Religioni, spiritualità e crisi ecologica

Nanni Salio

Le radici della nostra crisi ecologica affondano lontano nel tempo. Molti allarmi sono stati lanciati da numerosi autori (scienziati, filosofi, ecologisti) nel corso degli anni, ma ben presto dimenticati e passati sotto silenzio.

Se si prova a chiedere quale sia la percezione della crisi, si hanno le risposte più diverse, ma poche sono quelle che ne colgono l’essenza. La maggior parte delle persone si sofferma su aspetti secondari e non riesce a scorgere la drammaticità e problematicità del momento che l’umanità sta vivendo.

Uno degli studi più importanti fu pubblicato nel 1972 dal Club di Roma con il titolo “I limiti della crescita”, tradotto malamente in italiano in: “I limiti dello sviluppo” (Mondadori, Milano 1972). Gli autori prevedevano che nei primi decenni del XXI secolo si sarebbe verificata una crisi globale innescata dalla continua crescita economica non compatibile con i limiti dell’ecosistema terrestre. Il sistema economico dominante reagì con asprezza criticando le conclusioni di questo studio e ignorandole.

Dopo quarant’anni, trascorsi nel delirio della crescita illimitata, ci troviamo nel pieno di una crisi sistemica: climatico-ambientale, energetica, economico-finanziaria, sociale-esistenziale, alimentare.

Ma prima ancora degli studi di carattere tecno-scientifico, fu Gandhi a mettere in evidenza, in un famoso pamphlet del 1909, Hind Swaraj (riproposto un secolo dopo con il titolo: Vi spiego i mali della civiltà moderna. Hind Swaraj, Gandhi Edizioni, Pisa 2009) che “questa civiltà è tale che con un po’ di pazienza si distruggerà da sola.” Per Gandhi, la nostra civiltà (e a maggior ragione anche le scelte compiute oggi dai governanti dell’India) è immorale e ha smarrito il senso autentico dello scopo di vivere, il dharma.

Secondo questa opinione, si tratterebbe dunque di una profonda crisi spirituale e religiosa. Mezzo secolo dopo, Lynn White Jr. pubblicò un breve saggio su “Le radici storico-culturali della nostra crisi ecologica” (1967, Science 155, traduzione italiana: Il Mulino, marzo-aprile 1973) nel quale confermò l’analisi svolta da Gandhi individuando tre principali radici: una metodologica dovuta al riduttivismo scientifico-culturale; una antropologica caratterizzata dall’idea di dominio degli esseri umani sulla natura e la perdita del suo carattere di sacralità; e infine una economica basata sull’illusione della crescita illimitata.

Lasciando momentaneamente da parte l’aspetto della crisi antropologica, tutt’altro che secondaria, concentriamoci sugli aspetti più strettamente di ecologica economica, cominciando da un famoso modello interpretativo.

Impatto ambientale, sostenibilità e impronta ecologica

Nel 1973, Barry Commoner, Paul Ehlrich e John Holdren proposero un modello a tre variabili: I = P x A x T, noto come modello IPAT, per tentare di analizzare i problemi ambientali globali. Non sono semplici moltiplicazioni, ma relazioni non lineari che non conosciamo in modo rigoroso: I è l’impatto ambientale, P la popolazione, A sta per affluence e corrisponde al livello di consumi e di benessere pro capite e T è il fattore tecnologico. Si capisce immediatamente che al crescere di P e di A aumenta l’impatto. Il fattore tecnologico T può mitigare tale impatto, se si utilizzano tecnologie più efficienti.

L’impatto può essere valutato mediante specifici indicatori ambientali. Uno dei più importanti è l’impronta ecologica, definita come “uno strumento di calcolo che ci permette di stimare il consumo di risorse e la richiesta di assimilazione di rifiuti da parte di una determinata popolazione umana o di una certa economia e di esprimere queste grandezze in termini di superficie di territorio produttivo corrispondente” (Mathis Wackernagel e William E. Rees, L’impronta ecologica, Edizioni Ambiente, Milano 2000, pag.3). Si stima che l’attuale impronta ecologica totale dell’umanità superi di almeno il 20% quella realmente disponibile: l’impronta pro capite media mondiale è di 2,2 ettari e quella disponibile di soli 1,8 ettari. Stiamo quindi intaccando il capitale naturale non rinnovabile e stando alle previsioni questa tendenza potrebbe culminare nel 2050 con un’impronta che supererà di quattro volte quella totalmente disponibile. In altre parole, a quella data occorrerebbero quattro pianeti per far fronte alle esigenze dell’umanità.

Un secondo indicatore importante è la quantità d CO2 emessa in seguito alle attività antropiche, che ha alterato la composizione chimica dell’atmosfera. Dall’inizio della rivoluzione industriale si è passati da 280 ppm (parti per milione) di CO2 in atmosfera a 360 ppm. Gran parte di queste emissioni sono state prodotte, in passato, dai paesi ricchi e ancora oggi gli USA emettono circa 20 tonnellate pro capite all’anno, contro una media che, per essere sostenibile, non dovrebbe superare 1 tonnellata/anno.

Un terzo indicatore è la disponibilità energetica pro capite. Il metabolismo di ciascun essere umano richiede una potenza energetica di circa 100 watt, come quella di una normale lampadina mantenuta sempre accesa. La rivoluzione industriale ha messo a disposizione di ciascuno di noi una potenza ben maggiore attraverso l’uso intensivo di combustibili fossili, in particolare petrolio.

Un cittadino statunitense dispone di una potenza che è 100 volte il suo metabolismo. Nelle economie di sussistenza raramente la potenza pro capite raggiunge il valore di 1 kW, pari a dieci volte il metabolismo.

 

Impronta ecologica

Emissioni di CO2

Potenza pro capite

(in ettari pro capite) (in tonnellate pro capite) in kW
USA 10 20 10
UE 4,5 9 6
Italia 3,8 8,1 05/06/11
Cina 1,8 4,6 1,5
India 0,7 1 0,7
Mondo 2,2 3,6 2
disponibile 1,8 ottimale 1 ottimale 1

 

Un quarto indicatore, infine, è quello della distribuzione della ricchezza. Il reddito pro capite è estremamente diverso da paese a paese e tra il quintile più ricco e quello più povero la disparità è di circa 60 volte, ma giunge sino a 150 volte se si prendono le fasce più ricche e quelle più povere all’interno dei due quintili, come si vede dal grafico seguente, elaborato dalle Nazioni Unite.

Distribuzione della ricchezza su scala mondiale (popolazione mondiale divisa in cinque parti uguali)

Per ognuno di questi indicatori si vede che le disparità sono notevoli tra gli abitanti dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri (o impoveriti).

La scelta della semplicità volontaria

Per ricondurre il sistema mondo nei limiti della sostenibilità, intesa come “la capacità di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere quelli delle generazioni future”, occorre agire sulle tre variabili P, A e T con le seguenti politiche.

E per quanto riguarda P contenere o diminuire la popolazione attraverso scelte demografiche condivise. Per il fattore tecnologico T, applicare il “principio di efficienza”, ovvero produrre gli stessi beni e servizi con maggiore efficienza, riducendo il fabbisogno energetico. Infine, per quanto riguarda A, ispirarsi al “principio di sufficienza”, ovvero chiedersi “quanto basta?” per essere felici. Questo significa ridurre i consumi pro capite sia attraverso una maggiore razionalizzazione sia modificando i nostri atteggiamenti culturali. Questo è il punto più difficile, perché l’attuale sistema economico è basato sulla crescita incessante dei consumi.

Proporre “la decrescita” significa andare contro corrente. Tuttavia possiamo cogliere qualche segno di cambiamento. Da tempo ci si è infatti resi conto che oltre un certo livello di consumi non c’è un incremento del benessere, bensì un effetto controproduttivo che porta a una riduzione della felicità., come si può vedere dal grafico seguente che mette in relazione livello di benessere (sull’asse verticale) e livelli di consumo (su quello orizzontale.

crisi ecologica

Si è pertanto sviluppata una corrente di pensiero e un insieme di esperienze che si richiamano alla scelta della “semplicità volontaria”.

Possiamo definire la “semplicità volontaria” come lo stile di vita di chi desidera impostare la propria esistenza seguendo la nonviolenza gandhiana. “La semplicità volontaria è un modo di vivere che permette di sperimentare l’integrazione e l’equilibrio tra gli aspetti interiori ed esteriori della vita”. Inoltre, “Vivere più volontariamente significa vivere più deliberatamente, intenzionalmente, propositivamente.” “La semplicità di vita, se scelta deliberatamente, implica un approccio compassionevole alla vita. Questo significa che noi scegliamo di vivere la nostra vita quotidiana con qualche grado di percezione consapevole della condizione del resto del mondo.” Si sceglie di essere più semplici per aumentare la propria autonomia personale. E’ un modo di vivere che è più semplice esteriormente e più ricco interiormente. Significa semplificare i bisogni e imparare a “vivere con meno denaro, meno consumi, meno lavoro salariato”.

Se diamo uno sguardo a quanto succede nel mondo, ai drammi della miseria estrema, ci rendiamo conto che “occorre vivere più semplicemente per permettere agli altri semplicemente di vivere”, perché come sosteneva Gandhi “il nostro pianeta ha risorse sufficienti per soddisfare i bisogni fondamentali di tutti, ma non l’avidità di alcuni”. Egli inoltre ci offre con poche parole chiare e incisive l’immagine più suggestiva di una futura società nonviolenta: “Lo stato, nel passaggio alla società senza stato, sarà una federazione di comunità democratiche rurali nonviolente e decentralizzate. Queste comunità si baseranno sulla “semplicità, povertà e lentezza volontaria”, cioé su un tempo di vita coscientemente rallentato, nel quale l’accento sarà posto sull’autoespressione, attraverso un più ampio ritmo di vita, piuttosto che attraverso più veloci pulsazioni nell’avidità e di lucro”.

Nella sua chiarezza, incisività e semplicità il messaggio gandhiano è fonte di speranza e ispirazione per superare l’attuale grave crisi sistemica della sostenibilità.


 

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