Collaborare o non collaborare? La violenza del persecutore e la collaborazione delle vittime

Giorgio Barazza

Sembra inammissibile che gli uomini possano collaborare alla propria alienazione, addirittura alla propria distruzione. Per questo quando Hannah Arendt sostenne che gli ebrei avevano in qualche modo partecipato alla persecuzione di cui erano stati oggetto durante la seconda guerra mondiale, scatenò un’incontenibile indignazione. Nel suo libro su Eichmann, la scrittrice riferisce del significativo turbamento che si impadronì dei giudici, quando fu loro domandato perché alcune opere storiche non fossero state allegate al processo, e in particolare quella di H.G.Adler (Theresienstadt 1941-1945). Il Pubblico Ministero dovette ammettere, un po’ confuso, che effettivamente quell’opera era autentica e si basava su fonti irrefutabili. E allora perché l’omissione? Così commenta la Arendt:

“Il libro spiega con dovizia di particolari come le famigerate “liste di trasporto” fossero compilate dal consiglio ebraico di Theresienstad, conformemente ad alcune istruzioni generali diramate dalle SS riguardo al numero delle persone da spedire, età, sesso, professione, paese di origine. L’accusa avrebbe visto indebolita la propria posizione se fosse stata costretta a riconoscere che la designazione degli individui da mandare a morte era stata, salvo poche eccezioni, lavoro dell’amministrazione ebraica”.

Assumendosi l’incarico che il tribunale di Gerusalemme non aveva saputo assumersi, la Arendt, anch’essa ebrea, rende nota, appoggiandola con prove e testimonianze, l’importanza che i nazisti accordavano al mantenimento di buoni rapporti con le autorità ebree dei paesi occupati. Era una chiave di volta della politica di sterminio, come riconobbe a più riprese Eichmann, nel corso degli interrogatori.

“I funzionari con cui eravamo continuamente in contatto – bene – quasi tutti andavano trattati con i guanti. Non gli davamo ordini per la semplice ragione che sarebbe stato controproducente se ai funzionari principali avessimo detto dovete fare così e così. Se uno fa una cosa malvolentieri tutto il lavoro ne risente… noi facevamo il nostro meglio per rendere ogni cosa più o meno digeribile”.

E con grande stupore dei nazisti, la “soluzione finale” del problema ebraico fu realizzata con sconcertante facilità.

“E’ fuori di dubbio che senza la collaborazione delle vittime ben difficilmente poche migliaia di persone, che per giunta lavoravano quasi tutte a tavolino, avrebbero potuto liquidare molte centinaia di migliaia di altri esseri umani”.

Di fatto i responsabili ebrei non fecero mai nulla per opporsi alle direttive degli occupanti. “Dovunque c’erano ebrei, c’erano capi di ebrei riconosciuti, conclude la Arendt, e questi capi, quasi senza eccezione, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell’altro per una ragione o per un’altra. La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato veramente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione ma le vittime non sarebbero state quasi 6 milioni. La non resistenza incontrata dalla loro politica ebraica è da attribuire anche alla passività delle popolazioni europee non ebree, che tacquero ed avallarono la propaganda tedesca, quando non parteciparono addirittura alla persecuzione.

Come spiegare il fenomeno?

Una delle cause fu senz’altro lo stratagemma machiavellico escogitato dai nazisti: fare partecipare le vittime alla propria autodistruzione. Dappertutto in Europa i nazisti si sforzarono di creare delle “organizzazioni di beneficenza” animate da notabili israeliti che, con la scusa di aiutare gli ebrei, permettevano di controllarli meglio, e in seguito, di arrestarli. Tale fu lo Judenrat (consiglio ebraico) di Varsavia, il cui primo presidente, morì suicida nel luglio 1942, quando comprese che il consiglio ebraico era uno strumento della macchina dello sterminio. Tali furono lo Joodshe Raad olandese e l’Association des Juifs belga. In Francia, dopo lunghi negoziati, cui parteciparono dirigenti ebrei e nazisti, nacque l’Union Générale des Israélites de France (UGIF), creata nel 1941. Questi dirigenti ebrei pensavano che la collaborazione con i nazisti fosse il male minore. “Praticamente, nulla era ignoto ai dirigenti dell’UGIF degli avvenimenti tragici che si stavano verificando, ma stavano al gioco, pensando ogni volta che ci fosse ancora qualcosa da salvare, e che la loro presenza evitasse il peggio

Dopo molti anni dalla fine della seconda guerra mondiale, cominciamo ad avere una idea più corretta di quanto realmente avvenne. Libri e films contribuiscono a chiarire l’importanza del collaborazionismo dei popoli con l’occupante tedesco.

Non si intende minimizzare la responsabilità del persecutore, ma prendere coscienza della corresponsabilità delle vittime. La violenza del persecutore e la collaborazione attiva o passiva, volontaria o forzata. delle vittime sono le due componenti fondamentali di una situazione di dominio.

Già Etienne de la Boetie, amico di Montaigne, nel “discorso sulla servitù volontaria” scriveva

”Vorrei … riuscire a comprendere come mai tanti uomini, villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data”.

Queste analisi del potere e della violenza difficilmente trovano seguaci. Ci costruiamo una idea sbagliata della violenza e dei mezzi per resisterle perché portiamo con noi una immagine falsata dei rapporti tra il tiranno e gli schiavi. Bisogna abbandonare una volta per tutte il manicheismo fatalista e fallace dell’impotenza della vittima e dell’onnipotenza del padrone.

In realtà la sottomissione degli uomini non dipende soltanto dalla violenza di cui sono oggetto, ma anche dall’obbedienza che sono disposti a rendere, mentre sarebbe possibile una strategia di resistenza consistente nel rifiuto di obbedire, di collaborare.

Per immaginare l’efficacia potenziale della non-collaborazione basta pensare all’efficacia reale della collaborazione

Jacques Semelin, Per uscire dalla violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985, pag 79-84.

Scheda a cura di Giorgio Barazza

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