Sicurezza per l’Australia nel ‘Secolo dell’Asia e del Pacifico’ (parte II)

Jake Lynch

Proviamo ad ascoltare qualche eco dal passato. Andrew Alexander, un giornalista del quotidiano britannico di centro-destra Daily Mail, raccontava come una sua ricerca per un libro sulle origini della guerra fredda mise in dubbio i presupposti da cui era partito: non c’era stata in effetti alcuna “minaccia militare sovietica” e certe valutazioni occidentali fasulle erano responsabili di “uno dei più inutili conflitti di tutti i tempi e certamente il più arrischiato”. I disaccordi divennero inimicizie dopo che il presidente Truman “iniziò aggressivamente” la sua entrata in carica, su suggerimento di alcuni fra i militari, e Winston Churchill esigette “un chiarimento definitivo” con Mosca.

Una valutazione delle dinamiche del conflitto nella penisola coreana da parte dell’autorevole ricercatore per la pace Johan Galtung sembra particolarmente atta a definire per analogia l’attuale situazione in quanto l’Australia la definisce ‘il secolo dell’Asia e del Pacifico’. “Ci sono falchi e colombe nella Corea del Nord”, notava, “e talvolta nella stessa persona. La questione è allora: come si rafforzano le colombe?” Come con la Cina: l’ammiraglio Yang Yi parve esprimere allarme per la sgradevole sorpresa, ma per ogni autorevole stratega che sostenga tale opinione sulle nostre relazioni con la Cina, ce ne sarà uno per il quale lo svelamento del Libro Bianco è il tipico momento del ‘ve l’avevo detto, io’. Come dice Galtung, le due opinioni possono coesistere nella stessa persona. E i falchi da un lato o dall’altro traggono forza reciprocamente.

Con l’attuale sistema interdipendente di commercio e finanza mondiali, immaginare una guerra fredda nell’area Asia-Pacifico può essere fantasioso. Ma le divisioni effettivamente esistono e rischiano di diventare più ampie. La risposta fiacca di Yudhoyono al concetto di Rudd di una comunità Asia-Pacifico non avrebbe sorpreso nessuno a Canberra che avesse consultato Barry Desker, un ‘vecchio gufo saggio’ di diplomazia regionale che fu ambasciatore di Singapore a Jakarta. Poco dopo il lancio dell’idea da parte di Rudd, Desker la dichiarò “morta sul nascere” perché il premier non si era preventivamente consultato con nessun leader asiatico.

In precedenza, intervenendo alla conferenza inaugurale intitolata a Michael Hintze all’Università di Sydney, Desker fece notare le tensioni crescenti per la governance regionale, in particolare il concetto di ‘Pacifico’, inscritto nel gergo delle alleanze, degli enti e dei forum inter-governativi: APEC, APC, ASEAN, EAS, SCO e così via. Egli colse un incipiente spartiacque fra serie di posizioni politiche e assunti che caratterizzava come appartenenti o al “consenso di Washington” o al “consenso di Pechino”. Era decisamente nell’interesse australiano evitare che tale spartiacque si ampliasse, ammonì Desker, e che l’Australia usasse il suo status unico, sia come importante partner commerciale della Cina sia come vecchio alleato militare USA, per qualche apporto nel tentativo di chiudere tale divario.

Un altro modo per progredire

Un’area chiave di differenze, messe in evidenza da Desker, riguardava le questioni interconnesse dell’intervento e della sovranità dello stato, con i cinesi particolarmente sensibili al secondo. Il bombardamento della Jugoslavia, che spianò l’ambasciata della Cina a Belgrado in un ‘errore di bersaglio NATO’, fu fermato solo da una risoluzione ONU che sembrò ritrarsi dalla concessione dell’indipendenza al Kosovo. Un paio d’anni fa, tuttavia, si ebbe una mossa d’ispirazione USA per cui il Kosovo si erse in una dichiarazione autonoma di stato sovrano e Washington ed amici furono pionieri nel suo riconoscimento. I concetti gemelli dell’intervento umanitario e della cosiddetta Responsabilità di Proteggere la comunità internazionale, ossia ‘R2P’, erano stati coinvolti nel ridisegnare i confini internazionali e il ‘cambiamento di regime’.

Dieci anni dopo la ‘Operazione Forze Alleate NATO’, qualche sua ramificazione ha cominciato ad affiorare sui nostri litorali. All’inizio del 2009, il mondo rimase effettivamente inerte mentre l’esercito di Sri Lanka martellava le zone tamil nel nord-est del paese. Un successivo rapporto del dipartimento di Stato USA identificava 158 racconti credibili di cannoneggiamenti e bombardamenti di civili – se provati, una grave trasgressione alle leggi di guerra – attacchi che potevano solo provenire da parte governativa. Ormai la R2P era stata accettata in linea di principio da un voto unanime dell’Assemblea Generale ONU, convocata a livello dei capi di stato e dei governi al loro vertice del 2005. Quando si trattò di proteggere i tamil, tuttavia, qualunque prospettiva di efficace azione del Consiglio di Sicurezza ONU, di qualunque genere, per fermare la violenza, fu frustrata dalla certezza di un veto cinese. Pechino semplicemente mantenne l’argomento fuori ordine del giorno.

Successivamente, il governo Rudd fu sballottato dalla solita marea di indignazione artificiale, dai politici e media di destra, allorché alcune centinaia di profughi si diressero in battello in Australia. Le esperienze della recente politica elettorale in Australia fanno pensare che nessun tema sia più soggetto a innescare quello che il ministro federale delle finanze, Lindsay Tanner, definiva “i compromessi …laburisti per coniugare una riforma progressista con il goveno di maggioranza”. Sarebbe fra gli interessi dell’Australia e certamente di qualunque suo potenziale governante interessato a riforme progressie, rinnovare l’impulso a creare qualche consenso sulla scena mondiale affinché si sviluppi e attui un’ampia gamma di misure, aldilà dell’intervento militare, nelle circostanze in cui è in ballo la protezione umana, evitando così alla fonte i flussi di profughi. Poco dopo la fine della guerra fredda, nel 1993, l’ex-ministro degli esteri australiano Gareth Evans pubblicò un libro, Cooperando per la Pace, considerato come il suo personale manifesto per diventare Segretario Generale ONU, che vale ancora la pena di leggere come memento delle potenzialità per affrontare i problemi con la costruzione paziente di consenso:

“Non ci si può aspettare da alcun singolo governo – neppure quello degli stati Uniti, pur con la loro attuale preminenza – di contenere, figuriamoci risolvere, l’enorme gamma di problemi di sicurezza che stanno ora di fronte alla comunità mondiale. Se ci dev’essere reazione significativa, può solo basarsi su un approccio cooperativo, con i governi che affrontino tali problemi… su una base cooperativa, multilaterale”.

Il caso sollevato dal Dipartimento degli Affari e Commercio Esteri sul suo sito web per la rinnovata candidatura dell’Australia al Consiglio di Sicurezza ONU sottolinea molto dell’impegno sui diritti umani di Canberra. Se la nostra voce deve avere qualche influenza, quell’impegno dev’essere applicato trasversalmente in ogni circostanza e tale da risultare riconoscibile. Per esempio, un cambiamento all’inizio del 2010 nelle consuetudini di voto e di discorso dell’Australia riguardo al conflitto Israele-Palestina, pur in gradazioni infinitesimali, rappresenta un’apprezzabile novità in tale contesto. Canberra è passata da un ‘no’ a un’astensione nelle votazioni dell’Assemblea Generale sul rapporto Goldstone relativo alle accuse di crimini di guerra durante l’attacco d’Israele a Gaza. E inoltre il ministro degli esteri Stephen Smith ha criticato gli israeliani per i programmi di nuove costruzioni nelle colonie illegali su terra palestinese.

La Cina ha condannato gli attacchi d’Israele a Gaza ma ha taciuto su Sri Lanka; gli USA, dove queste crisi avvennero su ambo i versanti di un avvicendamento alla Casa Bianca, si sono comportati in modo opposto. Allora, l’Australia fu, a mio parere, l’unica democrazia che non condannò né l’uno né l’altro (anche perché molti altri furono ‘rappresentati’ da dichiarazioni fatte per loro conto da organizzazioni come l’UE, AU (Unione Africana) e OAS (Organizzazione degli Stati Americani). Se la preoccupazione per la protezione umana e i diritti umani potesse essere ribadita in modo convincente come patrimonio di nessun particolare gruppo di stati membri ONU e contemporaneamente come responsabilità di tutti, le prospettive di riformare un tale consenso acquisterebbero forza.

Ma un tale consenso dipende dal farla finita con i doppi standard (due pesi e due misure) e l’eccezionalismo, e l’Australia potrebbe segnalare chiaramente che questa è la nostra intenzione e interpretazione del mandato implicito nelle clausole protettive per i non-combattenti e nei loro diritti umani, come nella Responsabilità di Proteggere. Hesham Youssef, capo-gabinetto del Segretario Generale della Lega Araba, ha chiarito durante una recente visita che Canberra non otterrebbe alcun sostegno arabo per un seggio nel Consiglio di Sicurezza fintanto che la si considera un’estensione di Washington, specialmente sulle tematiche palestinesi.

La politica sul cambiamento climatico presenta un altro esempio dell’urgenza del nostro impegno positivo con la Cina. E’ stato riferito che la Cina si è comportata in modo strumentale nel confinare il vertice sul clima di Copenhagen a un risultato tanto modesto. Un testimone oculare dei colloqui, Mark Lynas, ha detto al Guardian di Londra: “La Cina, sostenuta a tratti dall’India, ha quindi proceduto a espungere tutti i numeri significativi”. Pechino ha visto una “cospirazione dei paesi ricchi”, secondo Lynas, e si è mossa risolutamente per neutralizzarla. Di nuovo, è profondamente nell’interesse dell’Australia che sia portata avanti un’azione efficace per contrastare gli effetti del cambiamento climatico, non che sia impedita. Dopo tutto, viviamo nel più arido dei continenti abitato.

Che la Cina si senta con le spalle al muro, accerchiata e negata, fa il gioco dei suoi istinti peggiori facendoli emergere. A svantaggio dell’Australia intanto e col rischio di coinvolgerla in una pericolosa situazione di stallo, che distrarrebbe risorse preziose da altri usi più importanti. Ci si avvii a una politica più equa, dando retta all’ammonimento di Barry Desker alla cautela circa la necessità di consultazioni in ambito regionale – non solo a Washington – prima di dare suggerimenti, e potremmo aspettarci una relazione più cooperativa e produttiva.

Può essere d’interesse del complesso militare-industriale USA e del suo omologo australiano che si vada verso una corsa agli armamenti nell’area Asia-Pacifico, ma non è d’interesse per gli australiani. Dobbiamo essere disposti a deporre la nostra spada e dare strette di mano, allora saremo in grado di uscire tutti da dietro i rispettivi scudi. E, chissà, potremmo allora ottenere il nostro seggio alla tavola rotonda.

Professore Associato Jake Lynch, Direttore del Centro Studi su Pace e Conflitti, Università di Sydney.


Seconda parte del capitolo contenuto in “Vision 2030: An Alternative Approach to Australian Security, una pubblicazione di Medical Action for the Prevention of War, redatta da Michelle Fahy. E’ commissionata e pubblicata come risposta al Libro Bianco della Difesa del governo australiano, “Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030”. La pubblicazione è stata presentata al parlamento a Canberra lunedì 24 maggio 2010.


TRANSCEND Media Service TMS PEACE JOURNALISM

Titolo originale: Security for Australia in the ‘Asia Pacific Century’ (Part 2)

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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