Nell’anima del mondo, viaggi e pellegrinaggi in luoghi straordinari e guida alle tecniche di meditazione nella natura – Recensione di Francesca Putzolu

Italo Bertolasi, Nell’anima del mondo, viaggi e pellegrinaggi in luoghi straordinari e guida alle tecniche di meditazione nella natura, Urra edizioni, Milano 2010

Imparare a viaggiare, con le suole al vento, leggeri e danzanti. Un’immagine che affascina e che spinge la mente e il cuore a ripercorrere gli stessi sentieri che portano all’incontro col “mistero della creazione”e la sacralità della Natura.

L’oriente è stato per molti giovani degli anni 1970 una iniziazione alla libertà e alla verifica dei propri limiti, per alcuni una ricerca a stati elevati di trascendenza con potenti allucinogeni, tentando nella confusione, la fusione. L’ autore inizia negli anni 1960, come figlio dei fiori, a intraprendere un lungo viaggio alla scoperta dell’Asia centrale, ma la sua curiosità è più antropologica e lo spinge verso il mondo degli sciamani affascinato dal loro carisma e “coraggio, in cui si preserva la sapienza dell’uomo selvatico guardiano della natura e dell’armonia tra gli esseri umani e le forze dell’universo“.

Il libro è diviso in luoghi dove l’autore ha potuto soggiornare (beato lui!!) per lunghi periodi .Ci prende per mano e inizia con noi un cammino lento e intenso verso il cuore dell’Anima Mundi, anima germinale “che si offre in trasparenza in tutte le cose “.

Ci conduce così nelle foreste del Giappone, in Nepal verso il cielo, nel Pakistan attraverso il raccoglimento esoterico dei Sufi, in Cina nei monti del Tao, e, per ciascun viaggio, ci suggerisce luoghi in Italia dove trovare le stesse atmosfere. Ogni parte infatti si conclude con una sezione in cui consiglia ai camminatori nostrani le pratiche dei maratoneti spirituali dell’oriente..

Nei girotondi dei Sufi antidogmatici del Beluchistan, ha imparato l’estasi degli stati alterati di coscienza . Coi Qalandar ha percorso gli stretti cunicoli della montagna sacra Lahut, per penetrare nell’utero del ventre materno, distendersi in posizione fetale per rinascere come uomini nuovi.

Così pure in Cina nei 72 picchi del monte Wudang, il monte sacro della Cina taoista, ha trovato gli Taoshi, una congregazione di uomini e donne che scalano i sacri monti, fanno bagni di vento e foresta e si riempiono di vita abbracciando gli alberi e aggrappandosi ai tronchi.

La dea della montagna riempie di profumi e avvolge gli Yamabushi, monaci giapponesi che si seppelliscono sotto terra e fanno un bagno rinfrescante nell’acqua ghiacciata, per poi camminare sulle braci ardenti e infine scalare il monte e andare incontro al vento: un viaggio iniziatico nei cinque elementi di terra aria acqua e fuoco.

L’Ontake San, con i sentieri delle pratiche ascetiche, è la culla a cui tornare per “rinascere”. I riti dei bagni purificatori sotto le cascate, le esplorazioni negli uteri caverne della madre-montagna e le scalate in vagine impervie, per rivedere la luce, sono un simbolo del “riberthing”, del venire al mondo. Italo Bertolasi, che in Giappone ha trascorso più di dieci anni, è un tramite, che non si limita a descrizioni da antropologo, da fotografo appassionato nonché da profondo ecologista, ma vive e sperimenta con gli sciamani la sacralità e la musica delle montagne, nella convinzione che i flussi di energia scorrano dalla natura verso il corpo umano, fortificandolo e ampliando la capacità di godimento e di consapevolezza.

Le pratiche ascetiche fino al suicidio e al lento percorso di auto mummificazione, col nutrimento di erbe di bosco, sono gli estremi di un dissolvimento che rende onorevole una vita che si chiude “scomparendo per sempre nel ventre santo tra gli alberi della natura selvaggia”, che produce più di 30 suicidi all’anno nella foresta di Aokigahara ai piedi del monte Fuji.

Oppure Osore, il monte dei morti e dei bambini mai nati, al centro della penisola di Shimokita. Di origine vulcanica, i suoi crateri sono considerati la porta verso l’inferno, un limbo dove, tra templi buddisti, le anime ricevono doni e preghiere per la loro salvazione. Sono le donne sciamane le custodi dei luoghi e le intermediare tra il mondo dei vivi e dei defunti. I bagni salvifici nei laghetti colmi di acque sulfuree conservano la tradizione dell’acqua come elemento di purificazione, perpetuando ogni autunno, quando gli aceri si tingono di rosso, il pellegrinaggio di numerosi camminatori verso sperduti villaggi termali.

Il libro, che nella sua prima parte ha il titolo dello Zen del viaggio, non risparmia al lettore anche “le ferite“ dei popolo oppressi ed emarginati, a cui sono state sottratte le terre, gli Ainu o aborigeni del Giappone. Antica popolazione la cui storia ricorda il genocidio degli indiani d’America.

Un luogo in Italia, una piccola oasi selvatica dove il camminare diventa ascolto meditativo e ascolto del canto del bosco, è la Val di Mello, in provincia di Sondrio. Lì anche noi potremmo divenire i guerrieri del silenzio, con uguali pratiche meditative e tecniche della respirazione.

Il viaggio che ci porta in Nepal è un percorso che approfondisce gli elementi dello sciamanesimo più spirituale, più misterioso e affascinante. Gli sciamani che incontra sono anche i custodi delle tradizioni e curatori che, oggi, girano per i villaggi a insegnare le pratiche di una buona igiene e alimentazione. I jakhri un tempo erano numerosissimi, oggi, il governo maoista, considerandoli impostori, ne ha dimezzato il numero e sono diventati dopo un breve corso “attivisti umanitari”, conoscitori delle erbe officinali e guide esperte per l’esplorazione dell’alta montagna.

In Nepal gli sciamani sono parte delle vita sociale e spirituale delle popolazioni lontane da Kathamandu.

La conoscenza dello sciamanesimo esercita sull’autore un fascino che lo spinge a ricercare in tutto il paese aspetti diversi della realtà sciamanica. Lo sciamano è un profondo conoscitore di strategie di pace che allevia sofferenze e rinsalda legami, è l’espressione di una profonda cultura contadina. Riporta esperienze di cure e di grande capacità artistica, da forgiatori di pugnali raffinati ed eleganti o fabbri esperti a costruttori di tamburi di pelle di stambecco himalaiano. Nei monti del Kusunda incontra gli sciamani nudi dediti alla caccia e alla raccolta di radici, ultimi aborigeni orgogliosi e irraggiungibili. Nei laghi sacri di Gosaikunda a 4500 metri di altitudine, partecipa al pellegrinaggio della raccolta delle erbe durante la luna piena. Non mancano anche in Nepal le donne sciamane, le Shilopa, che testimoniano l’esistenza di una “via sciamanica tutta al femminile”. Spesso invise, ultime sopravvissute di una cultura matriarcale pre-buddista, vengono temute e emarginate. Per incontrarne alcune egli intraprende un trekking affascinante verso un solitario agglomerato di case appollaiato a 3000 metri, poverissimo e con poche risorse, il cui scenario naturale è di una bellezza assoluta e i suoi abitanti sereni e ospitali. Qui sperimenta lo stato alterato di coscienza e il “volo astrale” della sciamana Dolma.

Ma non è solo lo sguardo dell’uomo appassionato dell’esoterismo che si posa sulle donne. Non mancano riflessioni sul degrado umano che spinge molte di esse, sole e senza mezzi, vittime di violenze, al suicidio o all’alcolismo. Oggi grandi fabbriche hanno invaso valli che erano luoghi sacri di templi dove famiglie e bambini dalit, i più umili dei sistemi delle caste indù, lavorano in condizioni pietose.

L’autore, nella conclusione della parte del libro sul Nepal ci riporta in Italia, nel filo della memoria di magia e di sciamanesimo delle valli delle dell’Alto Adige. Qui, si racconta che sante medichesse curassero altre donne più povere e sfortunate. Oggi, soprattutto a Fiè è ancora diffuso il bagno nel fieno e nelle erbe campestri, rigeneranti abbracci negli aromi e nei profumi dei monti.

I ricordi dell’autore continuano a condurci, questa volta in Pakistan. È un ripercorrere le tappe e le emozioni di un soggiorno diviso in due momenti fondamentali del suo percorso di vita: prima, negli anni 1970, il sogno hippy di costruire una comune, su una arida e pietrosa landa, avuta come regalo da un santone mussulmano, in cui realizzare ideali di fratellanza e pace, ai confini del deserto ,nel territorio a sud di Peshawar, in terre contese da guerre tribali e da banditi armati, vie di traffici e di oppio. L’idea sociale di una comunità anarchica fallì nel tentativo di essere accolti e di mettere radici fra i Patan, fieri e combattivi popoli di frontiera. Il ritorno, negli anni 1990, sull’onda della nostalgia dei dervishi e delle danze vorticose.

Le interessanti descrizioni della mistica dei sufi sono il filo che unisce le due diverse esperienze. Il confronto fra due epoche storiche, i cui avvenimenti di guerre, che tanto segnarono quelle splendide regioni, riempie di sgomento. I mitici viaggi degli anni 1970 nella hippies trail, sono caratterizzati da una grande possibilità di spostamento attraverso l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan, senza eccessivi pericoli. L’accoglienza amichevole con cui venivano accolti nei villaggi allora, contrasta con le paure e i rischi degli anni 1990, in luoghi già pesantemente segnati da guerre e invasioni. Ora i kalashnikov dei mercenari dettano le leggi e le condizioni. Ciò nonostante, insieme ai suoi santoni sufi intraprende un viaggio verso l’oasi misteriosa nel deserto del Beluchistan.

I mistici a cui si accompagna verso la tomba del Santo della luce divina, sono guide della solarità e conoscenza profonda. Nelle danze circolari entrano in trance ma i diversi stati visionari hanno un colore differente in ogni setta sufi, colori prediletti attraverso cui si rivela il coraggio, la saggezza e la pace interiore. Il nero è il colore della maestà del cosmo e della divinità. L’esperienza viene descritta dall’autore con estrema ricchezza di particolari, in cui si intrecciano le sue numerose conoscenze delle diverse confraternite sufi, con esperienze dirette di danze sacre, sensuali e selvagge. Come in Nepal, egli va a cercare gli aborigeni, i Kafir. Sono mille e sopravvivono in un “eden alpestre e tra i labirinti rocciosi dell’Hindukush, mai islamizzati, si proclamano uomini liberi e rappresentano il 3% dell’intera popolazione del Pakistan”. E ancora il confronto tra la sua prima esperienza, 30 anni fa, e quella attuale offre un’immagine di disperata dissoluzione di una comunità ideale. Lo scellerato progetto di acculturamento e di rimozione dell’identità storica delle popolazioni kafiri da parte del governo centrale pakistano, costringe a una islamizzazione forzata, ma non mancano strani preti americani che li spingono verso il cristianesimo.

Così la montagna diventa il loro spazio di libertà. I villaggi, come nidi di aquile, si raggruppano attorno a templi di Jesta Khan, la dea materna generatrice e conservatrice del mondo. Anche qui vivono eremiti e sciamani che rimpiangono quando i giovani ambivano a conoscere i valori e i riti dei loro padri spirituali, oggi in giro per i villaggi, con radioline, sognano le grandi città e la fuga da quei monti. Ma alla feste delle stagioni nessuno si sottrae: uomini, donne, bambini, accesi dal rombo dei tamburi ruotano fino allo sfinimento inebriandosi con il vino dell’uva sacra che cresce ad altezze vertiginose. Il vino, proibito per i mussulmani, è per i kafiri il calore della vita.

La Puglia è il posto da lui consigliato in Italia, per ritrovare la frenesia delle danze dervishe. Terra di olivi e antiche magie, riporta ad antichi rituali con la “taranta”, danza sfrenata e liberatoria. Con la scusa di essere state punte da un ragno velenoso le donne si scatenano in una danza erotica e selvatica che restituisce loro visibilità e potere. Attualmente rivalutata, la taranta è un approccio moderno alla trance e alla esplorazione della gioia nella fluidità del corpo e della mente.

Si ritorna in Asia nel capitolo seguente e precisamente nella Cina del tao e del “non forzare” che si rivela, attraverso i luoghi che l’autore ricerca, rifuggendo, quando possibile, dal turismo mordi e fuggi che ha pervaso anche i siti più sacri. Sono camminate verso il cielo, lungo scale celesti, migliaia di gradini scolpiti nella dura roccia.

I monti sacri, un tempo eremi di monaci taoisti, ora meta di numerosi turisti dell’ascesi, sono venerati come la casa del sole. Nello splendido scenario del monte Taishan sperimenta il camminare meditativo col ritmo dei passi che lentamente salgono i 7000 gradini verso i templi (quelli sopravvissuti alla furia distruttiva delle guardie rosse e della rivoluzione culturale del 1966) e le rocce divine, dove il sole nascente avvolgerà in un abbraccio di luce i suoi devoti e tenaci fedeli.

La meditazione lenta e cadenzata permette di recuperare il senso della continuità e del legame con altri leggendari pellegrini, i Taoshi, esperti nell’arte del wu wei, la “via” che ci insegna a non forzare, ad abbandonarsi con fiducia ai ritmi della natura e dell’universo. Ma nelle fatica della salita e nei vortici dei precipizi dove è meglio non guardare, si sperimenta la fragilità umana. Allora i piedi devono essere ben aderenti e la consapevolezza del contatto deve esercitare i nostri sensi. Nella sacralità della madre montagna il taoista ritrova l’energia dei due principi della vita universale: lo yang maschile e lo yin femminile. Il picco dell’imperatore di giada, nome della vetta del Taishan, offre uno straordinario panorama, accompagnato dal canto delle pietre, suoni che provengono da fessure attraversate dal vento.

I monaci taoshi vivono in simbiosi con la natura e meditano accanto all’acqua, “maestra di arrendevolezza, che mai oppone resistenza”. Praticano e agiscono nel camminare, a volte senza meta precisa, riproducendo simbolicamente il soffio del vento che smuove le foreste e tutto permea del suo respiro. La danza meditativa del Qi Gong, un passo leggero per non disturbare l’ascolto, fa parte dei momenti meditativi. Il corpo umano diventa allora un tramite tra le due energie maschili e femminili, con le braccia sollevate verso il cielo e i piedi ben piantati per terra. Il pellegrinaggio cinese dell’autore continua con l’ascensione del monte Wudang considerato patrimonio dell’Unesco. Lo Wudangshan è centro di diffusione della pratica della “boxe taoista dell’interiorità” dove si insegna a combattere i nemici dentro e fuori di noi.

A mani nude e senza voler annientare l’avversario, si impara a gestire conflitti dove al nemico viene attribuito il ruolo del maestro. Esso infatti ci mostra i nostri limiti e le difficoltà indicandoci una via di perfezionamento. Si combatte senza spada con mente vuota e con lealtà.

Il monte è ricchissimo di alberi. La Cina ha una delle più grandi superfici di foreste del mondo pari al 26% del totale mondiale. Dalle profonde valli di querce e frassini, l’autore inizia l’ascensione lungo una ripida scalinata che porta verso i templi scuola, luoghi di meditazione ma anche centri di apprendimento della cucina taoista e del riconoscimento delle piante medicinali. Nel percorso, che dura diversi giorni, incontra monaci e monache che nella via del tao trovano saggezza e ragione di vita.

Il monte fiorito, lo Huashan, altro luogo sacro, mostra pareti nude di granito i cui interminabili gradini conducono alla vetta di 2000 metri. È un esercizio continuo di attenzione mentale, ci si muove con grandi rischi, contando sulla propria forza fisica e sulla volontà di proseguire. A volte lungo il pendio, si incontrano contadini che coltivano, con una abilità straordinaria, qualche piccolo gradone di terra in cui far crescere un orticello o un minuscolo giardino montano.

Ancora si possono visitare le celle degli ultimi anacoreti che si nutrono di piante selvatiche e vivono in straordinarie grotte. Sono cavità ampie, scavate nel granito da monaci che hanno trascorso gli anni a scolpire gradini e figure nella roccia, spesso disegnate col drago danzante, simbolo dell’energia del cielo e del vento. Quasi tutti loro conoscono le proprietà delle piante medicinali. Alcuni sono guaritori che seguono la teoria taoista del flusso di energie che attraversano il corpo umano, il cui equilibrio genera salute e il disequilibrio genera malattia. L’uomo è per loro la specie più vulnerabile, con i suoi pensieri vagabondi e passioni che lo fanno vivere in modo innaturale e insano. I monti sacri cinesi sono da secoli considerati una vera e propria farmacia. L’”oro verde” come vengono definite le piante medicamentose, viene venduto in grandi mercati. Anguo è il più vicino a Pechino, il più grande per le sue erbe e per i rimedi animali. Controllato da clan familiari ricchi e potenti, è un business che va a gonfie vele, le cooperative statali ne controllano solo il 20 %. Esso contribuisce anche ad aumentare il reddito pro capite dei cittadini, premiati con un trattamento fiscale agevolato, con il beneplacito di Lao Tzu, mistico e filosofo che visse nel VI secolo a.C. e padre del Tao Te Ching, la bibbia del taoismo, la cui statua si può vedere in molti luoghi di vendita di prodotti della medicina cinese.

Il sentiero Francescano è, per l’autore, il luogo in Italia, dove si cammina di gambe ma anche “col cuore e con l’anima”. Un percorso spirituale dove i nostri passi ricalcano quelli di S.Francesco, in cui rivivere sentimenti di sorellanza con la terra e con gli animali magari praticando il Qi Gong. Nell’ascolto della “danza del respiro” della foresta, sciogliamo stress e affiniamo l’attenzione. Così l’atmosfera delle valli umbre e dei suoi monasteri, ci permea di una calma che rafforza la mente e libera dall’oppressione degli affanni quotidiani. La vita semplice di S Francesco, che, nello spirito del Vangelo più autentico, abbandona le ricchezze per abbracciare la natura e vivere con i più poveri, ci indica la strada della sobrietà e della leggerezza nel nostro cammino dell’esistenza.

L’ultima tappa di questo ricchissimo e vario vagabondare nell’Anima del Mondo è a Bali. Il suo viaggio inizia ai piedi del vulcano Agung, montagna sacra per i balinesi, che hanno inventato riti propiziatori per esorcizzare le sue forze devastanti e le violente eruzioni.

Uno sciamano medico lo “cura” fornendo trattamenti e applicazioni di pietre e svelandogli i suoi segreti memore che forse, in pochi anni, lo sciamanesimo farà fatica a sopravvivere. Il monte lo si può ascendere solo in alcuni periodi dell’anno, quando viene abbandonato dagli dei che lì vi dimorano. È considerato un altare da rispettare i cui ritmi vanno conosciuti e assecondati. Perciò molti pellegrini delle regioni asiatiche non “scalano” le montagne secondo il concetto occidentale della conquista, ma girano attorno ai monti in veri percorsi di adorazione della sacralità della madre terra e luogo delle sorgenti d’acqua, dispensatrice di vita. L’induismo, religione fondamentale dell’isola, colloca le sue molteplici divinità sulla montagna dove ritroviamo i templi dedicati a Brahma, Shiva e Vishnu.

L’autore ci suggerisce di viaggiare sempre come ospiti in casa d’altri e seguire con umiltà le regole di chi è custode dei posti. Vietato per esempio portare oggetti di cuoio per rispetto a Balì, la vacca sacra, e d’oro, in quanto simbolo dell’avidità e dell’odio fra gli uomini. Inutile anche il danaro. Così la sua scalata inizia, a piedi scalzi, il giorno della luna piena, in compagnia di un giovane bramino, Ida, verso un sentiero insidioso, lungo cavità e boschi incantati. La salita è interrotta da brevi pause per bruciare incensi e pregare. Più si sale più si fa fatica ma alla fine, in vetta, lo scenario è meraviglioso. I piedi sentono la terra vulcanica e il suo calore, le orecchie sentono il rombo del magma bollente, il naso sente il “profumo” del vulcano che sale dalle voragini. Una immersione emozionale totale che fa sentire uccelli sospesi tra terra e cielo tra nubi e vento.

Emozioni profonde e profonda ecologia, sono gli aspetti che l’autore ricerca in tutti i suoi viaggi in Asia. L’isola di Bali fu “scoperta” all’inizio del Novecento da molti europei, intellettuali e artisti, che videro tra loro, assidua frequentatrice, l’antropologa Margaret Mead, spinti a lasciare l’Europa alla ricerca della bellezza degli ultimi paradisi. La danza balinese è un altro aspetto assai importante della spiritualità nella vita della comunità. Cerimonia collettiva, è eseguita da donne di straordinaria bellezza. I rituali sacri si esprimono con danze diverse fra cui differenti scuole di formazione che durano anni. Il Legong è la più interessante. La danza delle vergini bambine, avvolte in fasce di broccato d’oro rinnova il patto tra la natura, l’uomo le sue divinità. La loro formazione inizia a cinque o sei anni, per debuttare nei templi nella pubertà. Nella trance del ritmo cadenzato della musica, diventano angeli dispensatori di benedizione e di buoni frutti. Ad accompagnare l’autore per comprendere meglio il valore della danza sacra e rituale, è Cristina Formaggia, italiana, diventata ambasciatrice della danza balinese nel teatro di Eugenio Barba a Oslo dell’Odin Theatre, esperta e plastica nell’assumere, in misteriose metamorfosi, le rappresentazioni di diversi personaggi, malefici geni e benefiche divinità. La danza trasforma tutto in un campo di energia e in un mondo fantastico, che benefica chi sta vicino al danzatore nel legame tra magico e reale.

L’ultimo viaggio con cui si conclude il libro, ci riporta in Italia nell’isola di Stromboli il cui vulcano continua la sua attività sismica. Il sentiero attraversa terrazzamenti con coltivazioni di capperi e uve Malvasie.

Con i consigli sul potere terapeutico del camminare si conclude il nostro testo, un ricchissimo racconto che ci offre, non solo descrizioni di grandi pellegrinaggi spirituali, ma anche ci aiuta a capire che gli spazi della sacralità sono dentro di noi. Trovarli, attraverso il cammino e la scoperta della natura, diventa allora un felice percorso di vita. Potenziarli attraverso la meditazione significa ristabilire il legame con la terra e ridefinire la nostra posizione nel mondo.

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