Ciò che divide violenza e brutalità – René Schérer

Anticipiamo in queste pagine un ampio stralcio dall’intervento con cui si apre il convegno «Spacco tutto!» dedicato al tema della violenza giovanile, in programma giovedì e venerdì all’università di Milano Bicocca Il bambino fa paura, è il nemico. Abbiamo creduto di doverlo isolare, separarlo dagli adulti per meglio proteggerlo e garantirlo dalle loro aggressioni. Ma è diventato lo sconosciuto, lo straniero. Ed ecco che si ritorce contro di noi.

Violenza giovanile, violenza nelle strade, in famiglia, a scuola. Come lottare contro di essa, controllarla o prevenirla? La violenza della gioventù non fa più pena né seduce; crea soprattutto inquietudine, fa paura. È solo questione di tutelarsi, di sradicarla, parola di moda. Sradicarla e con essa, con lo stesso colpo, sradicare il suo agente. Proprio questo è stato detto, a proposito dei recenti disordini in Inghilterra. Il bambino è percepito meno come un essere che soffre e di cui dovremmo farci carico e molto più come un avversario. Il bambino fa paura, è il nemico, il nostro nemico. Abbiamo creduto di doverlo isolare, separarlo dagli adulti per meglio proteggerlo e garantirlo dalle loro aggressioni; farlo andare a scuola per liberarlo dal lavoro. Ma è diventato lo sconosciuto, lo straniero. Ed ecco che si ritorce contro di noi.

Soggetti ostili

Alla pietà viene sostituita una xenofobia dell’infanzia. Che è lo stesso tipo di separazione, di distinzione, divenuta banale, tra l’ideale melenso, politicamente corretto di una non violenza dichiarata inerente ai rapporti umani naturali, e il fantasma di una violenza condensata, contratta e proiettata sullo straniero sconosciuto e infido, condensata in gesti, in parole arroganti e ignobili che costituiscono l’opposto di questa non violenza beneducata in cui ci crogioliamo e di cui la logorrea mediatica ama intrattenere l’illusione.

Se l’infanzia, l’adolescenza sono divenute e proclamate nemiche non è tanto perché sono diventate più violente; è perché si è modificato lo sguardo rivolto ad esse. O, se si preferisce, più ancora che lo sguardo, è mutato l’organizzatore che lo rende possibile, il dispositivo che le ha rese straniere e ostili. Quel complesso di circostanze, di cause e di effetti grazie ai quali, all’interno dei quali, l’infanzia stessa, l’adolescenza, diviene visibile, si produce. Perché c’è davvero una produzione di questi soggetti ostili e intolleranti. E il nostro compito è innanzitutto proprio quello di svelare questo dispositivo, cercare di capire come si è costituito.

Solo partendo da qui potremo sperare di trovare una qualche risposta alla domanda o una qualche soluzione al problema. Sempre che ve ne sia una. Per farlo preferirei non appoggiarmi alle pedagogie moderne che, pur nella bontà delle loro intenzioni, brillano per il loro fallimento generalizzato. Proverò semplicemente a tracciare qualche linea, a dare qualche punto di riferimento. Tra quelli che più mi hanno aiutato, che più mi hanno colpito nel corso delle mie ricerche ne trovo tre. Non si tratta certo di pedagogisti, ma piuttosto di loro antagonisti: outsider, marginali. Si tratta dei miei riferimenti preferiti: Fourier, Genet e Pasolini. Genet con Il giovane criminale e Violenza e brutalità; Pasolini nelle Lettere luterane, Fourier e la sua «Educazione armonica». Punti di riferimento importanti per delineare il volto di un dispositivo che ha condotto l’educazione contemporanea nell’impasse, in questa «strada senza uscita» sulla quale ci lamentiamo.

In una visione autenticamente manichea, il mondo di Genet si divide in due campi ostili e inconciliabili: quello della società nel suo insieme, dei suoi uditori potenziali, «il vostro» – il mondo dei valori delle forze tradizionali e definite, e l’altro, il tutt’ Altro. Inferno o paradiso di un rivolgimento dei valori (in senso nicciano) allo stato puro, quello dei giovani delinquenti, del «giovane criminale» che è anche il suo, perché è stato uno di essi e continua a esserlo per sua scelta. È «il nemico dichiarato», dato che si considera, si dichiara, straniero a una società di cui rifiuta tutto. Portavoce, interprete o testimone, tutto questo insieme, Genet scrive per l’infanzia criminale rivolgendosi a essa e in suo nome. Perché l’esclusione non è mai passiva, puramente ricevuta e subita. È voluta; è atto di secessione, di partenza, di affermazione di sé; come di altri, associati sullo stesso lato.

Il giovane criminale è anche la nascita di un «popolo infante», come la secessione sull’Aventino fu l’atto di nascita del popolo romano. C’è, in questo costituirsi come nemico, dell’irreversibilità e dell’affermazione. E si capisce come questa può essere una delle basi del dispositivo nascente, del nuovo rapporto che si disegna tra la società e la sua infanzia. Rapporto ambiguo, certamente, al contempo contraddittorio e utopico, ma carico di virtualità, di potenze ancora inesplorate.

Il nemico rifiuta la protezione, deve solo fare pietà; proclama la separazione e l’odio: irrecuperabile e irriducibile. Ma si deve andare fino a lui, fino a questo eccesso, se non si vuole restare al di qua della giovinezza attuale; al di qua della crisi generale della società nei suoi confronti. Fino a questa inimicizia dichiarata, fondamentale e costitutiva, altrimenti saremo costretti a non procedere mai oltre dei lamentevoli rifacimenti. Il fallimento delle misure educative è fatale per chi non ha voluto affrontare il nemico; e prima di tutto ragionare partendo da lui, dalla sua necessaria costituzione nel quadro della formazione della società contemporanea e del dispositivo dell’infanzia e della giovinezza che lo riguarda. In altri termini: la società contemporanea si è edificata e ha elaborato la sua educazione, il suo sistema educativo, in modo tale che la sua giovinezza si è costituita come nemica – come nemica e come delinquente. Al tempo stesso, per contraccolpo, la sua gioventù ha prodotto delinquenza e inimicizia «reale». Possiamo stare dalla sua parte solo dando ragione ai suoi detrattori; ma questa conversione, questo cambiamento di segno e di senso è inevitabile. Nell’ipotesi, tuttavia, che l’insieme dei valori della società dominante sia in e per la «giovinezza» contestata e rovesciata. Che la scelta del «male» sia un segno distintivo, non univoco, di questo ribaltamento. Il male, ovvero la contestazione, la rivolta. Genet è il paradosso della scelta solitaria, quello del rifiutato, dell’escluso. Del bianco che rivendica: «sono un negro».

Questo male rivendicato, che Genet attribuisce al giovane criminale da lui apparentato al brigante, al bandito, al vagabondo di una tradizione intinta di romanticismo, nutrito da un desiderio di trasgressione, lo definirei volentieri un male classico. C’è tuttavia un altro male che alimenta non la trasgressione ma, al contrario, il desiderio insoddisfatto della conformità, del piacere possessivo. Questa ostilità diretta e per così dire ingenua coesiste con un’altra forma di violenza, più sottile e mascherata, fatta a sua volta di rivolta e di adesione. Se la prima ha Genet come portavoce, la seconda è Pasolini ad averci insegnato a scoprirla. Alla gioventù nemica si deve aggiungere la gioventù conforme e conformista. Aggiungere, associare e forse intravedere che non sono due gioventù differenti, opposte, ma la stessa – nemiche e conformiste nei loro valori latenti o manifesti.

Crimini e mascalzonate

Qui c’è un secondo aspetto cui si deve essere particolarmente sensibili, anche se non riguarda precisamente il problema della violenza come lo intendiamo di solito, e anzi, al limite, presenterebbe il suo opposto, la sua inversione, ma che resta inseparabile dal dispositivo della «nostra gioventù», la gioventù di oggi. È il conformismo morale, «ideologico», che sotto molti aspetti la fa apparire come in ritardo rispetto ai fratelli maggiori. Paradosso di una gioventù conformista, che ha abbandonato gli ideali della generazione precedente e prende in giro le sue conquiste e i suoi ideali – base sulla quale si va a innestare una nuova violenza e che in sé costituisce una violenza propria, uno scandalo. Un paradosso cui è stato particolarmente sensibile Pasolini – il primo, se non il solo, a rivelarlo, mettendolo come tema di tutte le sue considerazioni, dei suoi interventi negli anni ’70. Il conformismo della gioventù e anche il doppio conformismo, in quanto c’è un «conformismo della rivolta» che convive con il primo, trasformando il crimine in mascalzonata.

Nuovo aspetto del dispositivo è il consumismo. Assai diffuso in tutta l’opera di Pasolini, questo aspetto si esprime soprattutto nelle Lettere luterane, sin dall’inizio del libro. La società dei consumi, il nuovo capitalismo e, più recentemente la globalizzazione, hanno imposto ai giovani uniformità di gusti e di idee su un modello convenuto, corroso di ideali e prospettive entusiaste. La requisitoria pasoliniana è infiammata, parziale, ingiusta, a modo suo, altrettanto impossibile di quella di Genet nella sua professione di fede del giovane criminale. Questo «impossibile» peraltro, è la luce che ci orienta.

Un’iniziazione barbarica

Bisogna essere in grado di leggerlo nella sua totalità per cogliere il tracciato della seconda linea del dispositivo, quella linea di forza e di tensione che è anche quella della violenza che segna la scollatura dei due gruppi sociali dei padri e dei figli: «I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà». Queste righe sono state scritte nel 1975, anno dell’assassinio del poeta cineasta e sono segnate dai tratti caratteristici del loro tempo. Tratti comunque ampiamente visibili ancora oggi, nelle bermuda giganti con il cavallo che arriva alle ginocchia, sfida instillata e generalizzata da una propaganda pudibonda riguardo a ogni tipo di contatto con gli adulti, cose particolarmente rivoltanti per coloro il cui ideale di seduzione si situa nella gioventù operaia degli anni ’30.

A Genet e alla faccia gloriosa, romantica del criminale, Pasolini oppone l’altra faccia, quella della sua abiezione, del criminale in certo senso positivista e disincantato. L’adozione del consumo e delle sue tesi ha privato la vita di ogni aura. Come la cultura – non una controcultura combattiva, ma questa sottocultura universalmente adottata e uniforme che cancella ogni possibilità, ogni desiderio di resistenza. La nuova gioventù non ha più né ideali né fine. E la nuova violenza non trova altro modo di esprimersi che nella forma della brutalità pura e semplice per un desiderio di distruzione, una negatività reattiva, guidata da un puro e semplice risentimento.

L’ordine della banda

È Genet a distinguere tra violenza e brutalità: la violenza è affermativa, inerente alla vita felice; mentre la brutalità è reattiva, mortifera e infelice. La violenza è quella del seme di grano che germoglia, è germinale. La brutalità deriva dal potere che opprime. Brutalità del sistema; può anche essere l’espressione di un individuo, ma fin tanto che lui stesso si riferisce a un sistema, si appoggia su di esso, agisce contro altri in ragione delle sue convenzioni. La brutalità di un secondino, di uno sbirro. O quella di un giovane quando pretende di voler far regnare il suo ordine di banda, di quartiere, di famiglia. La violenza sta dalla parte della libertà, la brutalità da quella dell’oppressione. «Il gesto brutale è il gesto che spezza un atto libero».

E Genet precisa, aprendo la lista delle brutalità che non sono sempre direttamente percettibili, in quanto assumono, al contrario, la maschera della non violenza: «La brutalità prende le forme dunque più inattese, non immediatamente rilevabili come brutalità: l’architettura delle case popolari, la burocrazia, la sostituzione del nome proprio o conosciuto – con il numero, la precedenza, nella circolazione, data alla velocità rispetto alla lentezza dei pedoni, l’autorità della macchina sull’uomo che la serve, la codificazione delle leggi che prevalgono sui costumi, la progressione numerica delle pene, l’uso del segreto istruttorio che impedisce una conoscenza di interesse generale, l’inutilità della sberla nei commissariati, il dare del tu poliziesco a quelli che hanno la pelle scura, l’inchino ossequioso davanti alla mancia e l’ironia o la volgarità se la mancia non c’è, la marcia al passo dell’oca, il bombardamento di Haïphong, la Rolls Royce da 40 milioni». Concludendo, per prevenire ogni commento che troverebbe questo elenco ingenuo o datato: «Certamente nessun elenco sarebbe in grado di elencare i fatti che sono come i molteplici avatar attraverso cui la brutalità si impone. E tutta la violenza spontanea della vita continuata dalla violenza dei rivoluzionari sarà appena sufficiente per far fallire la brutalità organizzata».

Come fare sì che la brutalità della gioventù attuale impropriamente qualificata come violenza, divenga parte pregnante, forza viva della storia nel suo farsi? Come prendere in carico le potenze positive della violenza «vera» dell’infanzia e dell’adolescenza al servizio di una educazione che non sia semplicemente concepita come un obbligo, un derivato o un alibi inefficace? La risposta a questo problema, tra gli autori moderni, la troviamo in Fourier. E qui, per limitarmi a una corretta formulazione del problema, mi accontento di chiudere il mio intervento sotto il segno della classificazione che ha dato Fourier, nel prologo della sua «educazione armonica» dei sistemi educativi in uso nelle nostre società attuali, quelle dei «civilizzati».

Splendido Gennariello

Questa «quadriglia» dei sistemi in uso, è completata in Fourier da un «perno», e comprende le seguenti educazioni: dogmatica, quella cioè che riguarda l’insegnamento impartito dai maestri e professori; insorgente, che consiste nell’addestramento dei compagni, sempre ribelli e pronti alla rivolta («impartito cabalisticamente dai compagni in lega turbolenta» che non mira altro che a litigare, rompere, distruggere, incendiare appena sono in grado di godere della minima libertà); interessata cioè impartita dai padri e le famiglie da non confondere con le lezioni della scuola che predicano la morale civica e il disinteresse individuale, «sciocchezze liberali»; evasiva impartita dai servitori, dai valletti, da tutti i fornitori di cattivi esempi (una educazione che certo non si trova più, ma è mirabilmente illustrata dal Giro di vite di Henry James con l’istitutrice e il maggiordomo corruttori di bambini). Tutti questi sistemi si fondano peraltro nell’ultimo pilastro che li annulla, e ne assorbe e qualifica per questo l’educazione assorbente o «mondana», quella del mondo, ispirata dagli amori di gioventù e dalla scelta di un mestiere. Un quadro che si spiega da solo, credo, senza altri commenti e che avrebbe bisogno solo di leggeri aggiustamenti.

Rispetto a Fourier, Pasolini non si rivolge alla collettività; non elucubra su di lei e sul nuovo elemento del doppio conformismo della gioventù distolta dalla maggioranza. È minoritariamente, riaffermando la sua minoranza e la sua «marginalità», la sua singolarità e la sua eccezione, che il giovane può arrivare a trasformare la brutalità del suo ambiente, del suo socius, in violenza positiva. Non per opporre a una supposta «violenza» una nonviolenza che ne sarebbe solo un rinforzo, una sottomissione alla massa, ma la forza di uno splendore: «e tu splendi, invece, Gennariello». Lezione ambigua, enigmatica.

Genet, Fourier, Pasolini: opporre la violenza creatrice alla brutalità dell’ambiente; cambiare la marcia delle passioni esaltandole in sé stesse; sostituire alla tetraggine di una vita senza uscita la volontà dello splendore; «e tu splendi, invece, Gennariello». Bella prescrizione educativa alla quale potremmo aggiungere quest’altra tratta dalle medesime Lettere: «non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro».

Ma splendere non è forse a sua volta una forma di violenza? Di quella inespugnabile della vita.

(traduzione di Rinaldo Cantadore)

PROFILO

Un pedagogo

nel segno di Fourier

Voce francese della «pedagogia della differenza», compagno di strada di filosofi come Gilles Deleuze, Félix Guattari, Jean-François Lyotard, professore emerito dell’Université de Paris-VIII (nonché fratello del cineasta Eric Rohmer e grande appassionato lui stesso di cinema), René Schérer – nato a Tulle nel 1922 – è l’ospite d’onore del convegno «Spacco tutto! Violenza e educazione» che si tiene giovedì 24 e venerdì 25 novembre presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’università di Milano Bicocca. Sarà proprio Schérer ad aprire i lavori delle due giornate di studio con un intervento, «La violenza giovanile e la lezione di Genet, Pasolini, Fourier», di cui anticipiamo in queste pagine ampi stralci. Al convegno, curato da Paolo Mottana, intervengono, tra gli altri, Alessandro Dal Lago, Marianella Sclavi, don Andrea Gallo, Franco Berardi. (Il programma completo si legge su www.formazione.unimib.it).

 

il manifesto 2011.11.22

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