La donna che canta
La donna che canta, regia di Denis Villeneuve, Canada 2010. Tratto dall’omonima pièce teatrale di Wajdi Mouawad.
Fa male, e fa bene
Questo film fa male, fa soffrire. Qui non parlo della vicenda straordinariamente intricata: la scopra chi va a vederlo o ne vuole leggere una scheda. Sono vite umane sotto i colpi di una guerra, sotto i fendenti dell’odio che squarcia il corpo dell’unica nostra umanità, in un tempo recente, in Medio Oriente. È come un cappio che si stringe attorno al collo, al respiro di quelle persone, e di noi che partecipiamo vedendo.
Fa soffrire come tante storie, di un ieri vicino o lontano, o in corso oggi, in questo momento, mentre noi qui viviamo gli alti e bassi di una vita tutto sommato normale, almeno nel privato; storie che in tanti modi veniamo a conoscere, se non vogliamo girare il capo per non vederle, se non censuriamo le notizie che turbano, per distrarci con le stupidaggini avvelenate.
Fa male, questo film, e fa bene, perché il dolore degli altri, mai assumibile davvero, fino in fondo, è medicina amara per conoscere la nostra umanità. Ed ogni male che avviene è giusto che ci ferisca, perché di tutto siamo tutti in qualche modo responsabili e colpevoli.
Ma non è una storia disperata. C’è il coraggio di chi propone di guardare negli occhi il male umano. C’è la forza profonda della protagonista, che sa cantare stretta tra muri di cemento e di odio, e, coinvolta lei stessa in una ferrea ragnatela di morte, sa uscire dalla vita con un amore silenzioso, più largo e più forte di tutte le offese che la schiacciano ma non la soffocano.
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