Anna Karènina

Enrico Peyretti

Ho riletto, dopo molti anni, Anna Karènina. Secondo Pier Cesare Bori, studioso qualificato di Tolstòj, è il suo romanzo più grande, e uno dei maggiori di tutte le letterature.

Tolstòj generò Gandhi. Gandhi generò Badshah Khan, Aldo Capitini, Martin Luther King e molti loro fratelli e figli, fino ad oggi. Tolstòj era figlio di antichi padri sapienti, delle radici umane universali, ramificate nel profondo popolo. Prima di convertirsi a scrivere alte e forti perorazioni per la evangelica “non-resistenza-al-male” (tutt’altro che passività, è il non entrare in competizione con esso, nel suo gioco e coi suoi metodi), che è l’antesignana della gandhiana nonviolenza attiva, antica come le montagne, egli fu grandissimo romanziere e narratore. Io non sono un critico letterario, né sufficiente conoscitore di Tolstòj. Mi fulminò il suo Guerra e pace. Nella popolazione di personaggi di quel gigantesco romanzo, abitato proprio da popoli e non solo da persone, spicca per me Platòn Karatàiev, un vero santo del popolo russo, incarnazione della più schietta e pura umanità.

Che leggiate o rileggiate Anna Karènina, vi prego di dedicarvi almeno tre mesi, in mezzo alle altre occupazioni, nella varietà dei giorni e delle stagioni personali. Che il libro entri nella vita, e viceversa, altrimenti non diventa vostro. La vicenda avvince, ma non leggete molti capitoli di seguito. Fate come l’autore, che si sofferma a lungo su persone, momenti, situazioni, altrimenti non li conoscete.

Non si traversa un prato senza calpestarlo, senza distinguere fior da fiore. Così, consiglio di non lasciare intatto il vostro libro: segnate, sottolineate, maneggiate le pagine, fate indici e richiami. Altrimenti può restare leccato ma non digerito, guardato ma non visto, sentito ma non ascoltato. Sono solo consigli, per quel che valgono.

Ringraziamo Tolstòj, che ha sofferto su queste pagine, perché anche noi le soffrissimo e ne godessimo. Stavo per dire che ha creato persone vive. Non le ha create: le ha ascoltate profondamente, totalmente, le ha lasciate parlare attraverso la sua penna. Il suo romanzo è un grande, disteso, atto di amore accogliente.

I commentatori sottolineano la pietà per Anna, la misericordia riverente per la donna sventurata. Certo. Ma tutto il romanzo è una storia dell’umanità riflessa in questo folto grappolo di figure umane intrecciate. È amore, pietà, rispetto e riverenza per l’animo umano, in quanto tale. Mi sembra, in particolare, che sia la storia umana vista nella coppia umana. C’è coppia negli amanti, ma anche nei solitari, negli infedeli, negli infelici, perché c’è umanità. Anche i fratelli che si amano poco, sono coppia. Il bimbo e la mamma sono coppia, anche quando si perdono. Nessuno è senza l’altro. Anche la vittima è unita al colpevole, e viceversa. Nessuno ci può separare. Ognuno di noi che leggiamo, e persino se non leggiamo, è ognuna delle persone (non sono personaggi) che vivono in questa storia. Tutti siamo tutti. Dove non c’è amore, c’è dolore. Eppure, anche il dolore ci lega. In fondo, c’è il bene anche nel male, perché è più del male.

Qui Tolstòj ci introduce in una società molto differente dalla nostra di oggi: è una nobiltà trapassata, sullo sfondo di un popolo che non c’è più. Ma è poi vero? L’umanità è sempre la stessa nei desideri, nelle pene, negli errori, nei valori, nei lampi di felicità. Non mi soffermo sulla nota altissima capacità descrittiva, che fa “vedere” i volti e gli atteggiamenti come in un quadro, come in un film. Ma soprattutto mirabile è la penetrante partecipazione psicologica al dramma delle persone narrate, per cui davvero «de te fabula loquitur»: quello che accade in loro, ogni movimento e sobbalzo e piega minima del loro animo, è proprio ciò che accade o può accadere in ognuno di noi.

Non occorre, né a Tolstòj né a noi, nominare Dio (anzi, sono un po’ ridicoli quelli che lo nominano troppo), per dare un silenzioso nome a ciò che regge dall’intimo, e abbraccia da vicino, questa strana vicenda del vivere umano, in cui siamo coinvolti, che scorre nel più profondo del nostro essere e ci permette di riconoscerci l’un l’altro, e così intravediamo la possibilità di consolarci a vicenda di tutte le pene, e di essere gioia per gli altri, come fanno perfettamente i bambini, senza saperlo.

La storia non si chiude con l’avvampare e lo spaventoso spegnersi della povera candela di Anna. Ma ricomincia: un altro bambino è nato, c’è una rinascita, oppure solo una luce sulla vita già presente, non vista. Sappiamo che Levin è Tolstòj stesso, che si racconta e consegna a noi il tesoro ritrovato: si tratta di vivere non per i propri bisogni ma per la verità.

La verità, che fiorisce nella preghiera di invocazione e gratitudine, è nell’umiltà della vita quotidiana di una casa, in un momento qualunque tra un uomo, una donna, il loro bambino, gli amici, dopo una tempesta. Dopo la minaccia del nulla, e l’impotenza della ragione che discute, e l’illusione della forza nella guerra, Tolstòj ci accompagna e ci congeda nella universale, senza-nome, silenziosa presenza e richiamo del bene, che un contadino, con una frase banale e sapiente, ha rivelato al suo padrone intellettuale.

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