La carica della brigata mediatica – John Pilger

Nel suo ultimo articolo per il New Statesman, John Pilger descrive come una cultura mediatica aziendale onnipervasiva negli USA prepari la strada a uno stato di guerra permanente. Eppure, con tutta la carta stampata e le ore di trasmissione profuse allo scopo, il lavaggio del cervello non sta funzionando. Il che, sostiene, è “la più grande virtù dell’America”.

La conduttrice televisiva stava intervistando (a schermo diviso) un giornalista che si era reso disponibile ad assistere l’esecuzione di un condannato a morte in attesa da 25 anni nello Utah. “Poteva scegliere” disse il giornalista “fra un’iniezione letale e il plotone d’esecuzione”. “Uh” disse la conduttrice, mentre irrompeva un turbine pubblicitario sul fast food, uno sbiancante per denti, un intervento di gastroplastica e la nuova Cadillac. Cui seguì la guerra in Afghanistan presentata da un corrispondente in giubba contraerea che lamentava “Ehi, qui fa caldo”, “Sta attento” disse la conduttrice. Poi, un reality show – Coming up – in cui la telecamera seguiva un uomo in isolamento nel “buco infernale” di una prigione.

Il mattino dopo arrivai al Pentagono per un’intervista con uno degli alti ufficiali addetti alla guerra del presidente Obama. Una lunga camminata lungo lucidi corridoi pieni alle pareti di ritratti di generali e ammiragli agghindati di nastrini. Sino ad arrivare alla sala interviste, appositamente predisposta, blu e fredda artica, senza finestre né arredi salvo una bandiera e due sedie: elementi intesi a creare l’illusione di un luogo d’autorità. L’ultima volta che mi trovai in una simile sala al Pentagono un certo colonnello Hum interruppe la mia intervista con un altro ufficiale impegnato nelle operazioni belliche allorché chiesi come mai venivano uccisi tanti civili innocenti in Iraq e Afghanistan, allora a migliaia, ormai più di un milione. “Fermi il registratore!” ordinò.

Questa volta non c’era un colonnello Hum, solo un garbato diniego delle testimonianze di soldati che fosse un’”evento comune” ordinare alle truppe di “uccidere ogni maledetto stronzo”. L’Associated Press, dice il Pentagono, spende 4.700 milioni di $ in pubbliche relazioni; cioè conquistando i cuori e le menti non di recalcitranti afghani delle tribù ma degli americani. Cosa nota come “dominanza informativa” e gli addetti alle PR sono “guerrieri dell’informazione”.

Il potere imperiale USA fluisce attraverso una cultura mediatica per la quale il termine imperiale è anatema. Già iniziare a parlarne è eresia. Le campagne coloniali sono in realtà “guerre di percezioni” ha scritto l’attuale comandante, gen. David Petraeus, di cui i media divulgano termini e condizioni. “Narrativa” è la parola accreditata, in quanto post-moderna e privata di contesto e di verità. La narrativa sull’Iraq è che la guerra è vinta e quella sull’Afghanistan è che si tratta di una “guerra valida”. Che né l’una né l’altra sia vera è fuori tema. Promuovono una “grandiosa narrativa” di una minaccia costante e della necessità di una guerra permanente. “Viviamo in un mondo di minacce a cascata e intrecciate” ha scritto il celebre editorialista del New York Times Thomas Friedman “che hanno il potenziale per rovesciare il nostro paese in qualunque momento”.

Friedman è per un attacco all’Iran, la cui indipendenza è intollerabile. Questa è la vanità psicopatica del grande potere che Martin Luther King descrisse come “il più grande spacciatore di violenza al mondo”. E fu quindi ammazzato.

Lo psicopatico viene applaudito in tutta la cultura popolare, aziendale, dal guardone televisivo del condannato che sceglie il plotone d’esecuzione rispetto all’iniezione letale, a Hurt Locker vincitore di Oscar e un nuovo acclamato documentario di guerra – Restrepo. I registi di entrambi i film negano e nobilitano la violenza dell’invasione come “apolitica”. E tuttavia dietro la facciata da cartone animato ci sono scopi seri. Gli USA sono impegnati militarmente in 75 paesi. Ci sono circa 900 basi militari USA in giro per il mondo, molte delle quali agli sbocchi di aree d’approvvigionamento di combustibili fossili.

Ma c’è un problema. Gran parte degli americani sono contrari a tali guerre e ai miliardi di dollari spesi per sostenerle. Che il loro lavaggio del cervello fallisca così spesso è la più grande virtù dell’America. Ciò è sovente dovuto a isolati coraggiosi, specialmente quelli che emergono dalla centrifuga del potere. Nel 1971, l’analista militare Daniel Ellsberg fece trapelare documenti noti come le Carte del Pentagono, che sbugiardavano quasi tutto quanto era stato asserito da due presidenti sul Vietnam. Molti di costoro non sono neppure dei rinnegati. Ho nella mia rubrica tutta una parte con i nomi di ex-funzionari della CIA che hanno parlato; e che non hanno equivalenti in Gran Bretagna.

Nel 1993, C. Philip Liechty, ufficiale operativo della CIA a Giakarta al tempo della brutale invasione indonesiana di Timor Est, mi descrisse come il presidente Gerald Ford e il Segretario di Stato Henry Kissinger avessero dato “luce verde” al dittatore Suharto fornendogli segretamente le armi e la logistica di cui aveva bisogno. All’arrivo dei primi rapporti sui massacri che gli giunsero sul tavolo, l’ufficiale cominciò a cambiare: “Mi sentivo male, era sbagliato” disse.

Melvin Goodman è ora uno studioso alla Johns Hopkins University a Washington. Si è fatto 40 anni alla CIA diventando un autorevole analista sovietico. Quando ci siamo incontrati l’altro giorno, descriveva la condotta della guerra fredda come una serie di enormi esagerazioni della “aggressività” sovietica che ignoravano deliberatamente le indicazioni dello spionaggio secondo cui i sovietici erano impegnati a evitare a ogni costo la guerra nucleare, cosa confermata da archivi ufficiali declassificati al di qua e al di là dell’Atlantico. “Quel che importava agli assertori della linea dura a Washington” disse “era come si potesse sfruttare una minaccia percepita”. L’attuale segretario alla Difesa, Robert Gates, in qualità di vice-direttore della CIA negli anni 1980 aveva costantemente azionato la fanfara della “minaccia sovietica” e, dice Goodman, sta facendo altrettanto oggi “per l’Afghanistan, la Corea del Nord e l’Iran”.

E’ cambiato poco. In America, nel 1939, W.H.Auden scrisse:

Vedendo scadere le astute speranze
d’un vile decennio disonesto:
onde di rabbia
e paura
circolano per le luminose
e oscurate contrade della terra,
ossessionando le nostre vite private […]
essi guardano fuori dallo specchio,
la faccia dell’imperialismo
e il torto internazionale.”

(La poesia di Auden si intitola September 1, 1939. Il testo integrale si trova in Internet. Alcuni l’hanno accostata agli eventi dell’11 settembre, ndt)

8 luglio 2010

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis

Titolo originale: The Charge of the Media Brigade

http://www.transcend.org/tms/2010/07/the-charge-of-the-media-brigade/

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