Sicurezza per l’Australia nel ‘Secolo dell’Asia e del Pacifico’ (parte I)

Jake Lynch

Sembrava un dito medio sollevato. Un numero 1 desolato e irridente – il numero di voti ottenuti quando un paio d’anni fa l’Australia si candidò a membro del Consiglio di Sicurezza ONU. Perfino l’Iran trovò trentadue sostenitori quando si presentò come candidato nella stessa occasione. L’ Australia, apparentemente, era senza amici. Perché mai la comunità internazionale frustrò le ambizioni di Kevin Rudd a un maggiore riconoscimento sulla scena mondiale?

Una reazione altrettanto fredda si vide quando il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono visitò l’Australia all’inizio del 2010. Nel bel mezzo di tanti caldi complimenti reciproci arrivò lo scorno per la proposta del primo ministro [australiano] di una comunità Asia-Pacifico. L’entourage di Yudhoyono evitò di farsi coinvolgere in un dibattito sull’iniziativa, dicendo semplicemente che “la priorità di politica estera di Jakarta stava invece nel rafforzamento dell’Associazion delle Nazioni del Sud-Est Asiatico [ASEAN]”, secondo quanto riferito dall’Australian.

Qui c’è un bandolo importante: l’uso della parola ‘Pacifico’ da parte di Rudd. Se si concepisce la governance o addirittura il processo decisionale per la regione dell’ Asia dell’ Est in un ambito Pacifico, ciò è importante perché dall’altra parte del massimo oceano ci sono ovviamente gli Stati Uniti, la cui massa s’estende secondo la canzone “dal mare al mare lucente”.

Gli interessi USA si estendono dall’altra parte con l’ ‘Atlantismo’, chiaramente nell’Organizzazione del Trattato dell’ Atlantico del Nord (NATO), in cui Washington è il partner dominante con 27 paesi europei. Secondo il famoso (famigerato) memorandum del Pentagono del 1992, Defense Planning Guidance (DPG) (Linee guida alla programmazione della difesa, ndt), l’Europa e l’ Asia dell’Est sono due delle tre regioni – la terza è il Medio Oriente – dove dev’essere riaffermata la dominanza americana.

La sfida, secondo il DPG, era come replicare l’esistente “sistema di sicurezza collettiva a guida USA” nell’era post-comunista. Di particolare importanza, diceva il memo, era “il senso che l’ordine mondiale è in definitiva sostenuto dagli USA”. A tal fine, “dobbiamo prevenire l’emergere di dispositivi di sicurezza solo europei che potrebbero insidiare la NATO”.

Perché rifarsi a un memorandum interno di 18 anni fa? La Defense Planning Guidance ha tuttora risonanza perché si legge, in retrospettiva, come una copia progettuale delle politiche USA estera e di sicurezza per il periodo successivo alla sua pubblicazione. Vale per l’effettiva marginalizzazione dell’ONU a favore di una ‘coalizione dei volonterosi’; per la costituzione di una potenza militare USA sufficiente a scoraggiare chiunque altro dal considerare una rinnovata rivalità da superpotenza; per il perdurante sforzo USA di spesa per le forze armate maggiore dell’insieme del resto del mondo

Allora come funzionano oggi i rigori del DPG nel nostro quadrante del globo, e quali sono le implicazioni per l’Australia?

Il precedente del Kosovo

Si consideri, per primo, un esempio precoce di tale strategia USA in azione: il bombardamento della Jugoslavia nel 1999. Un conflitto regionale persistente che coinvolgeva la provincia a maggioranza albanese del Kosovo divenne poco trattabile con l’emergere di una forza irregolare ben armata, l’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), che rapidamente marginalizzò il partito politico principale nella provincia mediante espedienti come i “tribunali dei canguri” ed “esecuzioni sommarie” di funzionari municipali non cooperativi: termini di un rapporto ONU.

Successivamente, fu rivelato da giornalisti che l’UCK era stato equipaggiato e addestrato da agenzie di spionaggio occidentali, primariamente la CIA. Una missione di peacekeeping, inviatavi dall’Organizzazione per la Cooperazione alla Sicurezza Europea, ricevette istruzioni truccate e non riuscì a reprimere gli attacchi di guerriglia. L’esercito jugoslavo vi tornò, con tipica mano pesante. Il Primo Ministro britannico Tony Blair guidò gli appelli per un “intervento umanitario” che prevenisse la “repressione”. Il Segretario di Stato USA Madeleine Albright raggiunse un accordo segreto sull’indipendenza con l’UCK che efficacemente sbrindellò i colloqui di pace e la NATO ebbe il pretesto per 78 giorni di bombardamenti aerei.

Quant’era stato un problema politico, benché ispido, fu trasformato in un problema militare. Col che, l’identità dell’ovvio candidato a fornire una soluzione cambiò: dall’Unione Europea, un’organizzazione politica, alla NATO, una militare. L’altra importante differenza, ovviamente, è che gli USA sono esclusi per definizione dall’UE, mentre sono tuttavia il leader di fatto della NATO. Dispositivi di sicurezza solo europei erano stati, per citare la Defense Planning Guidance, effettivamente “insidiati”. Per assicurare una continua influenza USA negli interessi vitali dei suoi alleati europei, i conflitti dovevano diventare violenti per giustificare l’applicazione di mezzi militari.

Implicazioni attuali per l’Asia dell’Est

Una sindrome analoga rischia di essere replicata nel nostro settore del globo. L’Australia ha impegnato 16 miliardi di dollari australiani per l’acquisto di 100 aerei Joint Strike Fighter di fabbricazione USA, con un ordine iniziale di 14 fatto l’anno scorso, in quanto parte del nostro bilancio di ‘difesa’ (piazzandoci all’undicesimo posto al mondo per le spese in armamenti). Il raggio d’azione di tali aerei è poco più di 1.000 kilometri, il che mi risulta comportare solo due paesi e potenziali bersagli: l’Indonesia e Papua New Guinea. Il ministro della difesa, senatore John Faulkner, scoprì un po’ più le carte annunciando in parlamento la tranche iniziale dell’ordine; che, disse, avrebbe posto l’ Australia in grado “di prender parte a future operazioni in coalizione”.

Operazioni di coalizione dove? Erik Paul, nel suo memorabile studio, Little America: Australia, the 51st State [Piccola America: Australia, il 51° stato], mostra come l’Australia sotto John Howard sia cresciuta nel suo ruolo di “vice-sceriffo” regionale nell’Asia del Sudest marittima, venendo via via considerata come “parte integrante della geo-strategia globale USA-Regno Unito”. Il Libro Bianco della Difesa del 2009, Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030, [Difesa dell’Australia nel secolo dell’Asia-Pacifico] evoca la possibile “minaccia” che l’Asia Sud-Est venga usata come “condotto per la proiezione di potere militare contro di noi da parte altrui”, per poi sminuire tale minaccia asserendo che la stabilità “dovrebbe” continuare nella regione. In questa ed altre parti della sua retorica, comunque, il Libro Bianco riporta alla mente l’aforisma di George Lakoff: “anche negare una struttura evoca una struttura, ed evocarla la rafforza”. (Se si vuole verificarlo, si provi come esercizio mentale a seguire la seguente istruzione: ‘Non pensare a un elefante’.)

Se l’Australia deve prevedere anche la più blanda minaccia di potere militare proiettato contro di essa tramite l’Asia del Sud-Est, chi sarebbe l’antagonista più verosimile? Non i paesi della regione, ma i cinesi, secondo il Libro Bianco. “Il ritmo, l’ampiezza e la struttura della modernizzazione militare della Cina hanno il potenziale di dare motivo di preoccupazione ai suoi vicini se non adeguatamente spiegati”, dichiara il documento, “se la Cina non si protende verso gli altri per consolidare la fiducia verso i propri piani militari”.

L’opinione da falco

La suddetta citazione segna l’accettazione da parte del governo Rudd dell’opinione da falco fra gli analisti della difesa sui preparativi cinesi, esponenti dei quali comprendono l’Istituto Lowy sponsorizzato dalle aziende, e consulenti della redazione della bozza del Libro Bianco, tipicamente il prof. Ross Babbage, ex-ufficiale della Difesa e mercante d’armi, che pesò nel dibattito con un articolo tempestivo sui quotidiani sostenendo che l’Australia ha bisogno di una forza a disposizione in grado di “strappare il braccio a una potenza asiatica importante che la invadesse”. Babbage dirige la Fondazione Kokoda, il cui sito web annuncia d’essere un “think-tank indipendente” ma il cui elenco di sponsor comprende il Ministero della Difesa, il Dipartimento del Primo Ministro e il Gabinetto, e niente meno che dieci aziende dell’industria degli armamenti.

A proposito delle intenzioni della Cina, l’opinione Kokoda contrasta con quella degli stessi funzionari. L’Istituto di Politica Strategica Australiano – un altro ente finanziato dalla Difesa che si maschera da “think-tank indipendente” – si è posto come super partes nel dibattito, notando in un briefing contestuale che mentre “autorevoli programmatori della Difesa australiana ora prevedono il sorgere di una Cina aggressiva, egemonica, in Asia [questo è] in contrasto con valutazioni dell’intelligence che non vedono una Cina del genere in prospettiva”.

Non è sorprendente che la valutazione più da falchi l’abbia avuta vinta su quella della comunità d’intelligence professionista nel preparare la bozza del Libro Bianco, scritto a seguito di una consultazione comprensiva di contributi di importanti fabbricanti d’armi e presieduta da Stephen Loosley, ex-senatore laburista che al tempo era appena entrato nel consiglio d’amministrazione della Thales Australia. Il presidente dell’azienda Paul McClintock salutò la nomina di Loosley con una promessa agli azionisti che la nuova recluta avrebbe aiutato Thales “a continuare a crescere e attuare le proprie strategie”: il che, dato che la strategia primaria di Thales è d’intascare la massima quota del bilancio militare (1.1 miliardi di dollari nel periodo 2006-2009, che la rende il quinto fornitore della difesa per dimensioni) si potrebbe anche configurare come conflitto d’interessi. L’altro personale coinvolto, sia nelle udienze pubbliche sia nel comitato consultivo, proveniva tutto da un’analoga gamma di situazioni: le forze armate e l’industria della difesa.

Il messaggio univoco alla Cina, sia nel Libro Bianco sia nei suoi programmi d’acquisto relativi – comprensivi pure di nuovi sottomarini, navi da guerra e sistemi missilistici, provocò effettivamente qualche perturbazione. Una storia in prima pagina sul Sydney Morning Herald, sotto il titolo ‘Rudd accusato d’istigare una nuova corsa agli armamenti’, si stagliava fra reazioni mediatiche generalmente supine nel chiarire le preoccupazioni cinesi:

“Uno stratega militare cinese, il retro-ammiraglio Yang Yi, ha detto ieri al Herald che l’Australia aveva prodotto una nuova variante della ‘tesi sula minaccia cinese’ che poteva essere emulata da altre nazioni incoraggiandole ad accelerare i propri programmi di riarmo. ‘Non riesco davvero a capire questa stupida, demenziale idea dell’Australia’, disse. ‘Ne sono molto preoccupato e angustiato’.”

Da allora, la Cina ha reagito furiosamente all’annuncio di un nuovo programma di armi americane per Taiwan da 6 miliardi di dollari USA, ed è uno spettatore attento del programma di migliorie tuttora in corso alla base militare USA di Guam, da 8 miliard di dollari. I conflitti stanno diventando sempre più militarizzati, arroccando in tal modo vieppiù la dominanza USA nell’Asia orientale.


Professore Associato Jake Lynch, Direttore del Centro Studi su Pace e Coflitti, Università di Sydney.

Prima parte del capitolo contenuto in “Vision 2030: An Alternative Approach to Australian Security, una pubblicazione di Medical Action for the Prevention of War, redatta da Michelle Fahy. E’ commissionata e pubblicata come risposta al Libro Bianco della Difesa del governo australiano, “Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030”. La pubblicazione è stata presentata al parlamento a Canberra lunedì 24 maggio 2010.


TRANSCEND Media Service – Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis

Titolo originale: Security for Australia in the ‘Asia Pacific Century’ (Part 1)

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