Judith Malina: come fare la rivoluzione non violenta? È solo organizzazione… – Intervista di Rossella Battisti

Il teatro del Living da oltre 60 anni è in prima linea per difendere i diritti umani. Ce ne parla l’artista 85enne che lo fondò nel 1947 con Julian Beck. Un percorso in linea retta di azioni sociali e splendide utopie per il mondo.

La libertà è partecipazione, cantava Giorgio Gaber, e, da molto prima di lui, Judith Malina dice che allo «spettatore» preferisce il «partecipante». Lo ripete alla platea di giovani e giovanissimi, accorsi al Petrella di Longiano per ascoltare l’inedito duettare che questa veterana del teatro d’assalto fa con una «nipotina» elettiva, Silvia Calderoni dei Motus.E ci tiene a precisarlo anche prima, dietro le quinte, dove l’abbiamo incontrata. Un’onda di capelli neri, due occhi come diamanti scuri che scintillano di un’energia indomabile e un sorriso enigmatico da guru d’Occidente.

Quarant’anni di Living Theatre assieme a Julian Beck, più di venticinque dopo la sua morte affiancata da Hanon Reznikov e ora da collaboratori come Tom Walker e Brad Burgess: signora Malina sono percorsi che si differenziano in qualche modo?

«No. È una linea retta che corre. Siamo andati avanti col lavoro di Julian. La storia cambia, ogni momento è un cambiamento. Noi del Living
vogliamo essere nel flusso di questo cambiamento. C’eravamo nel ‘68 e abbiamo fatto parte di quel movimento. Ci siamo adesso ed è un modo di essere diverso e nuovo».

Uno dei vostri punti fermi è che il teatro deve poter cambiare il mondo. Se guardiamo come è diventata la società contemporanea, non trova che sia stato il mondo piuttosto ad aver cambiato il teatro e le sue regole?

«In un certo senso è vero. Ma questo non vuol dire che si debba smettere di opporsi alla guerra, allo sfruttamento e all’ingiustizia. Io credo che il Sessantotto sia stato un successo e oggi abbiamo giovani pronti a fare altri cambiamenti».
Segnali ce ne sono, il Valle occupato dagli artisti a Roma, per esempio. Ma dove cercare un teatro «vivo» oggi? Lei ha vissuto in un’epoca dove essere pionieri era relativamente semplice. Adesso che tutto è stato provato, quali contenuti, quali forme si possono inventare?
«Non è vero che era più facile sperimentare: venivamo arrestati anche se semplicemente ci spogliavamo. La società era più rigida. Inoltre, c’è
ancora molto da fare a teatro. E questo è il miglior periodo per la ricerca: ci sono tecnologie più avanzate, una generazione più radicale…»

Come i Motus, intende? Come vi siete incontrati e «riconosciuti»?

«Quando abbiamo visto la loro produzione di Antigone a New York che aveva dei riferimenti alla nostra, ci siamo incuriositi notando una visione simile seppure diversa. Ne abbiamo parlato e ci siamo incamminati insieme in questo progetto».

Quali i punti in comune, quali le differenze?

«Una visione ottimista, una prospettiva sul futuro e la speranza di poter cambiare. Siamo due compagnie e, sulla scena, due persone di generazioni lontane fra loro che discutono di come è stata e come è adesso lasocietà. Questa è la sola realtà che conta: io e lei e i partecipanti sulla scena. Lei che scrive e io che sto parlando. Il passato è un pacco di bugie storiche, il futuro è solo una visione. Si vive adesso».

Una visione molto zen. Mi fa un esempio concreto di come ciò possa influire sulle regole di mercato?

«Julian Beck poteva continuare a dipingere e diventare come Cy Twombly. Ma ha smesso per dedicarsi al teatro e ad azioni sociali. Noi qui in
scena chiamiamo tutti a lasciare un segno, lo facciamo insieme e nessuno lo può vendere per milioni di euro. Ecco come si schiva il mercato. Siamo poveri, ma liberi come le murene che scivolano tra uno scoglio e l’altro».

Il Living ha vissuto una lunga parentesi italiana – una per tutte: la lunga residenza a Rocchetta Ligure tra il 1999 e il 2004 -, perché ha scelto di tornare a New York?

«Siamo stati costretti ad andare via da New York dopo The Brig, uno spettacolo che criticava duramente la guerra in Vietnam. Una sorta di
lunga tournée… Ma oraNewYork ha bisogno di noi».

Se è per questo, l’Italia non è messa benissimo. Almeno voi avete Obama…

«È un bene che gli americani lo abbiano votato e non solo per un superamento del pregiudizio razziale, ma anche per lo spirito che dimostra
nei suoi pensieri. Personalmente, io non voto: sono anarchica. Votare e prendere atto di quei voti è come ritenere ritenere che ci sia una maggioranza più intelligente della minoranza che si deve sottomettere alle sue decisioni. È un’idea terribile».

Anni fa lei disse in un’intervista che Internet avrebbe cambiato le cose in modo molto radicale. È stata profetica, visto quel che è successo con la primavera araba. Ritiene che ci siano altri elementi che possono contribuire al cambiamento?

«La rete ha dimostrato di essere utile e dobbiamo proteggere la sua libertà. Wikileaks insegna. Quanto al resto, è nella natura degli esseri umani desiderare la libertà. È dentro di loro, un istinto insopprimibile che li spinge a fare le loro decisioni».

Anarchica e femminista:non crede però che la libertà sessuale si sia trasformata in un boomerang per le donne, totalmente mercificate nella nostra società?

«Ogni buona idea si può corrompere. Il femminismo non è un’eccezione. Questo non vuol dire che prostituirsi sia un crimine: le carceri sono piene di prostitute e di drogati, ma dovremmo parlare di problemi piuttosto che di crimini».

Judith Malina, lei ha un sogno?

«Certo! La bella rivoluzione anarchica non violenta. Il cambiamento che porti a una città organizzata e più umanitaria. Come diceva il grande anarchico Alexander Beckman è questione di organizzazione, organizzazione e ancora organizzazione».

«L’Unità», 12 luglio 2011

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