Sarajevo e i volti e le storie di Bosnia

Gianmarco Pisa

Viaggio in una città-mondo e capitale in attesa

Essere accolti da una fiumana di gente, più o meno di fretta, può essere spiazzante. Soprattutto se in quei volti vedi racchiusa un’infinità di storie e di provenienze, volti che parlano delle destinazioni più remote da cui si proviene e dei motivi più disparati per cui si circola tra quei vicoli e quegli slarghi. Nell’agosto del 2009 un buon numero di costoro, intellettuali ed “occidentali”, era giunto in queste valli per uno degli eventi di maggiore richiamo dell’estate balcanica, il Film Festival cittadino, in questo 2011 anticipato al mese di luglio ed arricchito da presenze che non ti aspetti, Angelina Jolie su tutti. Quest’anno è come se questa capitale meravigliosa, porta e crocevia di Oriente ed Occidente, avesse in serbo qualcosa di diverso e di sorprendente, forse perché scadenze importanti la attendono alla soglia del nuovo anno, forse perché da queste parti si sentono più vicini gli echi degli spari e delle barricate del non lontano Kosovo serbo, che riportano alla mente i morti e le esplosioni di cui anche questa capitale era bersagliata non più tardi di venti anni fa. Tutt’intorno la gente continua ad affastellarsi freneticamente: Ljubi?ica, l’info-point turistico, è il solito via vai di escursionisti e viaggiatori, la Miljacka scorre placida sotto i ponti, di fronte si staglia la fontana rituale della Baš?aršija, come sempre invasa dai piccioni. Benvenuti a Sarajevo.

Luci della città

«È difficile che questa città possa dare qualche soddisfazione, o almeno le soddisfazioni che uno si aspetterebbe di ricevere nella propria, grande, città. Sarajevo non ama essere fan di nessuno. Sei tu che devi essere fan di Sarajevo». Mersiha Behlulovic lavora come addetta stampa presso l’Ambasciata d’Italia. Per noi, operatori di pace che si sono spinti sin quaggiù a documentare i volti e le storie degli ultimi venti anni del post-conflitto bosniaco, il suo punto di vista è utile e prezioso. La fiumana di viaggiatori e turisti, di cooperanti ed imprenditori, che aveva reso così dirompente e caotica, la mattina, la passeggiata lungo le vie di Baš?aršija cede il posto, la sera, alle meraviglie della Sarajevo di notte, un affastellarsi di luci e colori, alternati agli odori caratteristici dei vicoli della città ottomana ed al canto del muezzin che richiama alla preghiera. L’iftar è da poco trascorso ed abbiamo atteso insieme l’arrivo di Mersiha: il periodo del ramadan è uno dei più carichi di immagini e di significati in una città come questa, che del retaggio turco-ottomano fa sfoggio, bella ed orgogliosa come non mai, ma che pure, allo stesso tempo, non fa a meno di ricordarti come siano stati altri i momenti del fasto per questa terra, un po’ l’epoca della dominazione asburgica a cavallo tra Ottocento e Novecento, un po’ la stagione del socialismo jugoslavo, fatto di ampia autogestione e moderata autonomia, che oggi in troppi sembrano ri-evocare e rimpiangere.

Ost-algia?

Il sentimento della nostalgia da queste parti sembra farla da padrona. Non è la prima volta e non sarà l’unica che capiterà di imbattersi in questa forma spuria di jugo – malinconia, però è molto significativo vedere come riesca ad essere declinata in mille varianti, di posto in posto, tra le capitali di quelle che una volta erano i fiori all’occhiello del socialismo titino. Se la Belgrado incontrata nel corso della “Carovana di Pace” del 2009 ti sorprendeva per la sua magniloquenza monumentale ed il suo fascino imperiale, la Sarajevo della “Bosnia ed Erzegovina: i Volti, le Storie” del 2011 è in grado di consegnarti delle impressioni, insieme, evasive e sconvolgenti. «Sarajevo, come tutta la Bosnia, è una città addormentata, in attesa di eventi che non si sa se accadranno e di parole che non sai se verranno mai pronunciate. Si sente come l’assenza di una politica, di una direzione, di una speranza. Si sente il silenzio degli intellettuali. È il loro urlo che è venuto meno». Rivolgersi alle parole di chi non vive a Sarajevo, ma Sarajevo conosce bene per averci lavorato e vissuto, può fornire qualche utile “avviso ai naviganti”. Hamica Nametak è una figura poco nota al pubblico italiano, ma di assoluto rilievo nel panorama culturale bosniaco. Già direttore del Teatro dei Burattini a Mostar, autore ed attore, sceneggiatore e regista, è una delle figure di spicco del teatro bosniaco. Il suo punto di vista è quello di tanti tra gli attori più consapevoli della vita pubblica nel Paese: come se Sarajevo, con tutta la Bosnia, avesse dilapidato un tesoro faticosamente costruito attraverso le generazioni e vivesse oggi come sospesa, nell’attesa di recuperare i fasti del proprio glorioso passato e nella speranza che una novità possa presto stagliarsi all’orizzonte.

I giovani, e una prospettiva di futuro

I giovani rappresentano una potenzialità, ma non è detto che possano corrispondere, con i loro volti e le loro storie, a quello che il Paese si attende da loro. Da un lato, incarnano quelle speranze e quelle aspettative di cui tanto si sente parlare in giro. Dall’altro, sembrano anche i più consapevoli di ciò di cui ci sarebbe effettivamente bisogno da queste parti. Forse subiscono, in maniera più condizionante di quanto non accada agli adulti, gli effetti di una memoria dimidiata che è quella portata dalla guerra, dall’assedio, dalla divisione che ne è seguita e che gli Accordi di Dayton hanno sancito in maniera formale. Certamente, sono i meno sensibili al richiamo della storia ed alla nostalgia del benessere titino: un po’ perché non hanno la memoria del «prima», avvoltolati nella sfera di una permanente immanenza, un po’ perché è il discorso ideologico da “grande narrazione” ad avere perso, nel suo insieme, consistenza e smalto. «Come si fa a dire che prima si stava meglio. Certo, c’era il lavoro, la scuola era gratuita, la sanità funzionava. Ma non c’era nulla di quella “fratellanza e unità” che la propaganda del regime andava sbandierando. Al massimo, si viveva come buoni vicini di casa, evitando di far emergere i problemi che si andavano accumulando sotto il tappeto». Il punto di vista della nonviolenza sa spesso essere tagliente e critico. Sanja Deankovic, del Centro per l’Azione Nonviolenta, non sembra avere dubbi a riguardo. Ma anche le sue certezze sembrano lì lì per infrangersi al muro delle prospettive. «Lavorare per la pace e la nonviolenza può essere frustrante, in un contesto come questo. Molti amici stanno lasciando il proprio impegno, per fare altro».

Fronti domestici della divisione etnica

Qui le generazioni sono tagliate in due: dall’eredità della storia e dai confini di classe. Non si fatica a notare come i giovani della middle – class siano i più aperti alla comunicazione inter-culturale ed anche i più speranzosi in un futuro europeo per la Bosnia e la sua capitale. Meno propensi all’abbandono nella retorica ed al vagheggiamento del passato, ti parlano con disillusione e scetticismo della Bosnia qual è oggi: una clamorosa alchimia istituzionale, da un anno senza governo, con tre presidenti, tre governi, tre parlamenti, un centinaio di ministri ed una pletora di funzionari di Stato, sparsi per le due entità della quale si compone, la Republika Srpska per i serbi e la Federazione Croato-Musulmana per i croati e per i musulmani, che si spartiscono cantoni e municipi. Spesso con effetti drammatici. Ljuljieta Goranci Brkic è la direttrice del Centro Nansen per il Dialogo, luogo di elaborazione e condivisione intestato alla memoria di Fridtjof Nansen (1861 – 1930), politico norvegese, artefice dell’indipendenza pacifica della sua Norvegia, Premio Nobel per la Pace nel fatidico 1922. La Norvegia, vista da qui, appare lontana. «La difficoltà di lavorare per la pace» spiega Ljuljieta «è soprattutto la difficoltà ad entrare nelle comunità. Perciò bisognerebbe dedicarsi al lavoro sulla memoria e sulla condivisione all’interno dei villaggi e sulle generazioni più giovani. Se non ne avete mai sentito parlare, documentatevi sulle scuole divise. Si chiamano “le due scuole sotto lo stesso tetto”. In una cinquantina di città della Federazione, ancor oggi, sono la norma: il primo piano per i bambini musulmani, il secondo piano per i bambini croati, ciascuno con il proprio programma e con il proprio sussidiario, fatto a Sarajevo, per i primi, spedito da Zagabria per i secondi». Due narrazioni separate del Paese.

Guerra reale e madri-patrie immaginarie

Per i giovani figli del popolo il richiamo alla madre-patria immaginaria, Belgrado per i serbo-bosniaci e Zagabria per i croato-bosniaci, è anche un fattore di identità ed una promessa di sicurezza in un Paese che sembra non offrire loro più nulla: poche le speranze, esangui le certezze, praticamente ridotte a zero le opportunità di lavoro e guadagno. La crisi economica, in una stagione di vera e propria “congiuntura” mondiale, picchia ancora più duro su questo Paese e corrode il già lacero tessuto di rapporti sociali che la guerra e la separazione hanno scoperto ancora di più. Il discorso sulla ri-conciliazione, da queste parti, sembra essere entrato in un vicolo cieco: è difficile parlare di ri-conciliazione, ri-composizione e convivenza se ancora si aspetta verità e giustizia per i propri morti e le sofferenze patite e se, oggi più di ieri, si fatica a vivere bene anche all’interno della propria stessa comunità, con l’incognita del lunario da sbarcare e del pranzo con la cena da mettere insieme. “Muki”, che incontriamo da Ljubi?ica, ci racconta la sua storia: il padre in guerra, al fronte a difendere la città, la città da amare perché è la capitale del Paese ed il crocevia della storia, il duro lavoro che si tiene stretto, tra i fortunati, pochi tra i giovani, che riescono a campare del proprio mestiere, tirando avanti la propria quotidianità. Il suo giudizio è duro e chiama in causa anche la nostra responsabilità: «Dayton ha permesso di mettere fine alla guerra, ma dopo?». Al problema interno, delle rivendicazioni e dei veti reciproci tra le due entità, si somma il problema esterno, la latitanza dell’Europa, che fatica a ri-conoscere Sarajevo come una sua capitale morale e continua a perdere occasioni per il rilancio, lo sviluppo ed un’effettiva integrazione.

I nomi e la “cosa”

Spesso si sente ripetere che Sarajevo è un po’ come “un’isola” in questo panorama così maledettamente incrostato di contraddizioni. «Chi ama questa città, difende questa città», recita lo slogan che accompagna il murales di un miliziano armato che punta l’obiettivo del mitra contro un bersaglio fin troppo facile da immaginare. La guida che accompagna i nostri passi ne ricorda la “Città delle Rose”, i fiori che colorano i cortili e i giardini, ma anche i segni che le granate hanno lasciato sul selciato, nel viale intitolato al “Maresciallo Tito”, prontamente ri-colorate di rosso come le rose, a due passi dal memoriale dei bambini morti sotto l’assedio. Sejo Sexon, leader della storica punk-band di Sarajevo “Zabranjeno Pušenje”, ricorda l’altro luogo comune, quello di Sarajevo “Gerusalemme d’Europa”, tuttavia, rispetto a quella, diversamente martire, con i mille giorni di assedio subìti ed una costellazione di edifici sventrati dalle granate, che ancora fanno bella mostra di sé nei quartieri del centro e nei viali che portano verso la città nuova, lungo la linea del tram numero tre. Eppure Sarajevo è qualcosa di molto più complesso di una “semplice” città divisa, come ve ne sono ancora troppe nei Balcani, da Mitrovica a Mostar, passando per Subotica. Sarajevo condensa tutti gli spaccati e tutte le contraddizioni del Paese di cui è capitale: basta fare un giro tra il cuore islamico monumentale di Baš?aršija ed il quartiere turco, poco distante, di Vratnik e scivolare poi, a piedi o in tram, al di là della Miljacka, verso la Grbavica distrutta dall’assedio e la Ilidža serba, attraversando lo storico edificio dell’Holiday Inn, uno dei simboli dell’assedio, ed il Museo Storico Nazionale, che di quei giorni di assedio conserva i cimeli e le memorie.

Tra le macerie del conflitto

Come capita spesso tra le macerie dei «conflitti etno – politici» (e come spesso si dimentica, per una sorta di vizio di forma della comunità internazionale), Sarajevo è, in una, due città contrapposte: la Sarajevo propriamente detta in territorio croato-musulmano e la Sarajevo Orientale o “Isto?no Sarajevo” (dopo la guerra battezzata addirittura “Srpsko Sarajevo”), nella Republika Srpska. Nella prima, il centro storico della Sarajevo bosniaca, la Baš?aršija, con la sua casbah, le moschee ed il caravanserraglio; il tripudio di moschee integralmente ri-costruite (o edificate ex novo) dopo la guerra, talvolta con finanziamenti di fondazioni pubbliche e private del mondo arabo-islamico. A spartiacque tra la prima e la seconda, Grbavica, uno dei quartieri teatro dei più intensi combattimenti tra le truppe bosniaco-musulmane e quelle serbo-bosniache, cui non a caso è stato dedicato lo splendido film dal sotto-titolo “Il Segreto di Esma”. Infine, la “porta separata” di Sarajevo Orientale, città serba, come spesso si dice l’“altra Sarajevo”, ennesima testimonianza di questa sconvolgente “separazione a distanza ravvicinata”. In questa città, come in nessun’altra parte della Bosnia, nelle votazioni del 1991, prima che tutto diventasse irreparabile, gran parte della popolazione si era dichiarata fuori da ogni gruppo etnico e semplicemente “bosniaca”, appartenente ad un’unica umanità che poi gli interessi e il potere hanno voluto distruggere. Questa condizione speciale, l’unicità di Sarajevo che si è cercato di cancellare a colpi di sniper lungo la “no-man’s-land” della pista ferrata del tram numero tre, merita di essere ricordata, perché non monti l’indifferenza del presente a cancellare la speranza di futuro della “gente di Sarajevo”, quella stessa cantata proprio dagli “Zabranjeno Pušenje”.

Divisione. Rarefazione.

Perfetto crocevia tra l’aeroporto, il Museo del Tunnel e il confine amministrativo (con tanto di bandiere svettanti) della Republika Srpska, Isto?no Sarajevo è un luogo apparentemente fuori del tempo e della storia. È il “simbolo fisico” della divisione, non solo dell’una dall’altra Sarajevo, ma anche tra il passato e il presente, laddove gli sguardi incrociano Ilidža, con la sua schiera di casette unifamiliari con giardino, e questa pseudo – capitale, tutta intessuta di blok monotoni di puro stampo real-socialista. Costruita nella storica area di Lukavica (ancora così chiamata dai cittadini dell’ “altra” Sarajevo, che ne ricordano soprattutto la stazione degli autobus verso la Serbia e non faticano a dimenticarne le variamente succedutesi denominazioni ufficiali), essa è la vera e propria alter ego serba della capitale bosniaca o, se si preferisce, una angolo di Serbia in terra di Bosnia. Qui ricompaiono l’alfabeto cirillico (contro quello latino del serbo-croato in salsa bosniaca), la Jelen Pivo (contro la Sarajevsko Pivo che condivide con la Karlovacko croata l’egemonia etilica nel resto della Federazione), i vecchi filobus di stampo socialista, come il mitico 103, che percorre Sarajevo da parte a parte, unendo, in una fornace di finestrini stretti e poltrone di velluto, la Stazione di Lukavica con la Piazza d’Austria alle porte della Vije?nica. Si tratta di una costellazione urbanistica paradossale, a metà tra isolamento ed abbandono, una griglia di condomini a schiera allineati a filari, immersi in un deserto metropolitano del quale si fatica a trovare il capo e la coda. «Eccolo», è la risposta quando si domanda, di fronte alla stazione dei bus semi-deserta, dove sia il centro abitato di «Lukavica».

Capitale, non solo europea, della Cultura

Sarajevo è una caleidoscopica ricapitolazione: di Oriente ed Occidente, di Europa ed Asia, di Cristianità ed Islam, dell’inizio e della fine del Novecento, che qui è cominciato con il colpo di pistola del 28 Giugno 1914, il giorno di San Vito, sacro per i serbi ortodossi, dell’attentato di Sarajevo che diede fuoco alle polveri della prima guerra mondiale, e qui è finito all’alba del 1 Marzo 1992, quando i colpi dei cecchini sul corteo nuziale della coppia serba di Baš?aršija spalancarono il precipizio della Guerra di Bosnia. Sarajevo è anche una città in credito verso la storia: quella del proprio Paese, preda di un’elite politica parassitaria e corrotta che ne tarpa le ali, e quella delle burocrazie europee, che ancora si attardano nel riconoscerle la giusta collocazione sul palcoscenico della storia, della politica e della cultura del Continente. «Sarajevo è sempre stata un centro per la cultura della Bosnia e dei Balcani, eppure è sempre stato difficile fare cultura ed innovazione qui, certamente più difficile che a Belgrado, perché l’articolazione etnica è sempre stata una caratteristica della città ed ogni iniziativa correva il rischio di essere pericolosa o, semplicemente, strumentalizzata». I “Zabranjeno Pušenje” rappresentano, se non il paradigma, certamente l’anima di questa capitale e la memoria di un’epoca d’oro, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui la città condensava tutti i fermenti culturali, dal punk allo sperimentalismo, dal neo-primitivismo al garage.

Giriamo per Koševo, il quartiere intellettuale e il “loro” quartiere, prima di prendere il volo del rientro. Non sorprende che proprio qui sorga l’unico cimitero monumentale multi-nazionale, dedicato alle vittime della guerra di ogni comunità. Lasciamo la città, in attesa della proclamazione ufficiale di “Capitale Europea della Cultura del 2014”, a vent’anni esatti dallo scoppio della guerra e dall’inizio dell’assedio. È difficile pensare che possa costituire una riparazione. Però un riconoscimento, quello certamente sì: tardivo, ma non per questo meno meritato.

Gianmarco Pisa, Operatori di Pace – Campania ONLUS

1 commento
  1. maurizio cucci
    maurizio cucci dice:

    Commento al reportage di Gianmarco

    di Maurizio Cucci

    Mi prende un poco di nostalgia a leggere di Sarajevo, bella e orgogliosa, vissuta pacificamente da fiumane di persone indaffarate. Io la ricordo deserta, diroccata, insidiosa, buia, ma anche accogliente e calda di umanita’ in lotta. Persone che resistevano credendo fermamente in una Sarajevo multietnica e multi religiosa. Non addormentata, sospesa … ma sempre sveglia, mai sazia, pronta a difendere diritti che evidentemente si sono persi nel presente, sopiti dalla pace e soprattutto dalla narrazione dei vincitori, non sono in grado di giudicare i giovani che vivono oltre la fame e il terrore degli anni dell’assedio.

    Mi rattristo non poco a leggere della clamorosa alchimia che sta alla base di due narrazioni separate. Cosa che dimostra da un lato, che la guerra non la vince nessuno, e dall’altro che non vincendola nessuno le vittime la perdono. A conferma di cio’ l’evento che richiami per simboleggiare l’inizio del conflitto, cecchini sul corteo nuziale serbo, evento chiaramente di matrice serba, gli assedianti, non di matrice mussulmana, le vittime.

    In realta’; verso la fine del 1991, il gen. Dzurdzevac, che comanda il quarto corpo della seconda zona e controlla la piazza di Sarajevo, viene incaricato dallo stato maggiore di disporre l'artiglieria pesante sulle colline circostanti la città.? Di lì a poco, la stampa, allarmata, chiede spiegazioni al gen. Kukanjac, il quale giustifica le manovre dell'artiglieria come routine, nel quadro di normali esercitazioni.

    Gia da tempo amici che si conoscevano e frequentavano da anni, accumulavano riserve di cibo per poi sparare dai loro appartamenti sui loro ex-amici mussulmani, ignari di cosa i loro amici serbi stessero organizzando. Il conflitto e’ iniziato nella primavera del 1992, nel 1994 si avviava alla conclusione, avvenuta nel 1996. Le date sono importanti. Il 2014 non puo’ segnare un ventennio esatto.

    Rattrista constatare che la storia, che tra le righe si innesta nelle menti dei giovani di oggi sia molto diversa, almeno per me, da quella che ho vissuto e annotato in quei giorni. Mi prende male verificare, leggendo le tue parole, che la storia la scrivono i serbi.

    Ad esempio a fine marzo 1992 vengono trovati 600 mussulmani uccisi dalle milizie cetniche del comandante Arkan (ex capo della curva sud dello spartak di belgrado) ultimamente abbiamo letto che anche a Roma ceffi del genere attizzano le manifestazioni, ma questa e’ un’altra storia. Per tornare alla Bosnia, nelle campagne, in silenzio la mattanza era gia’ iniziata quell’inverno.

    Domenica 5 aprile ci fu la grande manifestazione indetta dai sindacati per evitare il conflitto, quando alcuni spari di cecchini spinsero parte della folla all’interno del parlamento, nell’aula occupata, viene imposto il Parlamento del Popolo di tutta la Bosnia, un forum cittadino permanente dove tutti possano parlare, perché bisogna ascoltare la voce del popolo. Così, sventolando bandiere della ex Jugoslavia, innalzando ritratti di Tito e inneggiando alla rivoluzione francese, inizia il forum popolare.

    La storia e’ gia’ iniziata e corre verso uno stillicidio lunghissimo, per fortuna interrotto dopo quattro anni anche se con pochissima soddisfazione delle vittime.

    Ecco, con rispetto per il tuo lavoro che, come sempre del resto, e’ pragmatico e corretto, ho rispolverato emozioni sepolte dal tempo e anche un lavoro su Sarajevo, riesumato qualche anno fa che ora mettero’ sul sito, probabilmente nella zona degli archivi, in biblioteca.

    Saluti

    Maurizio

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