La religione aperta degli amici della nonviolenza – Pietro Polito

Da più parti, anche in alto, molto in alto, si è levato l’appello all’impegno da parte di una nuova generazione di politici cattolici. Questo appello si fonda sulla convinzione che la politica necessita di una iniezione di valori morali ma e religiosi.

La tesi non è sbagliata ma richiede qualche chiarimento su che cosa si intende per religione.

Il ritorno di Religione aperta, un libro apparso nel 1955, allora messo all’Indice dal Sant’Uffizio, che in quegli anni è stato un sasso gettato nelle acque stagnanti di una Italia segnata dalla contrapposizione tra le tre grandi “fedi” (laici, cattolici, comunisti), si inserisce bene nell’attuale dibattito sul rapporto tra politica e religione.

Di recente è ritornato in libreria Religione aperta di Aldo Capitini, con il commento intelligente di Goffredo Fofi e Mario Martini (Laterza, Roma-Bari, 2011).

Aldo Capitini ritiene che non c’è e non può esserci alcun rapporto di influenza reciproca tra la politica e la religione se per religione si intende questa o quella confessione (cattolica, protestante, islamica e così via).

Chiarito e stabilito questo principio che per i laici non è negoziabile, gli amici della nonviolenza possono portare un importante contributo religioso al rinnovamento della politica, secondo l’insegnamento del filosofo italiano della nonviolenza.

La religione aperta non è una religione del Libro, si fonda su una filosofia (elaborata da Capitini), la teoria della compresenza, e si prolunga in una politica (che egli eredita da Gandhi), il satyagraha. In breve, la compresenza è il fondamento della religione aperta, la nonviolenza ne è lo svolgimento pratico. Vale la pena riferire la connessione tra teoria e prassi con le parole di Capitini.

Fondamentalmente la religione è il rifiuto della “realtà dei fatti”, una realtà “dove il pesce più grande mangia il pesce più piccolo”; la religione è “servizio dell’impossibile, rifiutando di accettare i modi attuali di realizzarsi della vita e del mondo come se fossero assoluti e gli unici possibili”.

Un’utopia? Una predica? Né l’una né l’altra: una profezia. Il metodo di Gandhi permette di far vivere concretamente, qui ed ora, a partire da noi stessi, i modi religiosi: agire religiosamente vuol dire operare nonviolentemente, significa considerare l’altro “come possibilità infinita”.

L’apertura religiosa va oltre la tolleranza, perché non si arresta al precetto di non fare agli altri ciò che non vogliamo che gli altri facciano a noi, e oltre la fede tradizionale, perché non è limitata al cerchio dei credenti.

L’apertura va oltre la mitezza ripresa e riproposta da Bobbio, perché, mentre la mitezza è una virtù negativa in quanto riconosce l’altro così com’è, l’apertura è una virtù attiva in quanto “è gioia per la presenza degli altri”, è “attenzione appassionata”, è “fiducia”, è “offerta del proprio contributo”.

Il contributo religioso, nel senso della religione aperta, non viene dall’alto, non si esprime in “una lingua che non è capita dal popolo”, non si fonda sulla distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male; non deriva dall’osservanza di dogmi o dalla credenza in cose discutibili o leggende, non si manifesta nel recinto di una “parrocchia totalitaria”.

In altre parole la religione aperta non ha bisogno di essere costituita in una istituzione, “usa con tutti e in tutte le occasioni la lingua comune, da tutti capita”, si richiama all’osservazione dell’esperienza e alla voce della ragione e della coscienza, è “libera aggiunta”, è rispetto delle opinioni di tutti, “non si organizza in parrocchie con la dannazione di chi non ha la stessa fede, ma in centri di fede”.

Secondo un detto indiano, amato da Capitini, “l’albero non rifiuta riparo neppure all’uomo che viene per tagliarlo”.

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Postilla. L’albero e la parrocchia

La religione aperta, così come è presentata da Capitini, potrebbe essere ripensata e formulata come il nucleo vitale di ogni esperienza religiosa attiva. Non saprei dire, perché non ne ho una conoscenza adeguata, se un tale sviluppo è pensabile per l’Islam. Mi pare però che il discorso sia pertinente nei confronti del Cristianesimo.

Un solo esempio recente tratto dalla cultura cinematografica. La parrocchia descritta da Ermanno Olmi nel film “Il villaggio di cartone”, così come l’albero di cui si parla nell’Induismo, non rifiuta riparo neppure all’uomo che viene per tagliarlo. L’anziano prete vive la casa del Signore come un cerchio più largo del “cerchio dei credenti”.

La porta della casa del Signore rimane chiusa per il gendarme venuto per applicare il regolamento, non per essere accolto tra i tutti.

Diario italiano. Fatti, persone, idee, valori (a cura di Pietro Polito)

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