La scuola a Gandhi. Un segno dei tempi – Francesco Comina

Un lampo di luce entra dalle vetrate della scuola altoatesina. Lo School Village di Merano apre le porte al mondo e decide che l’uomo più degno di rappresentare i licei e l’Itc, sia il politico più antipolitico del Novecento: il Mahatma Gandhi. Finalmente la grande storia entra nella piccola Heimat: libertà, idealismo, realismo di un’utopia. Basta guardarsi l’ombelico, basta scivolare sulle buccia di banana delle autocelebrazioni, come è accaduto nei mesi scorsi con l’intitolazione della biblioteca universitaria al Landeshauptmann Luis Durnwalder ancora saldamente alla guida della Provincia. Basta dare titoli e onorificenze a personaggi ambigui della storia sudtirolese, com’era accaduto con il liceo scientifico in lingua tedesca di Bolzano dedicato a Raimund von Klebelsberg, geologo sudtirolese all’università di Innsbruck che aderì al nazismo (intitolazione annullata pochi anni fa) o l’asilo infantile a Brunico, che ancora oggi è dedicato a Bruder Willram, prete guerrafondaio anti italiano attivo durante la prima guerra mondiale o la scuola media di Merano dedicata a Josef Wenter, poeta nazista.

L’Alto Adige non può rimanere confinato nell’ossessione di un passato nostalgico, dove l’ideologia negativa passa come una sorta di epoché fenomenologica, come una specie di sospensione di giudizio o, peggio ancora, come giustificazione rispetto ad periodo oscuro della storia in cui bisognava difendere l’identità culturale ed etnica di un popolo. Perché allora è stato così problematico intitolare scuole, vie e piazze a uomini come Josef Mayr-Nusser, che da quella storia ne uscirono con la condanna a morte urlando un sonoro No al sogno idolatrico del totalitarismo?

I giovani chiedono discontinuità. Non accettano più queste leggerezze. Hanno gli strumenti per capire che il mondo non si chiude al Brennero. Vogliono respirare. E questa sete va soddisfatta offrendo loro gli strumenti per capire che la loro storia è il frutto di un secolo che ha sperimentato il male assoluto, che ha teorizzato la guerra come monopolio della forza, che ha  conosciuto il mostro tentacolare di Auschwitz mandando al macello sei milioni di ebrei (ma anche zingari, omosessuali, malati psichici) e che ha messo le mani nel ventre dell’annientamento totale provando la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki.

Ma quello è anche il secolo in cui trionfa il bene più alto, il delirio della pace totale. E’ lì che si agita l’icona di Gandhi. Il richiamo del fachiro mezzo nudo e sdentato – come lo definì sprezzantemente Churchill – ha fatto muovere i passi della nonviolenza sulle strade di tutto il mondo. Il cuore di Gandhi batteva a Washington quando il pastore battista nero Martin Luther King dava corpo al suo sogno: “I have a dream”. Lo stesso sogno di pace è stato sventagliato da Thomas Merton nella sua resistenza tenace alla guerra nel Vietnam e nella ricerca di un amore interreligioso e interculturale senza se e senza ma (che strano anno quel ’68 che ci portò via Robert Kennedy, Martin Luther King e Thomas Merton).

Gandhi aveva iniziato i suoi esperimenti con la verità in Sudafrica, il Paese dell’apartheid. Era una avvocato stimato alle dipendenze di una grande ditta inglese. Alla fine dell’Ottocento durante un viaggio di lavoro venne buttato giù dal treno perché di colore. Capì che la realtà è himsa (violenza) e la verità è a-himsa (nonviolenza). E’ lì che iniziò la sua battaglia nonviolenta che arrivò a sconfiggere il grande impero inglese nella sua India. Proprio in Sudafrica in nome di Gandhi il leader nero Nelson Mandela si mise a ballare davanti al palazzo come presidente del Paese dopo 37 anni di carcere durissimo.

Ancora la nonviolenza di Gandhi ha sollevato l’America Latina dal brodo terrificante delle dittature che hanno insanguinato tutto il continente. Gli eroi nonviolenti li ricordiamo. Hanno i volti della fratellanza, volti pieni di vita come quello di Oscar Romero e di Marianella Garcia, il volto inerme di mons. Juan José Gerardi,  massacrato senza pietà nel Guatemala anni Novanta, il Paese della “terra rasada” che la giovane donna maya Rigoberta Menchù, premio Nobel per la pace del 1992, ha fatto conoscere al mondo attraverso il suo libro-scandalo “Mi chiamo Rigoberta Menchù”. E grazie alle madres e alle abuelas di Plaza de Mayo a Buenos Aires possiamo anche dire che la nonviolenza gandhiana ci ha riconsegnato i volti e la memoria delle migliaia di giovani desaparecidos, gettati in pasto ai pescecani nell’oceano dai militari golpisti. Per non pensare al Gandhi dell’Amazzonia, l’ambientalista Chico Mendes, ucciso dai latifondisti nel 1988, o il grande cantante Viktor Jara, massacrato dai militari di Pinochet in Cile subito dopo il colpo di stato del 1973.

In quel secolo lungo che è stato il Novecento, sul filo del satyagraha gandhiano, la pace si è data delle regole, ha avviato la storia del costituzionalismo, ha detto “mai più” il flagello della guerra. In Italia ha scritto la Costituzione più bella del mondo, l’articolo “pacifista” più coraggioso che sia mai stato scritto: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Gandhi ha costruito la storia molto più di tanti imperatori, primi ministri, dittatori, premier e presidenti di Regioni e province. Lui c’è, è un simbolo, un’icone viva e vegeta, tutti gli altri sono passati e non hanno lasciato traccia.

Anche in Alto Adige lo spirito di Gandhi ha aleggiato sull’autonomia. Ricordiamo il viaggio di Magnago e di alcuni esponenti della Democrazia cristiana e della Svp. Nel 1968 si recarono a Caux in Svizzera al Centro per il Riarmo morale, dal nipote del Mahatma, Rajmohan Gandhi, per chiedere un aiuto dall’uscita del conflitto etnico. Da lì si procedette “con più fiducia” – sono parole dello stesso Magnago – lungo la strada diplomatica e nonviolenta dell’accordo politico con Roma.

Gandhi parla anche con le labbra degli altri nomi indicati dagli studenti: Alexander Langer, Fabrizio De André, Italo Calvino, tutti nomi di grande respiro, punti di riferimento di un altro mondo possibile.

Ora manca solo il consenso del Comune. Sarebbe davvero una beffa se non lo accettasse. La preoccupazione c’è. Merano ha già negato l’intitolazione del liceo scientifico ad uno dei grandi protagonisti del Novecento. Fu all’inizio degli anni Ottanta. Il collegio d’istituto aveva indicato il nome di Bertrand Russel, il filosofo e scienziato pacifista che insieme ad Einstein scrisse, subito dopo la devastazione della bomba su Hiroshima, il Manifesto all’umanità. Il Comune disse più volte No. Russel era un ateo e non poteva trovare legittimazione nel cattolico Sudtirolo, che si credeva centro del mondo.

Ma erano altri tempi. C’era ancora il muro di Berlino, la guerra fredda, la dialettica fra est e ovest. Ora c’è l’Europa. C’è il mondo.

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