Oddio! È già ora del «cambio» di stagione – Recensione di Cinzia Picchioni

Deborah Lucchetti, I vestiti nuovi del consumatore, altreconomia, Milano 2010, pp. 96, € 4,50

Non mi ha stupito leggere questo piccoli libro, tanto che – per non sbaglliare – da anni non compro alcun vestito, scambio con le amiche e mercati dell’usato sono le mie uniche fonti di approvvigionamento vestiario. Anche in Inghilterra sono del mio avviso (o meglio, io sono del loro!): 7.600 negozi per 120mila volontari hanno fatturato nel 2007 sterline per 106,7 milioni! In Italia il fenomeno è in crescita, anche se molti storcono ancora il naso quando sanno che indossi vestiti «di chissacchì» (?).

È un piccolo saggio, questo libro dal titolo fiabesco che è realtà, invece. Quella dei lavoratori sfruttati (tabella per valutare le imprese, p. 58), sottopagati («carina» la maglietta di p. 18, divisa per fasce di guadagno, da cui si capisce che al lavoratore arriva fra lo 0,5 e il 3% del prezzo pagato da chi compra la maglietta). Se la maglietta è di cotone dobbiamo sapere che le piantagioni sono infestate di pesticidi che – se non vogliamo pensare all’ambiente – ci ritroviamo sulla pelle. Ma dobbiamo sapere il cotone è la materia prima non alimentare più importante del mondo (soprattutto India, Stati Uniti, Pakistan, Brasile e Uzbekistan) e che «i destini di milioni e milioni di persone sono ancora oggi appesi a un filo di cotone». A causa delle coltivazioni intensive i piccoli produttori vanno in rovina e/o si indebitano per acquistare i pesticidi e i fertilizzanti che, se non li uccidono durante l’utilizzo, lo fanno alla fine, quando i contadini, stremati, decidono di bere lo stesso veleno che li ha portati alla rovina (tra il 2005 e il 2006, nell’Andra Pradesh altri 700 contadini si sono suicidati). L’abbiamo già sentito questo copione, vero? Magari non per il cotone…

Questo libro è frutto di esperienza diretta, perché l’autrice gira il mondo seguendo la filiera nascosta dietro agli abiti che indossiamo. Puntuale e dettagliato risulta così il capitolo «Trame aziendali» (p. 25), con sottotitoli suggestivi tipo «Cotone sulla pelle (degli uzbechi)» o «La morte in blue jeans». In quelle pagine scopriamo che ogni giorno indossiamo scarpe rumene, cappotti cinesi, jeans turchi e che la maggiior parte della produzine tessile arriva da molto lontano, là dove sfugge al controllo di leggi a favore dei lavoratori (ma anche di regolamenti per l’uso di pesticidi, come abbiamo già visto). E siccome non ci sono leggi a tutela di chi lavora, le nostre scarpe per fare jogging nel parco la domenica mattina sono costate 10-12 ore di lavoro al giorno in condizioni orribili e pagate magari 5 dollari (e noi le abbiamo pagate 200 dollari sugli scaffali della grande distribuzione (dati PlayFair, www.clearingthehurdles.org).

E una volta che abbiamo saputo tutto ciò? Ci sono un paio di strade da percorrere (con altre scarpe magari): buttarsi sull’usato, organizzare baratti e scambi, comprare consapevolmente. Per ognuna di queste scelte (magari un po’ per tutt’e tre, differenziando anche qui, come per la spazzatura) il libro che abbiamo presentato offre qualcosa: un indirizzario ragionato di imprese di «moda etica» (p. 73); istruzioni per leggere le etichette; criteri per scegliere imprese e prodotti da privilegiare, secondo il motto «scegliere è “votare”» (p. 61); varie informazioni sul mondo del riuso (siti e libri a p. 71); un totale di 100 schede di produttori, negozi e siti.

Mi è piaciuto particolarmente l’utilizzo della frase relativa all’atto che compiamo davanti al nostro armadio: si dice «cambiarsi d’abito», e qui c’è un «per cambiarsi davvero», e aggiungo non solo «d’abito» di stoffa, ma «d’abito» mentale.

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