Vale la pena

Elena Gasparri

Sabato sera. In città gente che passeggia e locali da cui esce musica. E’ facile riconoscere le pecore nere del branco. Hanno zaini carichi e colori accesi, sorrisi generosi e sguardi curiosi. Ci contiamo e si parte. Le chiacchiere poco a poco diventano bisbigli, il sonno cala, riapro gli occhi giusto in tempo per lo spettacolo dell’alba dal finestrino.

E’ la mia quarta marcia per la pace. Sono passati sei anni dalla prima. Facile perdersi in un lungo flashback che mi riporta al primo meeting, nel 2005, quando mi apprestavo a laurearmi e mi interrogavo sul futuro. Come Pollicino che recupera i sassolini sul cammino, raccolgo quell’esperienza e penso che anche lei ha contribuito alle scelte che poi ho preso nella mia vita. Dopo pochi mesi mi sarei trasferita a Pisa, iscrivendomi ad una laurea specialistica dal titolo ambizioso: “Scienze per la pace”. E poi l’attivismo in Amnesty, la creazione del nodo locale di Assopace con delle fedeli amiche, i progetti di educazione alla gestione nonviolenta dei conflitti nelle scuole, la ricerca sul conflitto israelo-palestinese e il viaggio in quella Terra martoriata. E infine, la scelta di prestare servizio civile, un nuovo trasloco che mi ha portata a Torino presso il Centro Studi Sereno Regis, occupandomi di un progetto sulla sostenibilità e la nonviolenza.

A volte si perde il senso di quello che facciamo, la realtà e il tempo sembrano più veloci del pensiero. Facile perdersi, scordare quel lampo che ha acceso inizialmente la scintilla. La marcia per la pace rappresenta per me paradossalmente un’occasione per fermarmi. Fare il punto della situazione. Rispolverare le convinzioni, testare la loro forza, capire i passi da fare. Un’occasione per evitare il rischio strisciante dell’abitudine, dell’accontentarsi, dei silenziosi compromessi.

Il cammino ha la capacità di togliere ad ogni passo il superfluo e farti rimanere con quello che conta, che vale, che merita energie e fatica.

Non solo. E’ un modo anche per sentirsi comunità. E’ difficile parlare di pace in quest’epoca. Anche perché ormai ha assunto diversi significati, tanto da risultare una parola svuotata ed ambigua, uno slogan, una moda, un modo per attirare consensi.

In questi anni sono state tante le porte chiuse in faccia, le speranze deluse, l’incoerenza osservata… La parola “pace” mi è sembrata talmente tanto abusata da desiderare di lasciarla stare. Come se dicendola meno fosse magari più semplice metterla in pratica.

E’ facile demoralizzarsi, basta guardarsi attorno, basta ascoltare i discorsi dei politici o un qualunque telegiornale.

Ma poi mi giro, il corteo finalmente parte! Siamo in tanti, e dovrò aspettare quasi un’ora prima di avanzare, di superare quell’arco e iniziare la prima discesa. La campagna che scorre al nostro fianco, le prime persone che si fermano a mettersi i sandali, questa giornata di metà settembre che ci sorride con un sole caldo e luminoso.

Incontro una grossa bandiera palestinese, mi infilo sotto, è buio, ma continuando a camminare ritrovo la libertà… E un pensiero va a quella terra, che spesso si ferma e piange, perdendo di vista la luce che l’aspetta; vedo tanti sindaci e gonfaloni, e penso al valore e all’importanza dei Comuni, vere fucine del cambiamento; ascolto chitarre suonare e voci cantare, e provo un senso di comunanza e voglia di liberarsi dai troppi lacci e bavagli che accettiamo; guardo il ragazzo che cammina al mio fianco e penso che la pace parte da qui, dalla propria casa, dalle relazioni, da se stessi.

Intanto Assisi si affaccia all’orizzonte: con una meta ben delineata davanti è più facile procedere. Ma per quanto camminiamo sembra sempre lontana, le gambe e i piedi iniziano a far male, sono gli ultimi chilometri quelli più difficili e dolorosi. Mi siedo un attimo. Davanti a me passa Alex Zanotelli. Sorride, da conforto a chi è stanco. Mi alzo, capisco che ogni cambiamento, ogni vittoria necessita di pazienza e tenacia. E che in compagnia tutto è più semplice. Guardo Assisi davanti a me e penso alle parole di Edoardo Galeano sull’utopia: “L’utopia è là, all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi. Per quanto cammini, mai la raggiungerò. A cosa serve dunque l’utopia? Serve a questo: a camminare”.

Arriviamo a Santa Maria degli Angeli. Quest’anno niente Rocca, l’autobus ci aspetta.

Ci contiamo di nuovo e si riparte, le parole non si fermano, racconti e idee riempiono le ore del rientro a casa.

Mi perdo nel paesaggio. Mi chiedo se ha ancora senso parlare di pace nonostante tutto. Ripenso agli sguardi, ai silenzi, alle parole, ai canti. Mi guardo attorno, penso al passato e immagino il futuro. Sì, ha ancora senso. Finchè ci siamo noi, finchè non ci arrendiamo, finchè abbiamo il coraggio di indignarci, di osare, di parlare: sì, vale la pena.


 

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