Con i soldi degli altri – Giuseppe Fumarco

Liberamente tratto da: Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009

Premesse

Benché la produttività agricola, industriale e terziaria si sia enormemente sviluppata negli ultimi decenni grazie all’incredibile evoluzione della sempre più integrata “tecno-scienza”; e benché si siano enormemente sviluppate le conoscenze in generale (sia in profondità, nelle singole discipline scientifiche, che in estensione quantitativa, per il continuo aumento dei tassi di scolarità nei diversi paesi del mondo) l’economia-mondo affronta in questo nuovo millennio incredibili patologie che concernono sia lo stato di salute dell’ambiente (le cui ‘risorse’ sono il “capitale naturale” su cui poggia lo sviluppo economico e che si stanno sempre più assottigliando), sia quello delle società, nelle quali è cresciuto a dismisura, specie negli ultimi decenni, il tasso della diseguaglianza. Queste due patologie sono intrecciate tra loro.

“Lo stato precario dei tre quarti della popolazione mondiale (p.m.) è correlato alle immense diseguaglianze di reddito e di ricchezza che si osservano a livello internazionale… Si stima che la diseguaglianza tra il 20% più benestante e il 20% più povero della p.m. sia di 90 a 1. Se invece degli strati della popolazione si considerano i 20 paesi più ricchi e 20 più poveri, la diseguaglianza sale a 120 a 1….. Anche entro i paesi con il PIL pro capite medio più alto (paesi ricchi) le differenze di reddito e ricchezza tra il 10% più ricco e il 10 % più povero sono cospicue e crescenti. Se negli anni ’60 occorrevano 40 anni a un salariato medio ‘euro-americano’ per arrivare a guadagnare quanto un top manager, nel 2008 occorrevano tra i 400 e 1000 anni…”

Simili dati, un campione rispetto a quelli disponibili, attestano che quanto a capacità di provvedere alla sussistenza umana l’economia-mondo ha fatto registrare negli ultimi trent’anni una serie ci cospicui fallimenti”…”Simili fallimenti sono riconducibili principalmente a due sviluppi correlati:

  1. la completa de-regolamentazione dei movimenti di capitale, dei mercati finanziari e dell’ambito di attività delle banche (partita dagli USA a metà degli anni ‘70 e adottata nei paesi U.E. negli anni ’80) e, in conseguenza di ciò:
  2. l’esistenza di una massa enorme di risparmio, equivalente all’incirca al PIL del mondo [1], che viene al presente gestita senza alcun controllo di merito né senza alcuna valutazione di responsabilità, da Enti finanziari quali: “fondi pensione”, “fondi di investimento”, “compagnie di assicurazione”, più svariati tipi di “fondi speculativi”. Enti accanto e dietro molti dei quali (nel senso che loro stesse li hanno istituiti) operano le banche più importanti dei maggiori paesi sviluppati nordamericani ed europei.

Risparmio di tutti, gestione di pochi (gli “investitori istituzionali”)

Gliinvestitori istituzionalisono società di intermediazione finanziaria che raccolgono i fondi dei risparmiatori del mondo per farli ‘fruttare’ investendoli prevalentemente nelle imprese quotate in borsa. Tra di essi troviamo i gestori di:

  • fondi pensione autonomi” (ancora poco noti in Italia ma molto diffusi in USA e Nord Europa) aventi quali sottoscrittori dipendenti pubblici e privati;
  • fondi comuni di investimento” (o “fondi aperti”), accessibili a tutti i risparmiatori;
  • risparmi ’investiti’ presso le compagnie di assicurazione in contratti previdenziali e vitalizi;
  • fondi di copertura del rischio” (hedge funds), a vocazione marcatamente speculativa (accessibili solo a sottoscrittori che possono investire milioni di euro).

Una nota a parte richiedono due ultime tipologie di fondi, non direttamente legati agli investitori istituzionali sunnominati:

  • i “fondi sovrani”, costituiti direttamente dai governi con capitali che possono provenire tanto dall’eccedenza degli scambi commerciali e monetari (è il caso della Cina), quanto dal petrolio (Emirati Arabi, Arabia Saudita, Norvegia);
  • fondi” gestiti dalle Fondazioni (dizione generica per designare una varietà di enti che amministrano donazioni, dotazioni, lasciti, fondi fiduciari, ecc).

Oltre a questa gamma già abbastanza ampia di ‘strumenti finanziari’ vanno aggiunti i cosiddetti “fondi derivati” (prevalentemente ‘inventati’ dopo il 2000: ‘futures’ e altro..) che, come suggerisce la dizione, ‘derivano’ dalla costruzione di fondi basata su altri fondi, spesso strutturati su debiti contratti nel mercato dei mutui immobiliari e/o nei mercati finanziari più in generale.

Un vero e proprio castello di ‘carta-moneta’ (per Warren Buffet, uno dei maggiori finanzieri del mondo, i ‘derivati’ sono “gli equivalenti finanziari delle armi di distruzione di massa”) di estrema pericolosità per l’equilibrio finanziario generale, come ‘poi’ si è visto molto bene.

Un buon numero dei fondi dell’elenco sopra riportato sono stati costituiti da banche commerciali, banche d’affari e società assicuratrici [2] e da esse vengono controllati anche quando abbiano uno statuto giuridico autonomo. La caratteristica dei modi di agire di tutti questi vecchi e nuovi “investitori” è stata negli ultimi decenni – e in modo marcato dagli anni ’90 in poi – la “ricerca esasperata della massima redditività dei capitali a loro affidati, spinta in tutte le direzioni, e con l’uso di strumenti finanziari sempre più sofisticati…” (i fondi acquistano, oltre ad azioni, anche derivati comuni e derivati finanziari complessi, obbligazioni nazionali e internazionali, immobili e divise).

Tutto queste insieme di pratiche finanziarie ha portato a una sempre maggior commistione tra banche di ogni genere, compagnie di assicurazioni e fondi, e a una sempre maggiore opacità nei confronti della massa dei risparmiatori delle loro operazioni sul mercato borsistico

Si tenga presente che negli anni di queste rilevazioni (2007/2008) fino all’80% dei titoli scambiati giornalmente sulle borse mondiali è da attribuire agli investitori istituzionali (si noti anche che dal 30% al 50 % degli scambi è imputabile ai soli fondi speculativi).

Le fonti del risparmio che alimenta il mercato dei ‘fondi’ sono principalmente due:
1. da un lato centinaia di milioni di piccoli risparmiatori del mondo che contribuiscono per l’80% del capitale affidato a questi Enti (gli I.I., Investitori Istituzionali);

2. dall’altro lato un milione di individui ricchi o molto ricchi (ad alto o altissimo “valore netto”, come si usa dire sulle riviste specializzate in queste inchieste). Ciascuno di questi individui versa (in prevalenza ai fondi speculativi [3]) quote di partecipazione dell’ordine di milioni di dollari o di euro al solo scopo di accrescere quanto più possibile la ricchezza che già detengono.

A queste due prime categorie di sottoscrittori si aggiungono imprese, banche, e anche amministrazioni territoriali. Un’unica circostanza unifica, secondo Gallino, questi diversi soggetti:

Piccoli risparmiatori e super-ricchi condividono la sorte di non contare nulla nella gestione del capitale affidato agli investitori..; il risultato ultimo è di aver attribuito agli I.I. la capacità di controllare in piena autonomia un capitale accumulato con dimensioni prossime al Pil del mondo”.

Gli I.I. sono concentrati sia territorialmente (i primi 4 paesi di ‘adozione’ sono: Lussemburgo, USA, Francia e Corea del Sud), sia come concentrazione numerica: “La variegata moltitudine dei fondi di investimento è sovrastata in realtà dalla fortezza solitaria delle maggiori banche e compagnie di assicurazione”. Tutto questo ha già creato una situazione nella quale gli I.I. sono diventati i veri padroni delle imprese quotate in borsa in quasi tutti i settori dell’economia reale. Sono loro i nuovi “proprietari universali”: direttori e manager di questa potentissima frazione del ceto capitalistico internazionale sono stimati dall’Autore in una cifra che si colloca tra le 20.000 e 40.000 persone, e, se sommiamo ad essi i direttori e manager delle principali banche e compagnie di assicurazione mondiali perveniamo ad un totale tra le 60.000 e le 120.000 persone in tutto il mondo.

La ristretta frazione dei manager degli I.I., che fruisce della piena collaborazione dei manager delle imprese quotate, muove liberamente da una parte all’altra del mondo decine di trilioni di dollari ed euro, senza in realtà rispondere a nessun portatore di interesse; mai tanto potere economico è stato concentrato, per vie legali e istituzionali, nelle mani di così pochi individui come sono i ‘capitalisti per procura’”. Le conseguenze delle loro operazioni ‘finanziarie’ nell’economia reale possono essere – e di fatto spesso sono – dannose sia per ampi strati della popolazione mondiale, sia per l’ambiente; e dissociate, in ogni caso, dalle effettive necessità di investimento dell’economia-mondo.

Strategie di investimento e progressiva finanziarizzazione delle imprese

L’Autore si concentra quindi su ‘come’ , con ‘quali criteri’ e ‘da chi’ vengano decise le strategie di investimento dei fondi. Scopriamo in prima battuta che non è l’insieme dei facenti parte dei “Consigli di Amministrazione” dei fondi a prendere le decisioni: “In grandissima parte i consiglieri degli enti investitori non dispongono del tempo, e sovente nemmeno delle competenze tecniche, che sarebbero necessari per scegliere criticamente le strategie di investimento da porre in essere”. Costoro si rivolgono di fatto ad altri soggetti, quali: il consulente per gli investimenti; il manager finanziario (money manager), l’agente che esegue materialmente le operazioni di borsa (dealer o broker). Ognuno di questi ‘professionisti’ ha obiettivi differenziati, nessuno dei quali fa riferimento all’economia reale: il consulente pensa all’onorario che gli sarà versato; il manager alle plusvalenze; l’agente alle commissione di borsa, ecc…mentre – come già sottolineato – i risparmiatori hanno sul corso dell’intero processo un peso insignificante.

Tutti costoro non esitano a far pressioni sui ‘top manager’ che dirigono le imprese dell’economia reale per massimizzare nel più breve tempo possibile gli investimenti finanziari potenziali o in atto; per corrispondere a tali ‘desiderata’ i manager (che dirigono concretamente le imprese multinazionali) a loro volta ricorrono senza esitazioni a fusioni, acquisizioni amichevoli o ostili, ristrutturazioni organizzative, vendita di singole parti di un’impresa, ecc., ”tutti questi sono strumenti ampiamente utilizzati dagli investitori istituzionali per accrescere la capitalizzazione di mercato delle imprese ed il loro rendimento finanziario in termini di dividendi, interessi e plusvalenze”.

Inutile sottolineare come in genere tutte queste operazioni includano tagli più e meno consistenti del personale, se non l’intera liquidazione di comparti operativi con conseguenti licenziamenti in massa e/o messa in cassa integrazione della manodopera. L’incremento del tasso di disoccupazione dell’economia reale non li preoccupa certo più di tanto, e comunque non è nell’orizzonte prioritario delle loro strategie di investimento.

Anche le tanto sbandierate iniziative di “finanza responsabile e sostenibile” [4], sponsorizzate dall’ONU e dalla Banca Mondiale, hanno subito dimostrato il loro fiato corto; come rileva l’Unep Finance Initiative “I 150 trilioni di patrimoni finanziari globali, e i 50 trilioni di attivi detenuti nei mercato dei capitali come parte di quella cifra, in misura massiccia non valutano, apprezzano o integrano (nelle loro strategie di investimento, N.d.E.) i temi ambientali, sociali e di governance (in sigla ASG)”. Esattamente così come era successo negli anni ’90 con la conclamata “Qualità Totale (Total Quality Management) e i tanto sbandierati “Codici Etici”. Effetti vetrina, puro restyling e maquillage per farsi belli e coprire il senso reale delle proprie attività: fare denaro a mezzo di denaro.

L’impresa finanziarizzata

La creazione di denaro per mezzo di denaro [5] ha fatto premio sugli investimenti produttivi di cui il mondo avrebbe avuto bisogno. Questo insieme di azioni irresponsabili è stato compiuto da un gran numero di attori finanziari, ivi compresi gli I.I. Dopo un’analisi della filosofia dei ‘derivati’, della Finanza Alternativa e della Finanza Ombra, troppo tecnica per essere riportata qui per esteso, l’Autore conclude: “Al fine di porre rimedio ai fallimenti che l’affliggono, l’economia reale del mondo avrebbe bisogno di altri criteri, altre misure e forse altri soggetti della creazione di denaro, pubblicamente più responsabili”. Una posizione forte, se si considera ad esempio che assai pochi sono oggi, a destra come a sinistra, quelli che pensano debba e possa mettersi in discussione il ruolo delle Banche Centrali.

Ma intanto il processo di finanziarizzazione del capitalismo globale è andato avanti.

Leggendo le analisi della stampa economica specializzata internazionale si constata che è nel decennio 1992-2002 che abbiamo assistito all’irresistibile ascesa di questi nuovi “attori economici globali”; le imprese contemporanee sono state totalmente assoggettate, nel loro insieme e nei loro gangli più intimi, ai dettami dell’economia finanziaria [6]. Si è passati – sempre secondo l’Autore – dalla concezione di impresa come crocevia di “interessi multipli” (quelli degli stakeholders, i “portatori di interessi”, dai dirigenti ai dipendenti, dagli azionisti alle comunità locali, dai fornitori agli enti pubblici, ecc…) alla concezione dell’impresa come mera “rete di contratti” (per approfondimenti vedi sempre in Gallino, op. cit. in nota [6]).

Qualunque sia la posizione che si intende assumere tra il concetto di impresa/istituzione e quello di impresa come rete di contratti, fatto si è che l’ascesa al potere degli I.I. è stata accompagnata e favorita dalla visione contrattualistica, che di fatto deresponsabilizza l’agire imprenditoriale, asserendo che è il “Mercato” ad allocare ottimalmente le risorse Capitale e Lavoro tra le diverse imprese in base al loro rendimento massimo possibile in un dato ‘momento’. La sola cosa che conta per l’azionista (azionista de-responsabilizzato, si noti bene, sia che faccia parte del “pacchetto azionario di comando”, sia che faccia parte del “parco-buoi”, N.d.E) è il valore di mercato dell’impresa indicato dal corso attuale delle azioni quotate in borsa. Parimenti irrilevanti sono i criteri che un tempo erano privilegiati come indici del successo di un’impresa, tipo la dimensione raggiunta, il fatturato, il numero di dipendenti, la leadership tecnologica, la posizione sul mercato.

Gli I.I. hanno avuto un ruolo determinate nello spingere i manager ad adottare sia il paradigma ‘contrattualistico’ che la concezione ‘accidentale’ dell’impresa stessa”.

Se è pur vero che alcuni tipi di fondi (ad esempio fondi pensione e fondi comuni) hanno percentuali di partecipazioni nelle società apparentemente non di controllo (2-3% del capitale della società), nelle grandi corporation tali percentuali equivalgono a pacchetti azionari di centinaia di milioni di euro, ed “è sufficiente l’accordo di una decina di investitori per avanzare ai manager proposte che questi non possono rifiutare”. Attenzione: le maggiori banche e le maggiori società di investimento controllano in questo modo ciascuna anche centinaia di fondi; dispongono di informazioni privilegiate sui mercati finanziari; hanno molti contatti tra loro, ecc.. per cui “nessuna società nel cui capitale essi siano largamente presenti può permettersi di ignorarli”. Gli I.I. pretendono rendimenti minimi intorno al 15%, e ciò in anni in cui i Pil delle nazioni occidentali crescono al massimo il 2% all’anno, o poco più (per come siano riusciti in questa sorta di “miracolo finanziario” rinviamo il lettore al 4° capitolo del volume dell’Autore qui recensito).

Comunque è evidente che quel che è stato speso per finanziare la propria crescita al di sopra del consentito da parte dell’economia reale, ha avuti pesanti effetti di ricaduta sulle altre variabili socio-economiche generali:

  1. accantonamento o rinvio delle spese in “Ricerca &Sviluppo”;
  2. riduzione del numero dei dipendenti, incremento usurante dei fattori della produttività pro-capite e precarizzazione di tutti i nuovi contratti di lavoro;
  3. esercizio di continue pressioni politiche sul sindacato ai fini di ottenere la cosiddetta “moderazione salariale”;
  4. chiusura di unità produttive, ovunque siano collocate nel mondo, il cui rendimento risulti inferiore a unità analoghe di società concorrenti [7] (è questo il paradigma della “lean society” sulla base del motto: “distribuisci dividenti e snellisci”).

Un altro sviluppo che comprova l’esasperata finanziarizzazione dell’impresa, quale che sia la sua ‘missione’ produttiva, è stata la tendenza a creare divisioni specializzate in attività finanziarie all’interno dei grandi gruppi industriali: “Se constata che offrire carte di credito o stabilimenti in leasing rende più che produrre auto, il costruttore d’auto, sospinto e incentivato dai suoi ‘investitori’, effettuerà maggiori investimenti nelle sue divisioni finanziarie che non nella progettazione di motori a basso impatto ecologico. E’ esattamente quanto è avvenuto”.

La nuova Classe Capitalistica Transnazionale (C.C.T.)

Si è molto parlato di “globalizzazione selvaggia”, così come troppo spesso si fa riferimento a presunti “processi automatici del mercato”. In realtà l’economia ‘finanziarizzata’ è stata governata da “individui concreti che hanno strutturato e pilotato abilmente i mercati in direzione delle particolari finalità delle organizzazioni che dirigono…Siamo in presenza di una classe capitalistica transnazionale [8] i cui membri risiedono a Londra e a Washington, Berlino e Mosca, Shangai e Nuova Delhi, ecc..” (il cosiddetto partito di ‘Davos’, dal luogo in cui spesso tali signori si riuniscono per le loro “convention”).

Si tratta – in termini generali – dei “nuovi capitalisti”, di una nuova e inedita “classe globale” in cui si collocano:

a) i super ricchi, quei 1100 individui aventi un patrimonio personale compreso tra i 60 miliardi di dollari del primo della lista e 1 miliardo di dollari del centinaio al fondo della medesima; in totale costoro posseggono l’equivalente in valore di metà Pil USA (fonte “Forbes”, 2007);

b) a questi dobbiamo aggiungere il nuovo ceto capitalistico emergente degli investitori istituzionali (banchieri e fund managers) che gestiscono una cifra equivalente al Pil mondiale; sono classificabili tra i “super ricchi”, sia per gli emolumenti percepiti che per l’enorme potere di utilizzo del risparmio pubblico (avente origine nelle singole nazioni), e di cui dispongono in (quasi) totale autonomia. Il totale del capitale azionario detenuto dagli investitori istituzionali si avvicina alla metà di quello esistente al mondo;

c) in terzo luogo non possiamo dimenticare i managers delle grandi società (gli A.d., cioè gli Amministratori delegati) che sono generalmente reclutati dalla classe dei super-ricchi. Sono i capitalisti al vertice delle grandi imprese multinazionali (corporation) e sono tali, molto spesso, per discendenza generazionale e/o per cooptazione tra i membri della classe dei ricchi e dei super ricchi ( e, molto più raramente, nella classe degli aventi redditi e patrimoni medio-alti).

Per una classificazione della C.C.T.

Nel tentativo di precisare meglio e, soprattutto, di quantificare gli individui che tirano le fila dell’economia globale, Gallino procede successivamente ad una riclassificazione della “classe capitalistica transnazionale” (classe di capitalisti senza confini nazionali) scomponendola in quattro gruppi e/o frazioni principali:

1. individui che dispongono di attivi finanziari [9] cospicui (da 1 milione di dollari a testa in su) e puntano a farli crescere mediante qualunque tipo di investimento. Al 2007 si contavano nel mondo 10,1 milioni di individui di questa classe. Sono definiti anche individui “ad alto valore netto”. Questi “super ricchi” risiedono prevalentemente in Nord America ed Europa, ma anche in Asia sud orientale e nei “paesi emergenti” (Medio Oriente, e, in pochi, in America Latina e Africa…);

2. esponenti del capitalismo familiare che posseggono i “pacchetti azionari di controllo” di grandi imprese. Sebbene il capitalismo familiare venga regolarmente dato per morto o superato, in realtà esso è più vivo e potente che mai. Giungere a una stima dei componenti attivi del capitalismo familiare è un’impresa improba. E’ plausibile supporre che la totalità di essi rientri tra i ricchi e i super ricchi;

3. una terza frazione della classe capitalistica transnazionale è formata dagli alti dirigenti assunti dagli “azionisti di controllo” per governare le maggiori corporation: presidenti, amministratori delegati, direttori generali, ecc.. Dato che sono reclutati e possono essere licenziati dai “capitalisti in proprio” di cui al punto (2), costoro vengono anche definiti “capitalisti che lavorano”, o “lavoratori ricchi”. Per una stima del loro numero l’Autore si rifà a studi Onu sulle corporation presenti al mondo ai fini di stabilire una semplice equazione: “tot corporation = tot dirigenti”. Tirando le fila, le 78.000 transnazionali stimate dall’ONU hanno presumibilmente circa 1 milione di top manager, presidenti e A.d. inclusi, che lavorano a tempo pieno. Sommando manager e consiglieri delle maggiori società che fanno capo a esse, in totale questa frazione di classe potrebbe avere intorno ai 3 milioni di membri;

4. stimando in 60.000/120.000 il numero di consiglieri e dei dirigenti degli investitori istituzionali (cfr. sopra), banche incluse, che occupano i primi posti in graduatoria per capitale gestito, con ulteriori passaggi (ad es. sommando il numero dei consiglieri e degli amministratori che gestiscono i fondi ‘minori’…) l’Autore perviene infine ad una stima di 500.000/600.000 persone. Una frazione modesta rispetto ai molti milioni di ricchi, super ricchi e managers, “tuttavia essa (la classe transnazionale dei ‘fund managers’, N.d.E.) gestisce un capitale corrispondente ad almeno un terzo del capitale posseduto o amministrato in totale dalle altre due”. Se, per curiosità, si prova a sommare le quattro sottoclassi, o frazioni della classe capitalistica transnazionale, si arriva a un totale di 13/14 milioni di persone (quanto gli abitanti di una grande metropoli) che tirano le fila dell’economia del mondo.

Le élites del potere

Ma, al di fuori del settore strettamente economico, quale è la situazione della classe che gestisce il potere?

Osserva Gallino che negli studi sociologici della classe definibile come “élite del potere”, “classe dirigente”, o “classe dominante”, viene di solito ricompreso in essa anche il personale politico e intellettuale. Eccone un breve elenco: membri del governo; parlamentari; alti funzionari della pubblica amministrazione; gradi superiori delle forze armate; dirigenti di organizzazioni internazionali; accademici di ‘alto rango’; titolari di grandi uffici legali; esperti in Pr (public relations), comunicazione e immagine; responsabili di Centri Studi e pensatoi del tipo ‘think tanks’ (supportati dai mezzi di importanti Fondazioni); direttori di quotidiani e reti TV; opinionisti di primo piano degli uni e delle altre; esperti di pubblicità; lobbysti vari; ecc….

Rispetto ai poteri economici l’Autore sottolinea come in alcuni paesi (e segnatamente negli USA) “queste élite transitino con facilità e in gran numero da un ambito all’altro”.

Accennando alla questione marxiana della differenza tra la classe “in sé” e la classe “per sé” [10] Gallino sostiene che “L’evidenza disponibile risulta in maniera debordante a favore dell’ipotesi che la classe capitalistica transnazionale sia ‘per sé’, non meno che ‘in sé’, una realtà materialmente e ideologicamente operativa su scala globale”. Anche dal punto di vista delle competenze linguistiche e culturali che la rende adatta a muoversi con disinvoltura sugli scenari internazionali, la nuova classe economica globale è quella che più di ogni altra (sicuramente di più della classe politica, per non parlare del ceto sindacale..) è già dotata “di paradigmi di riferimento, modelli organizzativi, forme della divisione internazionale della produzione, codici linguistici e comportamentali che sono nella sostanza identici in tutto il mondo…; ne deriva che il manager il quale venga trasferito da Milano a Shangai, o da Phoenix a Madrid, quanto ai ‘fondamentali’ non ha niente da imparare…”Questo processo di transnazionalizzazione ha contribuito a diffondere tra centinaia di migliaia di manager la consapevolezza di appartenere a un’unica classe (la classe ‘per sé’ di marxiana memoria, N.d.E.)”.

Come governare il futuro?

Senza entrare nel merito delle proposte tecnico-finanziarie con cui l’Autore propone di fatto un ”ritorno ragionato al passato” del governo del sistema bancario e finanziario globali (inclusa una riflessione, che andrebbe svolta, sulla attualità di Keynes per ciò che attiene la gestione della spesa pubblica, del welfare state, e di altro ancora…) ciò che appare evidente, e oggetto di denuncia alla fine del testo, sono i due aspetti più paradossali e inaccettabili dell’attuale modello di sviluppo. Sempre secondo l’Autore:

1. l’impronta umana sul pianeta Terra di un popolazione che sta ‘allegramente’ viaggiando verso i 7 miliardi di individui, unitamente alla logica capitalista che conosce solo la crescita quantitativa e non può nemmeno tollerare un ‘ristagno’ dell’economia (quando occorrerebbe oramai una qualche forma di ‘decrescita’), rendono insostenibile tale modello oramai anche nel breve periodo;

2. accanto a quella ecologica esistono però altri tipi di insostenibilità.

Citando M. Horkeimer (scuola di Francoforte) Gallino evidenzia l’uso distorto della “razionalità strumentale” e sottolinea come “non appare sostenibile il tipo di essere umano, ovvero di personalità e carattere, che l’economia contemporanea è orientata a produrre”. Il lavoro mercificato, le tecnologie usate contro l’intelligenza, l’introiezione dell’obbligo di consumare, ecc..”atrofizzano il seme stesso della personalità”. La precarizzazione del lavoro, l’uso distorto delle stesse potenzialità dell’onnipresente informatica, la trasformazione di homo faber in homo consumens (adulti infantilizzati e bambini precocemente adulti, come dice Bauman), ecc..fanno dire all’Autore (che cita a sua volta un ex presidente della Banca Mondiale) ”In un mondo del genere la civiltà è giunta alla fine….Bisogna ammetterlo: abbiamo costruito, tutti insieme, un mondo ferocemente iniquo”. L’Autore conclude con l’idea, semi-ottimistica, che la gravità della crisi finanziaria del ‘2008 ‘potrebbe’ essere l’occasione (che non andrebbe sprecata) di un ripensamento per molti conservatori ed economisti neoliberali. Come sempre, la speranza – aggiungiamo noi – è l’ultima a morire.

NOTE

Legenda: N.d.A., nota dell’autore (L. Gallino); N.d.E, nota dell’estensore (G. Fumarco).

1. Il PIL del mondo ha superato, a fine 2007, i 54 trilioni di dollari americani (il trilione corrisponde a 1000 miliardi).

2. La deregolamentazione dei mercati finanziari si fonda su due innovazioni legislative ben precise: la prima è la de-regolazione dei movimenti dei capitali operata dal ’74 in poi tra tutti i paesi OCSE; la seconda è quella che ha fatto cadere la distinzione tra banche commerciali o di deposito e banche d’affari o di investimento, distinzione introdotta negli anni ’30 proprio dopo la crisi finanziaria e borsistica del ’29.

3. La partecipazione ai fondi speculativi attrae perché, sebbene presenti rischi elevati, nel caso di successo remunera con rendimenti elevatissimi, superiori al 20% annuo.

4. Nel 2005 i rappresentanti dei 20 maggiori investitori del mondo stilavano la Carta dei P.R.I. (Principi dell’Investimento Responsabile), varata poi a Boston nel 2006. Gli aderenti alla Carta P.R.I. avrebbero teoricamente dovuto attenersi a principi di responsabilità ambientale e sociale, nel senso che la concessione dei prestiti alle imprese doveva sottostare a regole del tipo “valutazioni di impatto ambientale”, il “rispetto dei diritti e della cultura delle popolazioni interessate dagli investimenti”, ecc… Il tutto si è dimostrato invece essere un’iniziativa di marketing e di maquillage dell’immagine (effetto vetrina).

5. In un’ampia disanima del concetto di ‘denaro’ Gallino ci ricorda che la moneta (il ‘contante’, i ‘liquidi’, ‘cartacei’ e/o ‘metallici’ essi siano..) costituisce al giorno d’oggi solo una piccola frazione del totale del ”denaro” (inteso come potere d’acquisto e di scambio e come mezzo per conservare la ricchezza): non più del 3% del totale! Il restante 97% è denaro simbolico, ‘scritturale’ (scritto su di un Registro) “esiste soltanto come numero scritto, senza alcun titolo o documento che ne comprovi l’origine o l’esistenza in vita…; nell’era dell’elettronica e dell’informatica il denaro ha in seguito perso anche quest’ultima connotazione…è diventato una serie di bit”. Oggi si parla infatti di immaterialità digitale del denaro, o immaterialità elettronica.

Anche dal punto di vista istituzionale non è più la Banca Centrale delle singole nazioni – o quelle sovranazionali come la BCE – a produrre la maggior parte del denaro: tali istituzioni ‘pubbliche’ si limitano a produrre quella minima frazione di cui abbiamo detto sopra. In concreto oltre il 90% del denaro che circola nell’economia è creato da banche private con il sistema della moltiplicazione del circolante attraverso il credito: le banche private sono inoltre proprietarie delle Banche Centrali, con una strana e pericolosa commistione tra organi vigilanti e banche solo teoricamente vigilate.

6. Cfr. L. Gallino “L’impresa irresponsabile”, Einaudi, Torino 2005.

7. E’ esattamente sulla base di quest’ultimo meccanismo che si è avviato e continua ininterrottamente a procedere su scala globale quel processo di de-territorializzazione e de-localizzazione degli impianti dai paesi sviluppati a quelli cosiddetti in via di sviluppo; e ciò fino a quando le pretese sindacali, ambientali e sociali di quei paesi resteranno inferiori a quelle del paese da cui la multinazionale è ‘sfuggita’.

8. “Classe capitalistica transnazionale” è un’espressione coniata dal sociologo L. Klair della “London School of Economics”.

9. Il concetto di “attivo finanziario” esclude la proprietà di beni reali quali residenze, abitazioni, auto, aerei, imbarcazioni, collezioni d’arte e simili; si tratta quindi ‘solo’ degli strumenti monetari (liquidi inclusi) e finanziari delle tipologie più svariate.

10. Marx definiva la “classe in sé” la classe sociale oggettivamente tale, al di là di ogni consapevolezza soggettiva dei suoi membri di farne parte; la “classe per sé” è invece una classe i cui membri sono consapevoli di farne parte e si comportano di conseguenza.

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