Che cosa farebbe Gandhi? – Ian Desai

GANDHI era dappertutto a New York recentemente. Dapprima è apparso a Occupy Wall Street come fosse un santo patrono, a ispirare le tattiche nonviolente della protesta. (I dimostranti gli hanno perfino dedicato un viale). Poi è emerso alla Metropolitan Opera come star dell’opera “Satyagraha” di Philip Glass.

Ma con lo sgombero dell’accampamento di Zuccotti Park e l’opera in chiusura il 1° dicembre, New York è davvero il posto per Gandhi? O vale la pena chiedersi che cosa farebbe Gandhi stesso nel mondo d’oggi?

Per tutta la vita, Gandhi si preoccupò di mettere in pratica una morale universale. Così facendo, cercava di superare la divisione fra idee e azione. Questo insieme di idee e azione è appunto quanto anima il “Satyagraha” di Glass. Durante lo spettacolo di quasi quattro ore, la carriera di Gandhi come combattente per la libertà viene contestualizzata dai debiti intellettuali che aveva con Tolstoi, Tagore e soprattutto la Bhagavad Gita.

Via via, l’opera rivela il fatto spesso trascurato che le conquiste di Gandhi furono rese possibili da un nocciolo di collaboratori vigorosi fra un vasto gruppo di seguaci. Cogliendo il dramma politico della vita di Gandhi, le radici del suo universo intellettuale e il suo affidarsi alla comunità che guidava, “Satyagraha” ci fornisce una più ricca visione di Gandhi che la gran parte dei ritratti contemporanei del Mahatma.

Può tuttavia essere difficile trascurare l’incongruenza dei tappi di champagne che saltano negli intervalli, l’atmosfera del vedere-ed-essere-visti nonché il prezzo salato dei biglietti al Metropolitan Theater. Questo sfoggio ha poco a che fare con le idee di Gandhi sulla giustizia sociale e rende l’ opera un mezzo disagevole per la sua visione politica; di fatto getta un’infelice ironia sulla stessa abilità con cui viene messa in scena tale visione. L’opera di Glass alla fin fine lascia fuori dai guai il pubblico, edificato moralmente ma non necessariamente più impegnato nei problemi sociali o più disposto a correggerli. La produzione ci mostra quel che fece Gandhi, senza però mai suggerire come potremmo anche noi unirci all’azione, cancellando la distanza fra la casa e il palcoscenico.

In tal senso, lo spettacolo da vedere era in centro, a Occupy Wall Street. Era al tempo stesso teatro politico, una comune di controcultura, e un’ agenzia di reclutamento per cause progressiste.

Credo che Gandhi avrebbe ammirato l’energia e lo spirito di comunità di Zuccotti Park, ma se fosse stato coinvolto nelle proteste avrebbe preso il microfono umano suggerendo qualche modifica.

Per prima cosa, Gandhi rifiuterebbe la divisione fra il 99% e l’1%. Egli non credeva nei nemici: operava con la premessa che emergessero soluzioni solo dalla cooperazione. Questa verità va spesso persa nelle discussioni sulla sua tattica politica di non-cooperazione e disobbedienza civile. La non-cooperazione si comprende al meglio come un invito a cooperare. “Siamo il 100%” può anche non risultare uno slogan incisivo, ma dalla prospettiva di Gandhi è l’unico modo di conseguire un vero durevole cambiamento nella società.

Gandhi rimarcherebbe che la trasformazione sociale esige significative responsabilità da parte di ciascuno di noi. Il mondo non è un sistema statico o inalterabile. La società esiste in un certo modo quando vi entriamo, ma sono le nostre azioni o inazioni che mantengono lo status quo, rendono peggiore la situazione o la cambiano per il meglio. Gandhi lo spiegava nel modo più puntuale dichiarando che l’Impero Britannico esisteva perché gli indiani lo avevano fatto esistere. Avrebbe detto la stessa cosa a proposito della drastica diseguaglianza di reddito in America oggi: c’è perché gli americani collettivamente permettono che ci sia.

Pertanto incoraggerebbe i manifestanti a focalizzare i loro sforzi sull’assistenza sociale diretta e sull’azione politica positiva. Rispetto al lavoro sociale, la cacciata dei manifestanti dalle tende nel parco può in fondo essere una benedizione. Al culmine della sua importanza, nel 1930, Gandhi rinunciò alla propria casa e alla sua sede politica e si trasferì successivamente nel cuore dell’India rurale per predisporre organizzazioni di servizio e promuovere “industrie di villaggio” ed economie sostenibili di piccola scala.

Benché il giovane Gandhi si focalizzasse sulla protesta e l’organizzazione politica, in maturità si concentrò principalmente sul “lavoro costruttivo” e sul servizio. Si rese conto che le lotte più importanti per un mondo giusto si combattevano nel mondo — nei centri comunitari, nelle scuole, nelle case d’accoglienza e nelle organizzazioni assistenziali, nelle cliniche e nelle chiese, agli angoli di strada e in lungo e in largo nelle campagne delle comunità rurali.

In quanto all’azione politica, Gandhi vorrebbe anche un piano costruttivo più sistematico per il movimento. Sarebbe stato sì paziente durante la discussione degli obiettivi e delle tattiche, ma avrebbe insistito che alla fine si individuassero obiettivi precisi, si definisse la relativa strategia, e si comunicasse tutto ciò agli avversari e al pubblico più ampio. Quella è la responsabilità che i potenziali rivoluzionari devono assumere. Se si vuole trasparenza, equità e coscienziosità dai propri avversari, si deve diventare esempi di tali virtù.

Puntare il dito e attribuire colpe è facile — può anche essere utile. Protestare nel parco in centro città può anch’esso essere alquanto utile. E così pure il supporto del mondo dello spettacolo e delle arti. Nella misura in cui entrambi gli approcci ci servono a pensare a fondo allo stato attuale della nostra società, contribuiscono a una causa comune di risollevamento morale e miglioramento. Ma sono significativi al massimo quando predispongono la scena per un’azione sociale costruttiva, mediante la quale potremmo cominciare a risanare il mondo.

 

New Delhi, 2 Novembre 2011

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis

Titolo originale: What Would Gandhi Do?

http://www.dailynews.net.pk/dec2011/01-12-2011/what.asp

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