La resistenza dell’etica africana all’omogeneizzazione culturale – Recensione di Marco Scarnera

Bénézet Bujo, La pretesa universalità della morale occidentale. Fondamenti di un’etica africana [Wider den Universalanspruch westlicher Moral. Grundlagen afrikanischer Ethik, Verlag Herder, 2000]

traduzione di Luigi Dal Lago
presentazione di Giannino Piana
Cittadella Editrice – 2009
pp. 338 – euro 29,80

io sono, perché noi siamo e dato che noi siamo, anch’io sono

massima dell’etnia Sotho del Sudafrica

Sebbene una vena accusatoria ne solchi il titolo (che, tradotto alla lettera dal tedesco, suona: contro la pretesa di universalità della morale occidentale), il saggio si dimostra equilibrato, ordinato e ben documentato, rivolto ad esaminare le prerogative della propria civiltà assai più che a denunciare le aberrazioni di quella europea. In discussione infatti non cadono tanto la vocazione universalista dell’etica occidentale o la fondatezza dei diritti dell’uomo riconosciuti dalla comunità internazionale, quanto il primato di una cultura nell’interpretare sia la condizione umana sia la rivelazione cristiana. Si tratta della difesa della tradizione dell’Africa nera dal pensiero unico, omologante e riduttivo che si impose già durante le invasioni coloniali ed ora confluisce nel processo di globalizzazione tramite i canali del progresso economico, scientifico e tecnologico. Pertanto, allo scopo di indagare la via africana per la ricezione del Vangelo, lo studio si impernia sull’implicita questione: chi è l’uomo; un’entità atemporale astratta o la persona concretamente situata nella storia e sulla Terra? E quale sapere è adeguato per rispondere a tale interrogativo?

La ricerca si articola in due parti attraverso un periodare limpido, insediato su un robusto apparato di rigorose citazioni. La prima descrive l’antropologia africana quale base per un’etica specifica a confronto con la visione predominante nella filosofia e nella teologia occidentali. La seconda approfondisce i motivi per i quali la mentalità africana e quella europea si distinguono, ma si integrano nel giustificare la libertà dell’agente morale rispetto ai vincoli sociali e religiosi posti dalla comunità e dall’autorità, in particolare quando a rappresentarla è il magistero della chiesa.

Dalla trattazione prorompe soprattutto la dimensione collettiva dell’etica africana, il cui fine risiede nella salute della comunità, intesa come sorgente ed alveo indispensabili allo sviluppo completo di ciascun membro. In essa rientrano non solo gli effettivi congiunti, ma anche gli antenati, i nascituri, ogni popolo, il cosmo e Dio stesso, in una comprensione olistica che spazia fra il presente, il passato e il futuro e nella quale si compenetrano il profano ed il sacro, l’immanente e il trascendente. In questa misura l’identità personale è delineata dalla reciprocità con gli altri esseri. Dunque “l’agire etico non è una questione privata, ma ha conseguenze sociali, che possono fondare oppure distruggere la comunità” (p. 303). E se la libertà “non è per me, bensì per tutti, poiché solo quando tutti sono liberi, anch’io sono libero” (p. 241), allora la felicità dell’io si attua solo in connessione alla felicità del noi. Perciò l’autore, originario della Repubblica Democratica del Congo e docente di teologia morale all’università di Friburgo in Svizzera, contrappone metodicamente tale concezione all’individualismo occidentale, che si radica nella definizione classica del singolo come sostanza autonoma e lungo i secoli si ramifica nelle dottrine del diritto naturale, dell’io cartesiano, della ragione kantiana, della coscienza kierkegaardiana, del liberalismo, dell’etica della situazione per insinuarsi perfino nel comunitarismo e nell’etica del discorso apeliana.

In un ambiente sociale nel quale la coscienza individuale si struttura inestricabilmente con la consapevolezza collettiva, il principio della certezza soggettiva firmato da Cartesio, cogito ergo sum (in parafrasi: so di pensare, quindi esisto), si deforma in cognatus ergo sum (sono imparentato, quindi vivo). Qui l’organo fondamentale dell’umanizzazione diventa la palabre, ossia l’assemblea pubblica operante ad ogni livello, dalla famiglia al clan al villaggio all’etnia. Nel suo consesso il lascito dei progenitori viene ricordato e ricreato di continuo in maniera critica, orientando le scelte vantaggiose per i singoli verso il bene comune, cioè verso la pienezza della vita biologica e spirituale dell’intera comunità (inclusi i componenti a venire, come si è già accennato).

Tale istituzione educa all’ascolto e alla solidarietà, a detrimento dell’arbitrio e dell’oppressione. “Non c’è spazio, ad esempio, per una coscienza più o meno ‘dittatoriale’ che si senta chiamata a una specie di illuminazione interiore oppure si affidi unicamente alla propria convinzione acquisita in modo solitario” (p. 233). Proprio per questo presso i Manja della Repubblica Centrale Africana il totem del capo è la lepre, dotata di lunghe orecchie capaci di avvertire la voce del popolo, degli antenati e delle divinità. “Ma ciò presuppone che non solo il capo, bensì anche tutti gli altri partecipanti della palabre abbiano grandi orecchie e siano ben disposti ad ascoltare prima di parlare a loro volta. Se poi parlano, devono essere pronti a condividere la parola con gli altri membri dell’assemblea, perché la parola è troppo vasta per la bocca del singolo” (p. 282), come attesta un proverbio dei Bambara del Mali. D’altronde anche le colpe personali attengono alla responsabilità di tutti, giacché “la funzione della palabre africana consiste precisamente nel prendersi cura della concordia, dove regnano conflitti, intolleranza, violenza” (p. 132). Così i riti di riconciliazione infrangono la catena delle ritorsioni fra nemici mediante la guarigione di tutta la comunità.

In questa visuale spicca una predisposizione peculiare alla collegialità. “Il modello ‘fraterno’ indicato nel Nuovo Testamento sembra corrispondere meglio alle realtà dell’Africa nera. Qui chiede la parola una nuova concezione di chiesa e di gerarchia. In effetti: se il senso africano della famiglia è visto come fondamento della vita ecclesiale, in cui Cristo è il capostipite e il proto-antenato e i vescovi – incluso il papa – sono fratelli, allora la palabre fa parte necessariamente del momento determinante della riunione di tutti i membri. Tutte le decisioni devono essere prese in modo comunitario. A questo riguardo il papa ha il compito del figlio maggiore, che il capostipite ha incaricato di amministrare l’eredità comune, cioè la chiesa, unitamente agli altri fratelli” (p. 286).

Naturalmente il linguaggio assume un compito cruciale, ma supera i meri confini intellettuali e riesce a manifestare l’indicibile, abbinandosi a un vasto repertorio comunicativo che annovera la parabola, la maschera, la danza. “In Occidente le parole, le espressioni e cose simili sono analizzate concettualmente in modo esatto; hanno un significato ben preciso e definito fin dal principio, il che riveste un ruolo giuridico molto importante. Ma nell’Africa nera la verità è considerata in modo alquanto dinamico. (…) Quindi se una parola può essere designata come menzogna, ciò non dipende dal suo significato, concettualmente esatto, stabilito una volta per sempre. La parola deve essere interpretata in collegamento con la gestualità, lo sguardo, i proverbi, cioè contestualmente. (…) La verità non deve essere detta solo per amore della verità, ma per amore delle persone, che sono un elemento essenziale della comunità. La verità in se ipsa, priva di contesto, non esiste; deve essere significativa per la vita insieme con gli altri” (p. 75).

Analogamente si diversifica il peso da conferire alle norme: mentre in Occidente i precetti morali detengono un valore formale che spetta all’individuo realizzare, in Africa la comunità accompagna la prassi dell’individuo ed esso è quello che fa, senza un’essenza fissata a priori. Con ciò però non viene negata la portata universale delle regole, benché il loro contenuto rimanga provvisorio e rinnovabile. Risulta dunque plausibile che verso mete morali condivise convergano più percorsi esperienziali e sapienziali, prima ancora che logici ed argomentativi, caratterizzati da contesti temporali e geografici differenti. Perciò Bujo conclude: “solo se in tutti (vescovi, teologi e altri credenti) si afferma la convinzione che il patrimonio culturale africano è uno strumento provvidenziale per una variante legittima fra molte altre circa il problema di fides et mores [ovvero circa la coerenza tra le credenze religiose e i costumi di un popolo, n.d.r.], solo allora sarà possibile anche promuovere una esistenza cristiana incarnata africanamente, il che significa una crescita e quindi una ricchezza per l’intera chiesa di Gesù Cristo” (p. 307); e – si potrebbe aggiungere – per il mondo.

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