tumultuoso e la domanda prevalente era “Daresti fuoco alla libreria scolastica se ciò ponesse fine alla guerra?”. La mia risposta era sempre più o meno di questo tipo: “Chi è che non incendierebbe la libreria della scuola se ciò risparmiasse milioni di vite? Certo che lo farei, immediatamente.  Ma non c’è assolutamente alcun rapporto tra bruciare una libreria e aiutare le vittime dell’imperialismo USA in Indocina, né vi è alcun rapporto tra il bruciare una libreria e modificare il tessuto della nostra società in modo tale che gli Stati Uniti non si impegnino più in simili attività. Peggio ancora, un comportamento simile avrebbe l’impatto esattamente opposto, avvantaggiando quelli che attuano vili bombardamenti.  Ora, per favore, possiamo passare a qualcosa di serio, come ad esempio al modo di comunicare efficacemente a nuove basi i mali della guerra e a come costruire una resistenza continua e seria ad essi, lasciandoci alle spalle le pose e i tormentoni?”

All’epoca erano spesso menti molto brillanti, ben addestrate e molto capaci che finivano tra i Weathermen e altre formazioni simili dedite alla violenza come a una specie di priorità tattica e strategica. Ciò che fu sempre particolarmente notevole fu che queste persone erano in grado di impegnarsi attentamente, criticamente e con sollecitudine in molti campi, ma fecero uno salto all’indietro a uno stadio fideistico e fantastico quanto alle proprie scelte tattiche e di stili di vita fuori dalla realtà.  I nostri movimenti devono fare di meglio. Gli eventi di Seattle, ad esempio, sono stati meravigliosamente riusciti nel portare l’Organizzazione Mondiale del Commercio alla consapevolezza delle persone negli Stati Uniti – e nell’accrescere la consapevolezza e la speranza in tutto il mondo – rendendo chiaro a decine di milioni di persone che esisteva un’opposizione forte e gettando i semi di un ulteriore attivismo efficace di basi differenti e forti, disponibili a rispettarsi e a relazionarsi reciprocamente, per perseguire agende multiple e utilizzare tattiche diverse. Tutto questo è stato ottenuto, tuttavia, non mediante i danneggiamenti e, anzi, nonostante essi.

Penso sia corretto affermare che il fenomeno Occupy sia un ampliamento, tra gli altri, del movimento contro la globalizzazione industriale e debba molto ad esso e stia ora spettacolarmente estendendo l’impatto dell’attivismo, seppure entrando in un periodo irto di difficoltà.  E continuano a sorgere sempre gli stessi problemi. Alcuni dei pronunciamenti dei difensori delle violenze contemporanee mi ricordano un mio amico molto brillante ed eloquente che arrivò nel mio appartamento alle due di notte e, con un pugno di altri, si infilò dentro e disse: “Siamo i Vietcong, abbiamo bisogno di un posto per la notte … la rivoluzione è imminente, siamo in clandestinità, non preoccuparti per noi, torna a dormire. Ti sveglierai in una società nuova.”

Avevano una scusante per il loro delirio nel fatto che non avevano partecipato a neppure una dimostrazione, ma erano rimasti invischiati per anni in attivismo a tempo pieno.  Il loro ambiente era costituito quasi interamente dai loro amici tra i Weathermen e si erano interamente immersi in un tumulo, ben motivato ma fuori dalla realtà, di speranza, rabbia, desiderio, paranoia, trepidazione e razionalizzazioni astratte che era così diviso dalla realtà da renderli, fino a quando tale orientamento durò, molto prossimi all’inutilità come agenti positivi del cambiamento sociale.

Questi, in molti casi, furono le menti e i cuori migliori della generazione degli anni sessanta. E quindi dobbiamo per favore notare che quelli che si ritrovano arrabbiati nei confronti degli attivisti che devastano, non dovrebbero commettere l’errore insensibile e ignorante di pensare che i devastatori siano per natura tutti antipolitici, non impegnati, insensibili e irriguardosi, e ancor meno che siano agenti della polizia. La vita non è così semplice.  Non succede che quelli con i quali si è in disaccordo siano sempre odiosi allo stesso modo. I militanti – anche quelli che violano gli accordi di nonviolenza sovvertendo così la gran maggioranza delle voci – sono prevalentemente persone del movimento, in realtà alcune delle persone migliori del movimento.

Da parte di  quelli che sono coinvolti nelle devastazioni, o le hanno appoggiate, denigrare e addirittura considerare nemici quelli non appoggiano le violenze, o viceversa, non porterà nessuno da qualche parte che sia utile. Vi sono fraintendimenti da entrambe le parti, ma la distanza rispetto all’unità e al progresso è molto minore di molti altri baratri che dobbiamo superare, se soltanto non l’ampliamo senza necessità.  Dovremmo tutti essere in grado di coprire attentamente il divario e accordarci sulla vasta logica del come valutare le tattiche – pur non sempre concordando su ogni giudizio riguardo a ogni tattica specifica, ovviamente – e specialmente concordando su come attenerci, nelle nostre dimostrazioni, a norme collettive.

E’ sperabile che quelli che a volte hanno operato danneggiamenti – me compreso – non prendano queste parole che una derisione del loro potenziale e delle loro aspirazioni. E’ sperabile invece  che  prendano in seria considerazione la possibilità che, a volte, forse con le migliori intenzioni, abbiano ripetuto per errore una delle parti sbagliate della storia del movimento degli anni ’60 – in realtà la parte più triste e meno funzionale – e che reagiscano a queste riflessioni superando le tentazioni e le confusioni che tormentarono molti dei migliori di quella generazione.

Il fatto è semplicemente che viviamo in un mondo, particolarmente nelle società altamente industrializzate, in cui i mezzi della violenza sono quasi interamente monopolio degli stati.  La probabilità che una qualsiasi forza dissidente sconfigga la violenza della polizia e dell’esercito mediante la violenza opposta è pari a zero. Si osservi un qualsiasi video di un qualsiasi scontro tra la polizia – per non dire dell’esercito – e attivisti in una qualsiasi di tali società è risulta ovvio che l’aspetto militare del conflitto è del tutto unilaterale e non farebbe che peggiorare se intensificato.  L’unico reale fattore di mitigazione è il numero dei dissenzienti e il rifiuto di eseguire gli ordini da parte di elementi dell’esercito. Sono questi gli obiettivi cui devono concentrarsi gli interessati alla violenza.

A volte l’autodifesa è essenziale. A volte risulta desiderabile anche l’aggressione. Ma per la maggior parte dei casi, e certamente in generale, la violenza è il terreno dello status quo, non del cambiamento, e certamente non di un mondo nuovo. Limitate incursioni nella violenza – che sono l’unica cosa che chiunque della sinistra nei paesi industrializzati può fare – tipicamente compromettono la partecipazione vasta, giustificano la repressione, dirottano la consapevolezza e la concentrazione verso cose non essenziali, promuovono atteggiamenti e manierismi e abitudini contrarie a una sana costruzione del movimento, il tutto per ingaggiare uno scontro su un terreno che, senza dubbio, non è il nostro.  Vi è, perciò, un elevatissimo onere di prova nel mettere da parte la nonviolenza, perché nel mondo in cui viviamo la violenza tipicamente non funziona né per conseguire vittorie né, tanto meno, per costruire sostegno.

Quelle che sarebbero sensate sono scelte mirate ad allontanare i poliziotti e i soldati dal loro comandanti, da un lato, e ad accrescere il numero e la consapevolezza impegnata dei dissenzienti a un livello tale che non si possa essere intimiditi da esibizioni di forza e che l’uso della forza accresca le nostre fila e consolidi il nostro impegno.

Dunque, per tirare le somme, quanto alla questione della violenza e della nonviolenza, tali scelte dipendono dal contesto e dovrebbero essere operate alla luce della totalità degli effetti che siamo in grado di prevedere.  Inoltre le scelte dei pochi non dovrebbero essere operate in modi che compromettano le scelte dei molti, imponendo violazioni della nonviolenza contro quelli che la favoriscono mediante atti intrapresi contro le norme condivise.  Quelli che favoriscono una qualsiasi tattica che altri rifiutino dovrebbero dedicarsi ai loro tentativi separatamente, non cavalcare quelli che, in numero maggiore, non accettano le loro idee.  E infine, in ogni caso, al minimo nei paesi altamente industrializzati, le scelte di ricorrere ai danneggiamenti della proprietà privata, per non parlare di violenze maggiori, sono subordinate a un elevato onere di prova, esattamente perché sappiamo che tipicamente i loro effetti negativi sono grandi e i loro effetti positivi, ammesso che ve ne siano, minori.

10 febbraio 2012

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

Redazione 24 febbraio 2012 http://znetitaly.altervista.org/art/3494

Fonte: http://zcommunications.org/violence-begets-defeat-or-too-much-pacifism-by-michael-albert

traduzione di Giuseppe Volpe

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