Il dono del cibo

Vandana Shiva

Nella riflessione della grande pensatrice indiana emerge tutta l’importanza dell’annadana, il valore del donare vita agli altri attraverso l’offerta di una alimentazione adeguata: il dono del cibo

Volevo iniziare la mia riflessione celebrando il rispetto per il cibo, la sua venerazione, la sua produzione sostenibile e sana, il diritto di tutti a garantirselo, prima che vada scomparendo attraverso la nuova commercializzazione della cultura, che vede l’emergere di un’economia che ha, come conseguenza, l’eliminazione di molte categorie, l’eliminazione dei piccoli contadini e la compromissone della nostra stessa salute.

Penso che la prima cosa da riconoscere sia che il cibo è la base della vita, e questo è qualcosa che spesso gli ecologisti dimenticano: trattano il cibo come una cosa separata dalla Natura selvatica: se produci il cibo allora non puoi avere la Natura, se c’è la Natura non puoi soddisfare le esigenze umane. Così abbiamo costruito questi dualismi incredibili che ci spingono su strade sempre più distruttive, facendo credere che più risorse si consumano e si distruggono con l’agricoltura intensiva, più si “salva” la Natura.

Ma il cibo non è solamente una nostra necessità vitale, il cibo è alla base dell’essere, come recita Taittirya Upanisadesie: “Dal cibo (anna) in verità nascono esseri, qualunque essere che viva sulla terra…Poiché davvero il cibo è il più grande degli esseri”. Gli esseri nascono dal cibo, dopo la nascita vivono del cibo, morendo entrano nel cibo. Il cibo è una cosa viva, non è solo frammenti di carboidrati, proteine e altri nutrienti, è un essere, è un essere sacro. In verità, chi adora i Brahma come cibo ottiene ogni cibo. L’intero Upanisad è dedicato alla donazione del cibo: se qualcuno mi chiedesse di nominare un testo della letteratura mondiale, che tratti l’ecologia del cibo come impegno sacro, gli direi: “Leggi la Taittirya Upanisad”.

Non solo il cibo è sacro, non solo è vivo, ma è il Creatore stesso, ed è per questo che, anche nella più povera capanna indiana, troverai sempre che viene adorata la piccola stufa, la chuladi terra, il primo pezzo di chapati viene messo fuori per la vacca, il secondo pezzo è per il cane, e poi si cerca di sapere chi altro abbia fame nella propria casa.

Nelle parole della Maha Asvamedhika: “Chi dona il cibo dona la vita, dona tutto. Quindi, chi desidera il benessere in questo mondo e nell’altro, dovrebbe donare in special modo il cibo… Il cibo è davvero quello che conserva la vita e il cibo è la fonte della procreazione”.

Poiché il cibo è la base della creazione, il cibo è creazione, è il Creatore. Nel contesto della vita che noi ci troviamo a vivere è la Divinità e nei suoi confronti siamo chiamati ad osservare alcuni doveri. Se la gente ha cibo, è perché la società non si è dimenticata di questi doveri. Se c’è gente affamata, vuol dire che la società si è allontanata dai doveri etici legati al cibo. La nostra presenza qui, la nostra stessa vita è basata sulle vite di tanti esseri che ci hanno preceduti (le nostre famiglie, le nostre madri, la terra, i lombrichi); per questo nella tradizione indiana l’offrire cibo è stato sempre visto come un yajna, un sacrificio quotidiano che siamo obbligati a fare.

Non è un pasto rituale offerto solo la domenica, è un rito implicito in ogni pasto, ogni giorno, sempre, che riflette la consapevolezza che il dare è la condicio sine quanon della tua stessa esistenza. Non offri come se fosse un atto superfluo, tu offri per l’interdipendenza con tutta la vita, la tua interdipendenza sia con gli esseri umani che rendono possibile la tua vita nella tua comunità, che con i parenti non umani che abbiamo. Un’immagine molto cara a me è la kolam, un disegno fatto dalle donne davanti alle loro case.

Nelle giornate della festa della mietitura del riso, il Pongal, nel sud dell’India, ho visto le donne alzarsi alle tre di mattina per fare delle opere d’arte bellissime davanti alle loro capanne, e vengono sempre fatte con il riso. Il vero scopo dell’operazione è quello di offrire cibo alle formiche, ma è finita col diventare una forma d’arte così coinvolgente che viene tramandata da madre in figlia.

Nel momento dei Pongai, ognuno si adopera al massimo perché la sua offerta alle formiche sia di una bellezza strabiliante. Le donne cominciano alle tre e vanno avanti fino alle sei, alle sette, realizzando eleganti disegni con i chicchi di riso.

Ci sono due tipi di riso, il japonica e l’indica. Le varietà del riso indiano sono quelle che ti danno quei bei chicchi pilau e biriyani. Nella cultura culina- ria giapponese e cinese, dove amano mangiare con i bastoncini, hanno selezionato i tipi di riso più appiccicosi e dai chic- chi più spessi, in modo che possano essere mangiati con i bastoncini. Ma a noi, che mangiamo con le dita, non serve che il riso sia appiccicoso, riusciamo a mangiare i chicchi separati.

Il luogo di provenienza del riso indiano è un’area tribale chiamata Chattisgarh. Ci sono andata per la prima volta circa quindici an- ni fa. Là fanno degli addobbi di paddy, le spighe di riso, e li appendono fuori dalle capan- ne. Io credevo che fossero là per qualche festività particolare e ho chiesto: “Che festa è?”. E loro mi hanno risposto: “No, no, queste sono per la stagione quando gli uccelli non possono più trovare il riso nei campi”. Di nuovo, erano opere d’arte bellissime, confezionate per offrire cibo ad altre specie animali. Più tardi ho visto questi addobbi in vendita nei negozi di oggettistica come regali di Natale o della Festa del Ringraziamento, ridotti a qualcosa senza significato, strappati alle loro radici ecologiche. Si è dimenticato il motivo per cui si facevano quei bellissimi disegni col riso.

Il fatto che dobbiamo la nostra vita a tutti gli altri esseri, umani e non, fa sì che la donazione sia parte integrante del cibo stesso. Chi nasce indiano impara, insieme agli altri valori di base, l’annadana, il dono del cibo. Se ognuno si impegna quotidianamente nell’annadana, anche gli altri impegni etici della società vengono rispettati. Secondo un detto indiano antico, “Non esiste dana più grande dell’annadana e del tiithadana, il dono del cibo all’affamato e quello dell’acqua all’assetato.”

E, nelle parole della Taittirya Brahmana: “Non mandare via nessuno che si presenti alla tua porta senza offrirgli cibo e ospitalità”. Questa è la disciplina inviolabile dell’umanità: conserva dunque grande abbondanza di cibo e compi ogni sforzo per assicurarti tale abbondanza e annuncia al mondo che quest’abbondanza di cibo è pronta per essere condivisa da tutti. Quindi, proprio dalla cultura del dono derivano le condizioni di abbondanza e la condivisione.

Ecco perché devono traboccare sempre le tue pentole, perché le campane del tuo villaggio devono suonare per chiedere: “Non c’è nessuno che abbia ancora fame?”. E la stessa scrittura sacra ribadisce che, se tu mangi prima della persona più debole del tuo ambiente o se mangi mentre nella tua sfera di influenza questi è ancora affamato, commetti già un peccato, perché dovresti mangiare solo dopo che siano state soddisfatte tutte le esigenze di tutti gli esseri. La violazione di questa regola morale è, secondo me, l’inizio di ogni insostenibilità e di ogni ingiustizia.

Ora vorrei porre al- la vostra riflessione che, nella situazione attuale, le esigenze di base di un numero sempre maggiore di persone vengano negate, ossia viene negata la possibilità fondamentale di impegnarsi in attività produttive creative e quindi di ricevere una dose sufficiente di cibo. Questa situazione è legata alla nostra strana ricerca di un falso senso di crescita, ricerca che avviene attraverso la commercializzazione del cibo e l’allontanamento del cibo dal- le sue radici sacre.

In un’altra scrittura sacra leggiamo: “Io abbandono chi mangia senza dare. Io sono l’annadevata (il dio del cibo, il divino nel cibo): compaio e scompaio secondo la mia propria disciplina. Nutro colui per cui dare ha altrettanto significato del mangiare. A lui do in abbondanza, da quello che mangia senza dare mi allontano. Chi fra gli uo- mini può far deviare me, l’annadevata, dalla mia strada?”. Cominciamo con il dare uno sguardo a come viene prodotto il cibo.

Chiunque abbia delle conoscenze di base sull’ecologia della produzione alimentare e dell’ecologia del suolo sa che, per avere riforni- menti alimentari sostenibili, è essenziale avere dei suoli che siano sistemi viventi: abbiamo bisogno di tutti quei milioni di organismi del suolo che creano fertilità, quella fertilità che ci offre cibi sani. Nella cultura industriale abbiamo ignorato il ruolo del lombrico nella fertilità del suolo; abbiamo voluto credere che la prevenzione dei danni da insetti nei raccolti provenisse non dall’equilibrio fra diverse specie di insetti, ma dai veleni. Quando si crea il giusto equilibrio prolificano tanti tipi di insetti senza che questi diventino dannosi per i raccolti.

Se invece si riduce la biodiversità, anche delle piante, si diffondono varie epidemie di insetti dannosi, perché si distruggono gli habitat delle diverse specie, ed ecco che bisogna correre ai ripari con i pesticidi, una produzione realizzata dall’industria bellica: e poi si viene a dire che sono i pesticidi e i fertilizzanti chimici che ci daranno più cibo!

Nel resoconto pubblicato recentemente dalla FAO esistono schemi su schemi che vorrebbero mostrare come, nel corso dell’ultimo secolo, ab- biamo assistito a un grande aumento nella produzione del cibo: vogliono veramente farci credere che abbiamo più cibo oggi. Ma mostrano solo uno spostamento di manodopera. Mostrano solo l’incremento della produttività tecnologica, che ha avuto l’effetto di creare un movimento di manodopera e di altre specie viventi e di dissanguare le risorse.

Ciò non significa che c’è più cibo per ettaro, non significa che c’è più cibo per unità di acqua usata, non significa infine che c’è più cibo per tutte le specie che hanno bisogno di cibo, perché hanno bisogno di cibo i lombrichi, come anche gli ovini, i caprini e i bovini che ci danno letame biologico ed energie rinnovabili. Tutte queste esigenze vengono cancellate quando noi valutiamo la produttività sulla base di tecnologie che implicano sempre più persone tolte, nel modo più veloce possibile, dalla terra.

Questo non vuol dire che nel mondo ci sia più cibo di prima, significa anzi che ce n’è di meno, e intanto tutte quelle macchine pesantissime continuano a fare a pezzi il suolo. Noi non vediamo quello che succede nel sottosuolo, non vediamo la violenza che infliggiamo a tutti gli organismi dai quali dipendiamo per la produzione sostenibile del nostro cibo. Nessuno ha mai calcolato quanto cibo in meno arriva a quei piccoli organismi, quanto cibo in meno arriva ai lombrichi, agli uccelli, alle mucche.

Invece ora dobbiamo dedicarci allo sviluppo di tecnologie intelligenti, allo studio e alle applicazioni della ingegneria genetica che accelera la guerra contro gli altri esseri. Durante una mia recente visita nel Punjab, ho capito all’improvviso che non c’erano più gli impollinatori. Quindi abbiamo dato vita ad un nuovo movimento, nella comunità scientifica e fra gli studenti. Gli studenti sono molto sensibili: basta spiegare ai bambini cosa fanno le api e le farfalle, e loro scrivono dei racconti bellissimi a proposito di questi insetti. Perché questi animali sono vivissimi.

Non sono invece sensibili quelle persone che manipolano i cereali, inserendo geni del battano tossico bt (bacillus thurigensis) nelle piante, in modo che la pianta secerne continuamente una sostanza tossica da ogni sua cellula, dalle foglie, dalle radici, dal polline. Queste tossine vengono poi mangiate dalle coccinelle, che muoiono. L’Università di Cornell (stato di New York) ha condotto una ricerca divenuta molto famosa sulla farfalla Monaca in cui dimostra quali fabbriche di veleni siano diventate le nostre piante con la bioingegneria tanto decantata.

Non vediamo la ferita che infliggiamo alla rete della vita perché per noi la rete della vita è invisibile, i nessi sono visibili solo a chi è sensibile. Appena diventi consapevole dei legami, sei costretto a riconoscere quale debito abbiamo verso gli altri esseri, verso i contadini che producono il cibo, verso le persone che ti hanno nutrito quando non eri autonomo, quando hai bisogno di aiuto. E offrire cibo, la responsabilità sacra e fondamentale del cibo, è un atto legato all’idea che ognuno di noi nasce, come diciamo in India, nel ma.

Questo significa essere in debito con gli altri esseri già quando nasci. Arriviamo nel mondo con un debito e passiamo il resto della nostra vita a pagarlo – alle api e alle farfalle, che compiono l’impollinazione dei nostri raccolti, ai lombrichi e ai funghi e ai microrganismi e batteri della terra, che lavorano continuamente per mantenere la fertilità, che i fertilizzanti chimici non potranno mai e poi mai garantire. Possono solo conta- minare, uccidere le fonti della vita che noi abbiamo trascurato, ma che sono essenziali per mantenerla.

L’uomo, quindi, nasce e vive con questo debito verso tutto il Creato ed è nostro dovere riconoscerlo. Il dono del cibo, l’annadana, è semplicemente il riconoscimento della necessità di pagare costantemente quel debito, significa accettare la nostra responsabilità per il debito verso il Creato e verso la comunità di cui facciamo parte, un debito che abbiamo contratto alla nascita. Questo è semplicemente un dovere umano. Ed è per questo che quasi tutte le culture vedono nell’ecologia una responsabilità sacra, vedono il mantenere sostenibili le condizioni di vita come una responsabilità sacra e hanno sempre parlato di dovere, di dharma. Da questa responsabilità poi, derivano anche dei diritti, perché una volta che mi sono assicurata che tutti quelli nella mia sfera di influenza abbiano mangiato, qualcuno a sua volta si preoccuperà che io abbia mangiato.

Quando ho lasciato l’insegnamento universitario, nel 1982, tutti mi hanno detto: “Come farai senza stipendio?” io risposi che se il 90% degli Indiani vive senza stipendio bastava affidare la mia vita ai rapporti di fiducia che esistono tra loro. Se dai, riceverai. Non devi calcolare quello che ricevi, devi essere consapevole solo del tuo dare. Per esempio, ho molti sari bellissimi: sono tutti doni. Gli Indiani non si comprano dei vestiti, normalmente li ricevono in dono per la festa di Durga Puja o Diwali e i tuoi bisogni vengono soddisfatti da questo flusso di doni, di dana, così come per il cibo l’enfasi si concentra sul dare, sul saldare il debito ecologico che ci appartiene.

Qual è il contesto attuale? C’è sempre un debito, ma ora si tratta di un debito finanziario: quindi un bambino che nasce in India o in qualsiasi altro paese del Terzo Mondo già ha sulla testa un rilevante debito verso la Banca Mondiale. E questa ha quindi il diritto di dire a te e al tuo paese che non dovresti produrre cibo per i lombrichi e per gli uccelli e per le mucche o per le persone della tua terra, dovresti invece produrre gamberetti o fiori per l’export perché questa operazione produce denaro. Io ho evidenziato il fatto che sistemi che generano dollari col commercio portano al contadino dislocato solo distruzione.

Sostituire un contadino che coltiva il miglio con una fabbrica di gamberetti significa innescare un processo di eliminazione dei contadini: loro non sono fra quelli che ci guadagnano, ci perdono e basta. Ogni dollaro di profitto proveniente dal commercio internazionale comporta dieci dollari di distruzione dell’economia locale e dell’ecosistema locale: distrugge la vita produttiva dei contadini, dei pescatori, di chi produce letame, legna dai boschi, cibo. Ora, se per ogni dollaro di commercio abbiamo un costo effettivo di $10, in seguito al ladrocinio di cibo perpetrato contro quelli che più ne hanno bisogno, si capisce perché, mentre si intensifica il commercio globale, accanto alla crescita apparente c’è inevitabilmente un aumento della fame. Questo nuovo sistema del cosiddetto libero mercato toglie alla gente la capacità di soddisfare i propri e altrui bisogni attraverso i sistemi locali di produzione di cibo.

Possiamo fare alcune considerazioni su tre diverse basi: a livello ecologico, quello basato sui diritti di tutte le specie, a livello produttivo, quello basato sulla quantità di cibo necessaria per i bisogni umani, e a livello distributivo, quello basato sulla modalità di scambio e commercio del cibo.

1) Livello ecologico:

dobbiamo pensare in termini di rete della vita, che ci impone una responsabilità sacra che comporta gli obblighi della dana, l’obbligo di donare il cibo. Ma anche le esigenze umane vengono soddisfatte solo attraverso la responsabilità sacra, che deve permanere nei sistemi per il mantenimento della vita, in cui la sostenibilità emerga come logica conclusione del giusto vivere in senso etico, in senso spirituale. E anche il senso etico che fa sì che noi ci prendiamo cura di tutti quei bellissimi organismi della terra: solo da una terra curata viene il cibo che nutre davvero. Il cibo prodotto attraverso l’avvelenamento della nostra terra avvelena anche i nostri corpi.

C’è un capitolo nel mio libro La Biodiversità di Domani che risponde alla domanda posta dall’editore, ossia: come possiamo proteg- gere la biodiversità se dobbiamo andare incontro alle crescenti esigenze umane? La mia risposta è che solo proteggendo la biodiversità potremo soddisfare queste crescenti esigenze umane, perché se non avremo cura anche dei lombrichi e degli uccelli e delle farfalle, non potremo avere cura neanche degli esseri umani. Questa idea che solo l’eliminazione di tutte le specie possa permettere agli esseri umani di avere cibo a sufficienza è sbagliata, si basa sull’incapacità di vedere come la rete della vita unisca tutti, fino a che punto viviamo in rapporti di interdipendenza con tutti gli altri esseri e agiamo attraverso l’interazione reciproca.

2) Livello produttivo:

abbiamo calcolato e anche dimostrato sulla base di un calcolo di biodiversità effettuato caso dopo caso su poderi agricoli, che l’idea che la monocoltura industriale produca più cibo è semplicemente sbagliata, anche in termini puramente quantitativi. Le monocolture producono altre monocolture, ma non produ- cono più nutrizione. Se pianti venti colture diverse in un campo, ci sarà una grande produzione di cibo, ma se paragoni qualunque raccolto singolo, per esempio grano o mais, al raccolto di un campo coltivato a monocoltura, naturalmente sarà meno. Eppure ci è stato fatto un tale lavaggio del cervello che crediamo di produrre di più quando produciamo di meno: è, con ogni evidenza, un’illusione.

3) Livello distributivo:

non è che la gente, prima della globalizzazione, non facesse del commercio. La gente della mia regione – io vengo dall’Himalaya – da secoli ha scambiato la propria lana e i propri semi di amaranto con il sale che viene prodotto dalle genti della pianura. Le uniche due cose che tradizionalmente assumono dalle pianure sono il sale e l’olio: per il resto sono autosufficienti in tutto. Oggi il commercio non riguarda più lo scambio di cose che ci servono e che non possiamo produrre da soli, il commercio ora si traduce nell’obbligo di cessare la produzione delle cose che ci servono, di cessare di avere cura degli altri, e di comprare da qualcun altro.

Ma è un sistema coercitivo e violento in cui ci hanno chiuso la WTO, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. La natura del commercio globale è tale che il potere si concentra nelle mani di tre o quattro realtà. Oggi nell’universo commerciale ci sono quattro grandi società di cereali. La corporation più grossa, la Cargill, con- trolla il 70% del cibo in com- mercio nel mondo: sono loro che decidono i prezzi. Loro dicono ai contadini cosa coltivare, lo comprano per poco e lo rivendono a prezzi maggiorati ai consumatori. Nel loro processo di produzione avvelena- no ogni elemento della catena alimentare e invece di dare, stanno pensando solo alla prossima tecnologia efficiente che potrebbero escogitare e al profitto economico più vantaggioso che eliminerà l’ultima miserabile risorsa dei piccoli ecosistemi locali, sottraendola alle altre specie, a poveri, al Terzo Mondo.

Nel dibattito mondiale sul valore dei semi sterili che hanno causato il suicidio di 20.000 contadini, la Cargill ha affermato, nei primi anni ’90: “Oh, questi contadini indiani sono così stupidi che non capiscono che i nostri semi sono intelligenti: abbiamo trovato nuove tecnologie che evitano che le api rubino il polline.” Ora il concetto del “dono del cibo” ci dice che il polline è il dono che dobbiamo preservare per gli impollinatori, e così i nostri raccolti saranno impollinati dalle api e dalle farfalle. Quello è il loro cibo, fa parte della catena alimentare, è il loro spazio ecologico. Dobbiamo solo evitare di invadere quello spazio. Invece, la Cargill afferma che le api rubano il polline, perché loro considerano ogni grano di polline come loro proprietà; vogliono avere raccolti che non si riproducano liberamente per poter tenersi stretto il brevetto di queste piante.

Anche la Monsanto, nel contesto di una discussione sulle sue varietà geneticamente modificate resistenti all’azione dell’agente erbicida chiamato Roundup Ready, che stanno compromettendo la diversità dei nostri raccolti, ha detto: “Attra- verso l’uso del Roundup stiamo evitando che le erbacce (che invece nel nostro contesto sono fonti di nutrizione) rubino la luce del sole”. L’intero pianeta dovrebbe ricevere energia dalla forza vitale del sole e ora la Monsanto dice praticamente: “No, dell’intero pianeta sono solo la Monsanto e i coltivatori sotto contratto con la Monsanto, che hanno diritto alla luce del sole, il resto è ladrocinio.”

Quindi arriveremo a un mondo che è esattamente il contrario del mondo fondato sul dono del cibo come responsabilità sacra. Questo mondo nuovo, così ripensato, è costruito sull’extrapolazione del cibo dalla catena alimentare e dalla rete della vita, ed è in questa direzione che vanno le tecnologie: dal seme ibrido al seme Terminator. Queste tecnologie “intelligenti” sono solo sistemi più furbi per sottrarre risorse e quindi per dare l’impressione di produrre di più. Ma lo fanno negando agli altri esseri il diritto alla loro parte dei doni del pianeta, i doni del cosmo. Invece di dana, abbiamo profitto e ingordigia come principi regolatori.

Sfortunatamente più profitto significa più fame, più malattie, più distruzione della Natura, della terra, dell’acqua, della biodiversità. Più i nostri sistemi di cibo diventano non sostenibili, più siamo circondati da adana(“non dono”) che si traduce in suicidi di contadini o in contadini che vendono i propri reni per pagare i loro debiti. Ma questi non stanno pagando il debito alla Natura, alla terra e alle altre specie, ma il debito finanziario agli strozzini e agli agenti delle aziende che vendono semi e pesticidi. Il debito ecologico viene di fatto soppiantato da questo debito finanziario: al dono del cibo e del nutrimento si sostituisce il “dono” di sempre maggiori profitti.

Ecco, secondo me, qual è il clima in cui siamo tutti costretti, contro la nostra volontà, a vivere. Siamo costretti a partecipare a un peccato che si insinua dappertutto. E io credo che quello che dobbiamo fare ora è trovare il modo per distaccarci da questo sistema criminale. Non si tratta semplicemente di sostituire il commercio libero con il commercio equo, non si tratta di operare rattoppi. Se non riusciamo a vedere in che modo l’intero sistema dominante causa l’avvelenamento e l’inquinamento del nostro io, della nostra coscienza, non saremo capaci di attua- re quel rovesciamento interiore che ci permetterà di creare di nuovo l’abbondanza, al posto della scarsità.

La fame che aumenta sempre più fa parte di questa scarsità. E le crescenti malattie della società dei consumi fanno parte della scarsità. Non produciamo l’abbondanza perché partiamo sempre dalla domanda “Come possiamo prendere di più?”. Ossia come possiamo prendere di più dalla Natura, dal Terzo Mondo, dai poveri.

Se noi riabbracciassimo la responsabilità sacra che l’ecosistema comporta e riconoscessimo il nostro debito e il nostro dovere verso tutti gli esseri umani e non umani, allora la protezione dei diritti di tutti gli esseri umani e non umani diventerebbe parte della nostra etica. La cura del non umano porta inevitabilmente alla cura dell’umano e ci permetterebbe di lasciare i nostri contadini sulla terra.

Avere cura di ogni essere significa anche avere cura dei contadini e avere cura dei contadini significa avere cura dei consumatori. Così, se iniziassimo ad alimentare la rete della vita, risolveremmo la crisi economica dei piccoli poderi, la crisi della salute dei consumatori e la crisi della fame e della povertà nel Terzo Mondo.


(traduzione Addey/Avanzino/Dama)

Fonte: Viator, il periodico cristiano della pace, della solidarietà, del dialogo e dei diritti umani, C.so Indipendenza 14, 20129 Milano, [email protected], direttore Daniele Gallo [email protected] , nn. 3-4-5, marzo-maggio 2011, pp. 4-9.


 

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