Napoli, la città violenta e le pratiche del cambiamento

Gianmarco Pisa

Una riflessione su violenza, contro-violenza e nonviolenza e i percorsi della trasformazione possibile nei contesti metropolitani

Progetto A.C.H.I.E.V.E. II Alternative Conflict Handling to Inhibit Emergencies and Violence Eradicate

Assopace Napoli – Associazione per la Pace
Operatori di Pace – Campania ONLUS
Centro Subacqueo di Protezione Civile Sant’Erasmo


La riflessione sulla violenza, la contro-violenza e la nonviolenza in ambito metropolitano richiede una particolare attenzione, su entrambi i versanti: da un lato, quello di evitare di cadere in facili tipizzazioni e drammatizzazioni, fino a precipitare nella spirale del luogo comune, che alimenta il pressappochismo ed innesca la rassegnazione (la violenza come dato naturale del vivere cittadino); dall’altro, quello di individuare con esattezza ciò che contraddistingue la tipologia metropolitana della violenza nella sfera comunitaria (inter-comunitaria e infra-comunitaria) e ciò che può costituire una soluzione possibile alla gestione violenta dei conflitti di prossimità.

Il problema della violenza è, insieme, problema di concetto e di sostanza: allude ad una modalità tipica di riproduzione sociale all’interno della metropoli capitalistica, con le sue alterazioni, alienazioni e frenesie ed indica, nello stesso tempo, una possibilità stereotipa di affermazione delle aggregazioni disciplinari ai diversi livelli della stratificazione sociale, dall’oppressione quotidiana all’interno della famiglia, al bullismo giovanile all’interno della scuola, per finire con le formazioni criminali più incidenti e pervasive, come la mafia e la camorra, peraltro, storicamente insediate sul territorio metropolitano, in particolare della città di Napoli.

Prima di riflettere sulla violenza a Napoli sarà dunque il caso di affrontare il nodo della “violenza in quanto violenza”: come il conflitto rappresenta una configurazione stabile del vivere sociale in quanto abita stabilmente le contraddizioni che animano la rete di relazioni sul territorio, dal micro al macro, così la violenza rappresenta una modalità consueta di gestione del conflitto e di approccio alla controversia. Nella sua tipicità, essa rivela tuttavia anche la sua fallacia: «Sono contrario alla violenza perché se apparentemente fa del bene, il bene che fa è solo temporaneo mentre il male che produce è permanente», disse Gandhi.

E’ il caso, dunque, di partire da qui.

Quella che Slavoj Zizek ha definito la società “post-storica” o “post-politica” è esattamente la società civile nel mondo in cui viviamo, la cui fisionomia è letteralmente sfigurata dalla violenza. Basti pensare all’affiorare della violenza in tutte le fattispecie catastrofiche delle vita quotidiana e della nozione stessa di “urbanità”: dalla rivolta di Los Angeles del 1992 all’imperversare delle gang giovanili nella periferia di Londra per tutti gli Anni Novanta e sino ai giorni nostri, veri e propri paradigmi della “spirale violenza – contro – violenza”, in cui all’azione violenta di determinati aggregati sociali (giovanili e non) si è risposto con le politiche repressive, quando non addirittura con la contro-violenza dei veri e propri rastrellamenti militari; dalla furia distruttiva dell’uragano Katrina che ha, non solo metaforicamente, portato a galla i guasti e le lacerazioni di una società, quella statunitense, profondamente disunita ed ineguale, fino alle continue violenze ed uccisioni portate dalla camorra partenopea (con una media, dagli anni Novanta ai giorni nostri, di circa cento morti ammazzati all’anno, come dire un paio a settimana).

Come ha ricordato Slavoj Zizek, d’altra parte, «si tratta di un tipo di violenza del tutto nuova, priva di qualsiasi afflato utopico o progetto rivoluzionario, una violenza irrazionale ed impotente come un’esplosione di follia. Sono proprio le democrazie occidentali, peraltro, con i loro sistemi di valori universali e i loro dispositivi di comando e di controllo, ad esserne la causa diretta, dal momento che impediscono di fatto qualsiasi processo di soggettivazione auto-determinata al di fuori delle proprie regole. Di conseguenza, è ipocrita condannare “semplicemente” la violenza: è molto più costruttivo interrogarci seriamente su quale ruolo le riserviamo oggi, anche se ufficialmente le neghiamo diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento sociale».

Si tratta di una visione gravida di conseguenze, che interroga in modo particolare gli approcci di principio e le metodologie di intervento della trasformazione costruttiva dei conflitti, la quale, a propria volta, opera per l’inibizione e il superamento della violenza, in particolare nell’ambito metropolitano, adottando il criterio della nonviolenza (criterio, qui, nel senso etimologico del termine, vale a dire del greco di esercitare un “giudizio” consapevole su un determinato processo storico-sociale e quindi di perseguire la “distinzione” che l’adozione del giudizio inevitabilmente comporta).
La qual cosa finisce con l’assumere un carattere ancora più significativo nel contesto metropolitano di Napoli: come ricorda Livio Miccoli, portavoce del Comitato “Claudio Miccoli” (in memoria del giovane ambientalista nonviolento partenopeo, barbaramente ucciso nel corso di un’aggressione portata da un gruppo di giovani, in alcuni casi giovanissimi, neo-fascisti, nel 1978) Napoli rappresenta un contesto significativo, dal punto di vista dell’emergenza violenta come sotto il profilo dei tentativi nonviolenti di trasformazione.

La città di Napoli, secondo le note statistiche del “Sole24Ore” datate 2010, è ultima in Italia per qualità della vita e prima in Italia per numero di reati denunciati; la sua provincia è prima in Italia per numero di affiliazioni criminali (mafiose e camorristiche) e ancora prima per tasso di penetrazione criminale nella vita pubblica (civile, sociale, economica, politica, istituzionale). Dunque, Napoli, gigantesca contraddizione in termini, è al tempo stesso una “città violenta” (per alcuni addirittura la “città violenta” per eccellenza) ed un contesto estremamente sensibile al richiamo della nonviolenza, per la forza della storia, delle tradizioni e delle personalità che vi hanno seminato, non solo la testimonianza, ma anche le pratiche della nonviolenza attiva.

Questo lavoro di trasformazione incide, per dirla con Antonio Gramsci, “su un tessuto gelatinoso di società” (la metafora della “Napoli città porosa” è assai nota), che va anzitutto liberato dalla retro-azione e dalla permanenza dello stereotipo. Ricorda ancora Livio Miccoli, “Casalesi non è il nome di un clan, è il nome di un popolo” e Casal di Principe è il nome di una città, non la porta dell’infermo. Anche in relazione a questo approccio, tanto ozioso quanto abusivo, è opportuno ricordare che Napoli è una metropoli complessa, che esprime insieme le due facce della stessa medaglia, il tasso di emarginazione sociale più alto e l’incidenza degli aggregati militari più significativa (il Comando Atlantico Unificato, il Comando della Sesta Flotta USA e della Marina Militare USA in Europa e il Comando della Marina Militare per l’Africa o AFRICOM sono infatti a Napoli, presso la base militare statunitense e della NATO a Capodichino) del nostro Paese.

Eppure Napoli ha una lunga tradizione di nonviolenza e di nonviolenti (Claudio Miccoli, Antonino Drago, Giuliana Martirani, Alberto Clarizia, il “casalese” Don Peppe Diana) né, nella storia, è sempre stata accordata giustizia ai movimenti nonviolenti e ai successi della nonviolenza, non solo a Napoli, per la verità: «si guarda sempre alle guerre, mai a tutte le volte che si è riusciti, con la nonviolenza e la diplomazia, a disinnescare le guerre» (Gandhi); né, d’altro canto, si è riusciti a consolidare le buone pratiche della nonviolenza attiva, per farle sedimentare nella memoria e nei vissuti e farle assurgere a pratica quotidiana e condotta normale: «la nonviolenza può non funzionare oggi, ma è sempre la più efficace nel lungo periodo» (Gandhi). Forse anche per un limite proprio della nonviolenza e del movimento nonviolento, su cui sarebbe il caso di interrogarsi.

Ciò che residua da queste annotazioni è dunque la consapevolezza del cammino ancora da percorrere e la convinzione del carattere prospettico della soluzione nonviolenta, che proprio per questo andrebbe assunta a livello istituzionale, come proposta della società civile da far “fare propria” alle istituzioni pubbliche, nel senso proprio del rilievo delle cosiddette 3 C della nonviolenza: la Condivisione, la Creatività e il Coraggio. Il progetto ACHIEVE II, appunto, nella sua dimensione di progetto di formazione alla trasformazione positiva dei conflitti e di campagna per la promozione di una cultura della nonviolenza, ha proposto alle istituzioni cittadine l’adozione del format “Napoli Città della Nonviolenza” per rendere Napoli, già capitale del Mediterraneo e città della solidarietà euro-mediterranea, anche città della pace e della nonviolenza, in linea con la propria vocazione e le proprie potenzialità.

Napoli è una città dinamica: su un milione di abitanti (tre milioni l’area metro-politana), la città conta oltre 660 mila giovani, pari a oltre il 20% della popolazione. E’ dunque la città più giovane d’Italia. Inoltre, su un milione di abitanti, 525 mila sono donne: il che significa che, se la discrepanza tra la popolazione femminile e la popolazione maschile su scala nazionale è di poco superiore al 3%, a Napoli è di poco più del 5%, confermando Napoli anche come città “al femminile”. Sono dati interessanti dal punto di vista del lavoro di pace e per il contrasto alla violenza, soprattutto nel senso dell’azione per la trasformazione costruttiva dei conflitti metropolitani.

Se, come ricorda Johan Galtung «la contraddizione esistente è tra vecchi e giovani, uomini e donne, WASP e minoranze: l’elemento anglo-sassone, cristiano del Sud e militarizzato del profondo Sud è oggi al comando, le minoranze civili e sociali, Chicanos, Ispanici ed Afro-americani potranno sperare di raggiungere lo status di maggioranza solo nel 2042: l’alleanza dei soggetti marginali potrebbe sovvertire l’attuale struttura di comando», è proprio nei soggetti periferici, limitrofi e marginali, che non hanno occupato sinora il “centro della scena” della storia, che possiamo individuare gli artefici del cambiamento, del rovesciamento della violenza e del paradigma della nonviolenza.

Rosaria Esposito è la Presidentessa dell’Associazione “Maddalena”, da anni attiva nella valorizzazione del contributo che le donne offrono alla vita sociale; ma anche nella denuncia delle pressioni che le donne subiscono nella loro opera di mediazione e promozione. Si tratta di un lavoro che, nei quartieri di Napoli, è reso particolarmente gravoso, soprattutto per le donne, non solo dall’azione dei retaggi della violenza, ma anche dalla presenza di personalità della violenza che ne alimentano i focolai.

L’esempio di Pianura, quartiere occidentale di Napoli, da questo punto di vista è eloquente: nel periodo della mobilitazione popolare contro l’apertura di una nuova discarica nel quartiere (il quartiere con il più alto tasso di abusivismo edilizio d’Italia e dunque segnato da una straordinaria densità di popolazione, pari a oltre 5.000 abitanti per kmq), nel pieno dell’emergenza rifiuti (emergenza che ancora “contamina”, nel senso pieno del termine, il panorama sociale e civile della metropoli partenopea), Pianura era una vera e propria “città in guerra”, presidiata dalle forze dell’ordine, chiusa all’entrata e all’uscita da check-point militari istituiti dalle forze di polizia insieme con l’esercito, attraversata da sobillatori eversivi, camorristi e neo-fascisti, capaci di mettere letteralmente a ferro e fuoco il quartiere (l’immagine – simbolo degli autobus del servizio di trasporto pubblico locale rovesciati e dati alle fiamme ha fatto tristemente il giro del mondo), vandalizzando il territorio, imponendo le serrate ai commercianti, impedendo l’accesso al quartiere dei manifestanti pacifici.

Significativo, in questo dialogo, insieme drammatico e paradossale, a distanza di una generazione, il fatto che Marco Nonno, consigliere comunale di Alleanza Nazionale, tra gli artefici dei fatti criminosi di Pianura, sia il fratello di Ernesto Nonno, all’epoca militante dei NAR e tra gli esecutori materiali, condannato con sentenza definitiva, dell’omicidio di Claudio Miccoli. Le figure della violenza metropolitana trovano dunque terreno fertile, soprattutto in una città “calda” come Napoli, nei corsi e ricorsi delle vicende storiche, non solo nel sedimento profondo della violenza ideologica che ha attraversato la stagione tra gli anni Settanta e Ottanta, ma anche nei presupposti deboli di una struttura carente, vuoi per la frammentazione del tessuto civico, vuoi per l’inconsistenza dell’infra-strutturazione sociale.

Sulle lacerazioni del tessuto della fiducia e della convivenza (che si esprime sia in termini di dialogo civico sia in relazione alle condizioni materiali di esistenza) lavorano dunque gli artefici della violenza e devono lavorare, di conseguenza, gli attori della nonviolenza, con un sistema di reti di solidarietà e di pratiche di relazione che sia più forte della violenza e sia soprattutto capace di sollecitare attivazione da parte dell’intero corpo sociale. Come è noto dalla logica del “Do No Harm”, non esiste programma di trasformazione costruttiva autenticamente efficace che non sia in grado di camminare sulle gambe degli attori locali nella situazione quotidiana.

Ciò che occorre, dunque, è una vera e propria sinergia sociale e istituzionale in grado di mettere “a rete” e “a sistema” le buone pratiche di mediazione, facilitazione e promozione sociale di area nonviolenta, anche attraverso programmi concreti e mirati di difesa civile e di difesa sociale. I termini di “specie” sembrano essere volutamente ambigui. Come ricorda Francesco Santoianni, «l’ambiguità del termine Difesa Civile, inteso come sistema di protezione sia dalle calamità prettamente “naturali” sia da quelle provocate intenzionalmente dall’uomo (sostanzialmente guerra, violenza, terrorismo) si è riproposto in Italia già dal 27 Aprile 1992 con l’Ordine di Servizio n. 1 dell’Ufficio del Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile, poi con tutta una serie di provvedimenti che sono sfociati nell’istituzione, presso il Ministero dell’Interno, del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile».

D’altro canto, se per Difesa Civile si intende la riposta alle minacce interne ed esterne attuata con mezzi, strategie e finalità non militari, allora si fa riferimento alla “Difesa Civile Non Armata e Non Violenta” in quanto difesa civile alternativa a quella militare, secondo quanto disciplinato dalla legge 64/2001, con la definizione del Servizio Civile Nazionale come “alternativa al servizio militare”, mirante “alla difesa della Patria con mezzi ed attività non militari” e confermato dalla storica sentenza 228/2004 della Corte Costituzionale, la quale attesta, nella sezione dedicata ai “considerata in diritto”, che «il dovere di difendere la Patria deve essere letto alla luce del principio di solidarietà espresso nell’art. 2 della Costituzione, le cui virtualità trascendono l’area degli “obblighi normativamente imposti”, chiamando la persona ad agire non solo per imposizione di una autorità, ma anche per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa. In questo contesto, il Servizio Civile tende a proporsi come forma di adempimento del dovere costituzionale di difesa della Patria».

Sotto questo profilo, la difesa civile non è più concepita come un aspetto marginale della difesa dello Stato, di consuetudine affidata alle Forze Armate, e, in via secondaria e complementare rispetto alle opzioni militari, a possibili forme di “difesa non armata”, ma come una vera e propria alternativa alla difesa militare, svincolata da quest’ultima sul piano culturale, gerarchico ed operativo. E’, chiaramente, in questa cornice che rientrano anche i programmi di mediazione comunitaria, civica e territoriale, volti alla inibizione della violenza metropolitana e alla promozione delle relazioni sociali in chiave dinamica, costruttiva e nonviolenta.

L’esempio cui guardare è quello della città di Chelsea, con il precedente lì costituito dal lavoro notevole di Susan Podziba e della sua “Agenzia per la Mediazione Pubblica e la Costruzione del Consenso”. Alla fine degli Anni Ottanta, la città di Chelsea, a nord di Boston, non superiore ai 30 mila abitanti, era “governata” da una classe dirigente corrotta e da un deficit comunale di oltre dieci milioni di dollari (su un bilancio non superiore ai quaranta milioni). La pratica della tangente diffusa, il riparto dei fondi clientelare, l’accesso ai servizi attribuito sulla base di amicizie e corruttele. Uno scenario cui il pubblico statunitense non era e non è altrettanto familiare quanto quello italiano. Commissariata nel 1990, Chelsea nacque a nuova vita quando il commissario federale, Lewis Spence, decise di convocare alcune delle migliori intelligenze nel campo della promozione sociale e della partecipazione civica al “capezzale” della città.

Susan Podziba, indicata come la migliore facilitatrice per riunificare gli attori e ri-organizzare la partecipazione democratica nella “città depressa” (un po’ come sarebbe necessario fare anche nella “città porosa” partenopea), avviò un programma di democrazia partecipativa che si basava su un modello di “costruzione di comunità”: un processo, insieme, di capacitazione, mediazione civica e trasformazione sociale, destinato a cambiare volto alla città. Dal “negoziato basato sugli interessi” all’esplorazione dei problemi condivisi per pervenire a soluzioni possibili di mutuo beneficio, dall’incontro dei rappresentanti delle parti interessate per trovare soluzioni condivise alla formazione di un “capitale sociale” necessario alla costruzione di un’opinione pubblica, fino alla “costruzione pubblica del consenso”, meccanismo-chiave nella mediazione partecipativa delle politiche cittadine.

Come si conviene, dunque, nessun volo pindarico, ma un lavoro certosino basato sulle condizioni di esistenza e i problemi della vita da risolvere insieme. Soprattutto, un lavoro basato sul BATNA, vale a dire la Best Alternative to Negotiate an Agreement – la migliore alternativa disponibile rispetto ad una soluzione negoziata – la quale implica di valutare le “alternative” rispetto ad un accordo con le parti e le rispettive conseguenze.

Come ha scritto Rodolfo Lewanski, l’approccio partecipativo per il superamento della violenza e la risoluzione dei conflitti presuppone «un modello “integrativo” di negoziazione, basato sul presupposto che le parti abbiano più poste da scambiare in base alle differenze di valore che vi attribuiscono: se, nell’ambito di un processo decisionale, le parti coinvolte non attribuiscono la stessa importanza a tutte le “poste in gioco”, allora la chiave dell’approccio integrativo consiste nello sfruttare tali differenze, investigando i reali interessi – piuttosto che le posizioni di principio – di ognuna delle parti e identificando quelli cui ognuna attribuisce maggior valore. In questo modo diventa possibile “confezionare pacchetti” di poste da scambiare stabilendo connessioni tra le diverse questioni e soddisfare così gli interessi essenziali delle parti» valorizzandone le differenze e raccogliendone le istanze (“win-win”).

Pasquale Adamo, esponente storico della nonviolenza partenopea, oggi Presidente della Fondazione “Famiglia di Maria”, parte proprio da questo punto, sollecitato dai contributi di facilitazione. Il livello di degrado della relazione sociale all’interno della città di Napoli è talmente esteso da rendere la città un “patch-work”, un sistema nucleare di mille centri e mille periferie, nel quale, attraverso le pratiche e i modelli della disgregazione sociale, trae alimento la cultura della violenza e della sopraffazione. I temi – chiave della trasformazione positiva della “metropoli violenta” restano dunque quelli delle 3 L: la Libertà, la Legalità e la Legittimità, nel senso che la libertà sta nella legalità e la legalità, a sua volta, abita gli spazi di legittimità che il facilitatore/mediatore è in grado di guadagnare alla sua azione sociale.

A parte la ri-produzione di un modello ovvero l’applicazione di una pratica, vi è dunque una questione di legittimità dell’intervento civile, necessaria per fare sì che l’azione di promozione sociale e di trasformazione nonviolenta non venga percepita, soprattutto a livello popolare, come qualcosa di estraneo, bensì possa trarre il medesimo nutrimento e lo stesso riconoscimento da cui le manifestazioni popolari traggono la loro vitalità e legittimità. L’azione che viene tentata sul territorio della periferia orientale di Napoli (il quartiere di San Giovanni) si basa allora su una serie di misure di relazione: a) l’auto-costituzione in parte legale a difesa del soggetto nell’occasione del suo primo “contatto” con la giustizia penale, b) l’attivazione di momenti di interlocuzione con il soggetto e con il soggetto ed i suoi familiari, nella successione della fase “dissociativa” e della fase “associativa” del lavoro di ri-costruzione sociale, in modo da ampliare la rete di relazioni solidali (secondo uno schema caro alla terminologia di Galtung), c) la realizzazione di luoghi di mediazione ed inter-mediazione non permeabili alle istanze, alle pratiche ed agli attori della violenza metropolitana, a partire dalle forme (micro e macro) criminali.

I modelli di difesa civile e di difesa sociale, esattamente come le strategie di trasformazione del conflitto e di superamento della violenza in ambito metropolitano, presuppongono, d’altro canto, l’azione di un modello “esemplare” che sia in grado di “contaminare” le pratiche degli attori sul territorio. L’esempio positivo serve per introdurre, diffondere e generalizzare le pratiche nonviolente e, in tal senso, può essere utile istituire luoghi in cui proporre la generalizzazione delle prassi positive. Un valido punto di partenza, al di là della casistica dei singoli esempi territoriali, può essere istituito dal modello della cosiddetta positive deviance, ovvero “devianza positiva”, attraverso la quale l’introduzione di una “interruzione” nell’ordine di cose violente può innescare, nel comportamento e nelle pratiche degli attori e delle istituzioni della comunità ospite, un meccanismo a catena che porti alla ripetizione e, in definitiva, alla sedimentazione della pratica positiva incidentalmente introdotta.

La “storia che si ripete” è quella applicata soprattutto nei programmi sociali per la scolarizzazione diffusa, il contrasto alla malnutrizione e la eradicazione della criminalità all’interno delle comunità micro. La lotta contro la malnutrizione dei bambini vietnamiti (che colpiva il 70% dei bambini sotto i tre anni) è iniziata nel 1990, nel periodo dell’embargo statunitense. Il governo vietnamita richiese all’equipe del dott. Jerry Sternin la realizzazione di un programma contro la malnutrizione infantile capace di auto-sostenersi nel tempo. Sternin avviò la “sperimentazione sul campo” di un metodo conosciuto come Positive Deviance, appunto “Devianza Positiva”, sviluppato da Marian Zeitlin e basato sulla scoperta dell’“istanza positiva iterabile”. Per avviare il programma vengono scelti quattro villaggi di circa cento famiglie ciascuno, nel distretto di Quong Xuong, in cui il 70% dei bambini risulta malnutrito, il restante 30% mostra invece un tenore alimentare corretto: in questo 30% “normale”, il 5% (corrispondente a sei famiglie) si segnala per l’uso, da parte della madre, di aggiungere alla dieta quotidiana piccoli gamberi e granchi.

La pratica non è sorprendente, ma non per questo risulta usuale: i piccoli crostacei, sebbene facilmente reperibili, non vengono normalmente usati perché, secondo la tradizione popolare, sono indigesti, forse anche in virtù della convinzione ancestrale per cui mangiare animali che vivono nel fango è ignobile. D’altro canto, la dieta corretta di un bambino non può consistere esclusivamente di riso. La campagna di promozione sociale viene quindi avviata sulla base di tre presupposti: a) insegnare a pescare, cucinare ed integrare nella dieta i crostacei, b) superare tabù, pregiudizi e stereotipi e verificare i successi nel regime alimentare dei bambini devianti, c) sensibilizzare anche altre famiglie della comunità sulla base dell’esempio positivo introdotto fino a renderlo una pratica generale. Le parole – chiave, dunque, tornano a essere quelle del carattere “positivo”, del ruolo “esemplare” e della pratica “auto-sostenibile”.

Nella città di Napoli il problema non è solo quello riferibile alla individuazione degli esempi positivi da proporre, per quanto non manchino luoghi, esperienze ed attivazioni (si pensi alla “Mensa dei Bambini Proletari” dei Quartieri Spagnoli, ai “Nidi di Mamme” di Barra, S. Giovanni e ancora ai Quartieri, al Progetto “Chance” ai Quartieri, a Soccavo e a Ponticelli, Barra e San Giovanni); il problema è anche quello della “non tracciabilità” delle proposte istituzionali, che si perdono nel mare dell’episodico e del frammentario, laddove sarebbero necessarie invece programmazione e organizzazione. Analogamente, dal punto di vista della sedimentazione delle pratiche, le istanze della mediazione sociale e della trasformazione nonviolenta richiedono non solo il consolidamento delle pratiche sul territorio, ma anche l’autorevolezza del mediatore, in quanto agente del trasferimento di pratiche che devono risultare leggibili, riconoscibili e praticabili in territori che hanno storicamente conosciuto solo la gestione violenta, la pratica criminale e l’intermediazione mafiosa.

Un problema specifico nel quadro della programmazione civica per il contrasto alla violenza metropolitana consiste nella impostazione del rapporto tra la “vittima” e il “carnefice”: il punto di partenza deve essere quello dell’accoglienza, solo in uno “step” successivo può intervenire quello della relazione (comunque mediata), dal momento che presuppone un’opera di educazione, tanto della “vittima” all’utilità del perdono e del re-inserimento, quanto del “carnefice” all’umanizzazione del sé e dell’altro da sé e al riconoscimento del primato della giustizia in tutte le direzioni possibili. In questo approccio, riecheggia ancora la lezione di Galtung della facilitazione della relazione e dell’inibizione dell’escalazione violenta attraverso la sequenza di una “fase dissociativa” e di una “fase associativa” dell’azione di ri-composizione sociale.

In conclusione, una riflessione si afferma su tutte: demistificare i “luoghi della violenza” come “luoghi comuni”. Non deve risultare “comune” l’esercizio della violenza nelle pratiche della vita quotidiana, né possono considerarsi “comuni” i luoghi in cui si esercita la violenza come prassi della sopraffazione ordinata ad un qualche fine. Si tratta sempre di luoghi ed istanze di esclusione e segregazione, in cui la vigenza dell’arbitrio del più forte comprime (in alcuni casi, annulla) la possibilità di auto-determinare il sé, l’altro da sé e la relazione. Se una mediazione positiva può istituirsi, essa dunque non potrà prescindere dal riferimento alla comunità e dall’ancoraggio alla nonviolenza quale pratica della solidarietà ed istanza della trasformazione.

Riferimenti Bibliografici

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* Podziba Susan, Chelsea Story: come una cittadina corrotta ha rigenerato la sua democrazia con introduzione: Dal consenso alle cosche al consenso democratico. Una conversazione con Vittorio Foa (di Marianella Sclavi), Edizione Italiana Bruno Mondadori, Milano, 2006;
* Santoianni Francesco, Protezione Civile: Pianificazione e Gestione dell’Emergenza. Guida per gli Operatori di Protezione Civile, Edizioni Noccioli, Firenze, 2003;
* Velardi Claudio (a cura di), La Città Porosa. Conversazioni su Napoli, Cronopio Editore, Napoli, 1992;
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