Bori su Tolstoj: Non resistere al male


Presentiamo qualche appunto dalla lezione di Pier Cesare Bori, e dalla discussione seguitane, il 10 novembre 2010, nel centenario della morte di Lev Tolstoj, avvenuta il 7 novembre 1910, in un incontro organizzato dal Centro Studi Sereno Regis. Bori ha esposto colloquialmente un testo che in seguito pubblicherà.

«Invece della morte c’era la luce». «È finita la morte. Non c’è più». Questa conclusione del grande racconto La morte di Ivan Il’ic (1886), analoga in vari altri racconti, è tipica del pensiero di Lev Tolstoj (1828-1910). Famoso come romanziere in tutto il mondo, a cinquant’anni si converte ad un cristianesimo critico. Nel racconto citato c’è la teoria di Tolstoj sulla vita, ma in termini narrativi, e non teorici. Il migliore Tolstoj è quando narra il suo pensiero, che espone anche in vari noti scritti religiosi e morali dopo la conversione.

Per comprendere la vita dobbiamo partire da noi stessi. Conosciamo noi stessi, e meno il resto. Qui c’è una polemica contro il positivismo, che riduceva tutto all’inorganico. Invece, è centrale la vita.

Ma dentro di noi troviamo una grande contraddizione: c’è la tensione al bene – che non è tanto il bene morale, quanto la pienezza di vita, la felicità, la non-morte –, ma c’è anche l’immensa intollerabile frustrazione della sofferenza e della morte. La mia vita passa, mentre rimane la realtà fuori di me.

Si può uscire dalla contraddizione con il «risveglio della coscienza razionale». Prima di questa coscienza «non c’è stata nessuna vita». Per alcuni biologi, oggi, la vita comincia con la consapevolezza. Sembra che ci siano costanti dell’universo perfettamente destinate alla vita.

Qui «razionale» non significa razionalistico. Tolstoj trae il termine dal libro biblico della Sapienza: una conoscenza sapienziale superiore, una saggezza di vita. La vera vita è qui, non è nello spazio-tempo. «In principio era la Sapienza»: così Tolstoj intende il Logos giovanneo.

Questa consapevolezza si raggiunge con la sottomissione della nostra psiche (l’anima, la vita animale) alla sapienza, al livello superiore di coscienza, che è vita in comune con gli altri esseri di ragione.

Non si tratta di una fede, al di là della ragione. Non occorre pregare, perché Dio sa cosa è bene per ciascuno. Ma poi Tolstoj scrive qualche preghiera.

È piuttosto uno spostamento vitale di tutto il nostro essere, quindi un fare, un attuare la legge dell’amore: amare gli altri più di te stesso, per essere vivo. È menzogna che l’egoismo sia la legge della vita. Solo facendo si capisce questa legge profonda della vita. La liberazione pratica dall’attaccamento a sé stessi permette la conoscenza di questa verità.

Quella legge di vita consiste in cinque precetti: non offendere; non praticare disordine sessuale; non giurare (sarebbe disporre del proprio futuro, e legarsi all’autorità pubblica); non lottare contro il male con il male; amare i nemici (contro ogni nazionalismo).

Tolstoj vede il centro della sua fede nella parola evangelica di Matteo 5,39: «Non opponete resistenza al male». Si tratta di non farsi coinvolgere nei metodi del male, della violenza, dell’odio, che sarebbe imitare il male per combatterlo. C’è un’analogia con il discorso di Buddha, «Colui che fa girare la ruota» del Dharma (insegnamento): rifiuto dell’aggressività, cioè a-himsa (non-violenza).

Tolstoj detesta la guerra, detesta le preghiere della chiesa per la vittoria. Conosce bene la guerra, di persona. Il rifiuto della violenza è un atto grandioso, metafisico (come Bobbio dice che la mitezza è una scelta «metafisica»). Il rifiuto della violenza, anche come anti-violenza, è il primo passo verso la luce, la vita vera, che contiene anche la non-morte.

Non si tratta di «salvare l’anima»: il vero io è il mio proprio rapporto col mondo, che mi unisce alle persone coscienti. Cristo è morto, ma il suo rapporto con noi rimane, indistruttibile. Questo io è la persona indistruttibile. Si può confrontare con la concezione cristiana della Trinità: la persona è relazione.

La nonviolenza si capisce praticandola: cambiare se stessi, praticare il distacco, per cominciare a capire.

Analogia con Albert Schweitzer: Venerazione per la vita (“venerazione”, è più che rispetto). Alla fine del secolo XIX emerge un anelito di vita, come intuendo il tempo di morte che sta per arrivare.

Anche Nietzsche legge Tolstoj, a Nizza. Nei Frammenti postumi 1887-1888 commenta Ma religion, ne condivide l’anelito di bene-felicità, ma non accetta la «porta stretta» della rinuncia a se stessi. Condivide il disgusto di Tolstoj per il cristianesimo come lo vede.

Questi di Tolstoj sono testi moralisti? No. L’epigrafe di Anna Karenina dice (con Romani 12,19) che si deve lasciare a Dio il giudizio. Se moralismo significa deontologia kantiana, allora quello di Tolstoj è eudemonismo, ricerca della felicità: tutto è grazia.

Certi moralisti hanno criticato Tolstoj: non rispettò i propri insegnamenti! Ma chi è senza peccato? Se poi è una critica seria, allora è un’obiezione che riguarda tutti: il distacco, la mitezza sono una direzione della vita, una bussola per il cammino.

Come è noto, Gandhi va oltre Tolstoj: la nonviolenza di Tolstoj è anarchico-religiosa, rifiuta ogni organizzazione, anche se fonda alcune comuni. Gandhi estende in politica e impegno storico la rivoluzione morale di Tolstoj.

e. p.

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