Cibo scarso là, cibo leggero qua

Cinzia Picchioni

Il titolo del primo libro che vi presento, Il cuoco leggero, intende leggero come lieve «per la natura, lieve per la salute, lieve per lo spirito» (p. 6).

Siccome entrando in una libreria mi coglie una leggera vertigine, e ci sono troppi, davvero troppi libri (molti dei quali inutili se non dannosi, ma per tutti sono stati abbattuti alberi) questo libretto mi è piaciuto subito per due motivi:

  1. l’indicazione che è stampato su Carta da fonti gestite in maniera responsabile (FSC) e
  2. le parole dell’autrice, a p. 6:«“A che serve?” e “Che cos’ha di nuovo?”: queste le due domande che si poneva, per giudicare un libro, Thomas Sankara, per quattro anni presidente rivoluzionario del Burkina Faso che divenne con lui il “Paese degli integri” […] E dunque: cosa c’è di nuovo in queste pagine? Il modello alimentare proposto è in una volta etico, ecologico, vegetale, equo e solidale, sano, poco costoso, cosmopolita e locale, biodiverso e semplice, molto gustoso, accessibile a tutti. […]La prima parte indica i metodi per una saggia azione (agro)alimentare per se stessi e nella comunità. […]La seconda parte elenca ricette veg-italiane facili, economiche, eque, di stagione; […].

Sette ricette (sempre il magico numero!) per ognuna delle (15) categorie, tra le quali spicca quella di p. 87: 7 Ricette col pane avanzato, evviva!!!

Sulla base di questa dichiarazione: «Niente gioverà al pianeta più del passaggio a una dieta vegetariana» (Einstein), mi piace ricordare alcuni dati che si trovano alle pp. 15 e 16:

Una relazione di Rajendra Pachauri […] intitolata Less Meat, Less Heat. Impacts on livestock on climate charge ci informa […] che una persona che mangia per 70 anni solo cibi vegetali […] pompa in atmosfera circa 100 tonnellate di gas serra in meno di una che abbia invece un’alimentazione spiccatamente animale. Si può scendere da 1,8-2 tonnellate di emissioni di gas serra pro capite all’anno causate dalla produzione alimentare a 300 kg grazie alla dieta del nostro libretto![…]Con una dieta così, evitiamo che un gran numero di polli, galline, tacchini, oche, maiali, vacche, vitelli, conigli, pecore, capre, cavalli e asini – esseri senzienti rispetto al dolore quantomeno – siano fatti nascere e allevati a mucchi solo per essere messi in pentola, forno, padella o griglia. “Perché volete che ci siano diversi tipi di vita sulla Terra? Non c’è che una sola vita, vegetale, animale, umana, che nasce e ride, piange, soffre e muore (A. Einstein). E rispettando l’ambiente, un dieta così ama anche gli alberi, che Primo Levi ne Il sistema periodico omaggia così: “gli alberi della valle, ormai già vestiti di primavera, erano come noi, gente anche loro, che non parla, ma sente il caldo e il gelo, gode e soffre, nasce e muore, spande polline nel vento, segue oscuramente il sole nel suo giro”.

Per quanto riguarda le ricette sono veramente nuove, alcune sorprendenti, tipo – a p. 50 – il «Riso dei lavoratori di Rosarno a Roma» (cioè dei raccoglitori africani che si sono rifugiati a Roma, dopo «quella cosa» che dovremmo cercare di non dimenticare); in tempo di esami di maturità qualcuno potrà trovare interessante i «Dolcetti Paradiso terrestre» di p. 55, preparato con gli stessi ingredienti dello «student mix» (frutta secca che aiuta il cervello); e ancora: una besciamella «nonviolenta» (senza prodotti animali) e una maionese che non impazzisce (pp. 59 e 85) e infine una citazione dalla Vegagenda (già ampiamente recensita da queste «pagine»), Carote all’uvetta (p. 63).

Piccolo, utile, grazioso, davvero leggero (anche nel prezzo, 4 euro e 50 centesimi: M. Correggia, Il cuoco leggero, altreconomia edizioni, Milano 2010, pp. 96 (sfruttate fino all’ultima! Plaudo all’iniziativa di non sprecare neanche una pagina lasciandola bianca, né all’inizio né alla fine del libro, che ospita l’utile sitografia: dal sito del Last minute market a quello degli Orti condivisi e dei Gruppi d’acquisto.

M. Correggia, Il cuoco leggero, altreconomia edizioni, Milano 2010, pp. 96

* * * * * * *

Se, dopo aver letto Il cuoco leggero siamo intenzionati/e a diventare anche noi un po’ più leggeri sul pianeta, ci può aiutare quest’altro titolo: Anatomia della fame. Sottotitolo: Perché le catastrofi alimentari devastano il corpo del Pianeta e come possiamo fermarle. Niente di leggero qui. Basta leggere qualche titolo di capitolo: Vivere e morire nell’indigenza oppure Politiche ciniche, politiche cieche.

Vi si legge la definizione del termine «fame», ma anche i suoi effetti (impressionanti perché rivolti soprattutto ai bambini: per esempio non sapevo che kwashiorkor fosse il nome della malattia «della pancia gonfia (a causa dei batteri intestinali)», tipica dei bambini sottonutriti che vediamo in tv o sui giornali. La descrizione di questi bambini è tristemente efficace (pp. 25-6), così come è stato tristissimo per me leggere di quelle madri che in Camerun, non avendo nulla da preparare per i loro figli, mettono comunque una pentola d’acqua a scaldare sul fuoco, per illuderli che si stia preparando qualcosa (e che si addormentino mentre l’acqua bolle…).

Per non perdere la speranza c’è una bella descrizione del fatto che la fame fa scattare anche la solidarietà tra chi ne soffre, ma se la mancanza di cibo continua si arriva ad «[…]assumere il volto mostruoso dell’istinto di sopravvivenza individuale […] ricorrere a espedienti che in tempi normali sarebbero giudicati del tutto illeciti o immorali […] cedere i figli […] dissotterrare le salme dei morti […] vendere reni, sangue o altri organi […]. Scopriamo in queste pagine l’origine del detto «il bisogno può più della vergogna» (pp. 28-9).

Non ho potuto fare a meno di pensare ai Mondiali di calcio 2010, che si stanno svolgendo in Africa, leggendo questi dati (a p. 77):

[…]le carestie avvenute nel mondo fra il 1970 e la fine degli anni 90 ne ha rintracciate complessivamente 21. Ebbene, tranne due – Bangladesh e Corea del Nord – per il resto tutte le altre erano localizzate nell’Africa sub-sahariana […]. Anche considerando i casi di Cambogia (anni 70) e Iraq (anni 90), non è quindi esagerato affermare che il problema dei grandi episodi di mortalità di massa connessi alla denutrizione è oggi un problema eminentemente africano [tratto da S. Devereux (a cura di), Why Famines Persist in an Era of Globalization, Rutledge, Londra 2009, NdR].

Quanti soldi si sono spesi per costruire lo stadio (a forma di cesto tradizionale!!!!!!!) che ospita i Mondiali di calcio? E se avessimo ancora qualche dubbio sull’equazione «guerra prima, fame poi» potremmo registrare i dati di p. 112, dove nel paragrafo Il secondo cavaliere dell’apocalisse scopriamo (o ri-troviamo?) che la guerra è stato il fattore sociale più direttamente correlato all’esplosione delle carestie africane:

La dimensione politica della fame trova una solida conferma nell’analisi statistica del rapporto tra conflitti armati e carestie nell’Africa del secondo ‘900. […]Praticamente tutti i Paesi del continente nero investito da catastrofi alimentari sono stati scenari di conflitti bellici ed è lampante che quel disumano stillicidio di tragedie non ha avuto a che vedere semplicemente con la fisiologia ordinaria della domanda e dell’offerta dei beni. Non desta quindi stupore che sia proprio tra gli studiosi delle emergenze africane ad essere emersa con forza la categoria di “carestia politica“, e per estensione teorica la convinzione secondo cui “le carestie sono sempre politiche”.

Guerra prima, carestia dopo

E per sapere come fa una guerra che c’è prima a generare una carestia che verrà dopo, possiamo leggere le pp. 116-7; scopriremo che i reclutamenti forzati hanno fatto diminuire la forza lavoro maschile nelle campagne, o che in Mozambico e in Angola negli anni 80 sono stati talmente tanti gli uomini che hanno subìto amputazioni (causa mine e/o ferite) da ridurre interi villaggi all’immobilità economica e alla dipendenza da aiuti esterni. Inoltre durante le guerre i campi sono spesso trasformati in aeroporti, basi militari, campi di prigionia o più semplicemente sono resi inagibili dai bombardamenti e/o dai minamenti anti-uomo (così prima non possono essere coltivati perché ci sono le mine e dopo non possono essere coltivati perché gli uomini rimangono uccisi o invalidi proprio a causa delle mine!).

Ancora a proposito di carenza di cibo ho trovato «bellissimo» riportare i modi in cui le persone ricordano gli anni delle carestie (p. 94): «l‘anno dei tanti divorzi», «l‘anno in cui molti mariti se ne andarono di casa», l’anno «delle mogli a buon mercato» o l’anno «in cui si mangiavano i vestiti» (o le locuste o le cortecce d’albero) o «l’anno in cui non c’erano né amici né parenti», per dire che la fame investe tutti gli àmbiti dell’esistenza (affettivo-relazionali e materiali).

Per voler abbandonare un attimo gli aspetti «emotivi», rileggetevi ciò che scrive l’economista indiano Amartya Sen [Poverty and Famines: an Essay on Entitlement and Deprivation, Oxford University Press, 1982; Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2000, NdR] a proposito dell’impossibilità di accedere al cibo (che c’è, per tutti) da parte di categorie sociali più deboli (il capitolo si intitola infatti Granai vuoti e accessi negati (p. 97).

Non per insistere, da ciclista convinta quale sono, ma leggete un po’ qua a proposito dei bio-carburanti (pp. 190-1):

Se al mondo si patisce la fame […]è perché qualcosa non funziona nel “sistema”. Il fatto che così tante persone non vedano garantito il proprio diritto al cibo ha diverse cause, alle volte anche apparentemente strane. […]tra le altre cose, vi è il tentativo di combattere l’inquinamento (che nelle città italiane uccide ogni anno circa 7.400 persone). Per far fronte a questa situazione spaventosa […] si è iniziato a pensare ai biocarburanti. La parola in sé suona bene: il prefisso “bio” ispira qualcosa di pulito e sano. Il problema è, come denuncia Action Aid nel rapporto Low food: il G8 e la crisi alimentare una battaglia persa? (2009), che spesso sono prodotti a spese delle persone povere: per realizzarli si utilizzano campi che vengono sottratti alla coltivazione del cibo, soprattutto nel Sud del mondo.

Secondo la Banca mondiale, i biocarburanti sono la principale causa dell’aumento dei prezzi degli alimenti e di conseguenza del numero di coloro che soffrono la fame. Sembrerebbe dunque inevitabile un contrasto tra la salvaguardia dell’ambiente e la lotta alla fame. In realtà non è così, […] e giù dati che rivelano come passare dai combustibili fossili a quelli “bio” faccia diminuire le emissioni inquinanti in percentuali che variano dal 90% al 10%, e poi che ci sono altri sistemi in difesa dell’ambiente (tipo che se solo il 5% degli spostamenti avvenisse in treno le emissioni diminuirebbero drasticamente), ma non c’è la volontà politica di farlo, eccetera (www.actionaid.it)

Alla fine di questo «difficile» libro c’è una ventata di speranza che, fin dal nome, ci predispone a una rinnovata voglia di «fare qualcosa»: Un rinascimento contadino, con riferimenti a Elinor Ostrom e ai suoi studi che le sono valsi i nobel per l’economia nel 2009:

[…]l’idea di rinascimento contadino indica la strada del rilancio della società rurale, indica quindi la via di una revisione sostanziale delle priorità dell’agenda di governo, a partire dall’imperativo di rendere sostenibile e attrattiva la permanenza in campagna per le nuove generazioni.

Il mestiere più bello (e più importante) del mondo non è programmatore di computer, né libraio e nemmeno scrittore; è il contadino… se te lo lasciano fare!

V. Rinaldi, Anatomia della fame, altreconomia, Milano 2010, pp. 208, € 16,50

Dunque ecco qua: un testo per capire come sia la fame
e uno per capire che cosa fare dopo che si è capito:
non più «falce e martello», ma «pace e rastrello».
Che ne dite?

Cinzia Picchioni

San Giovanni 2010


 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.