Elezioni in Piemonte: Travolti dall’Alta Voracità

Nanni Salio

I dati

Come si contano i voti e le percentuali in una tornata elettorale? Chi non vota non conta? Ma di quale democrazia stanno parlando i politici e i media quando si riferiscono “alla gente, “al popolo”? Da tempo, questa “gente”, questo “popolo” non vota. Quando il 40% e più degli elettori (sino al 50% in alcuni casi) non partecipa al voto, non è solo per una generica disattenzione o per qualunquismo: viene lanciato un messaggio esplicito di sfiducia alla classe dirigente.

Il resto, il 60%, si divide grosso modo a metà tra l’uno e l’altro schieramento, con piccole fluttuazioni di pochi percento, sino all’1% e a anche meno. Una manciata di voti, poche migliaia nel caso piemontese, che non permette certo di dire che gli uni hanno “vinto” rispetto agli altri. Non stiamo assistendo a una gara sportiva, dove pochi centesimi di secondo fanno la differenza.

E veniamo ai dati della Lega, presentata come “vincitrice”. In Piemonte, il dato complessivo è del 16,74%, poco meno del doppio rispetto alle regionali del 2005. Ma questo corrisponde, se facciamo la semplice operazione di moltiplicare per la percentuale dei votanti (60%) a circa il 10% degli elettori. Una maggioranza o una semplice minoranza? Media, politici, politologi, continuano a imbonirci con titoli cubitali del tipo “l’onda verde” (il verde è di moda, dall’Iran sino a casa nostra). La realtà è che su 10 persone, 4 non votano e le altre 6 si dividono quasi equamente tra destra e sinistra e una della destra vota per la Lega.

Che poi, una piccola minoranza sia stata capace di fare parlare di sé e di condizionare l’operato di un governo è altra cosa, che richiede un minimo di interpretazioni, peraltro ben note.

Le interpretazioni

Dal crollo del sistema sovietico, vent’anni fa, non certo da rimpiangere, i “nostri” hanno buttato via “il bambino con l’acqua sporca”. Hanno perso la loro fede, quasi religiosa, nel partito, cambiato nome ogni quattro o cinque anni, e sono entrati in uno stato confusionale. Ben pochi si sono fatti da parte, per riflettere sui propri errori. I più si sono riciclati, per continuare a “vivere della politica” e dei benefici economici che questo comporta.

La distinzione tra destra e sinistra è svanita, nella realtà anche se non nei principi, e i personaggi più diversi hanno cantato i meriti della privatizzazione, della globalizzazione, del liberismo, della NATO e via dicendo. Salvo accorgersi, di tanto in tanto, che siamo sovrastati da una crisi globale che annuncia il prossimo “collasso”.

La Lega ha colto alcuni segni di malessere e con molto populismo mescolato ai soliti ingredienti di sempre (paura e razzismo) ha disinvoltamente sostenuto i governi di destra, ricevendone in cambio un ingente flusso di denaro come prezzo che Berlusconi paga per sfuggire alla galera. Data la “ricattabilità” di quest’ultimo, la Lega sembra fare il bello e il cattivo tempo, pur essendo una piccola minoranza su scala nazionale. Le sue proposte sono sovente soltanto velleitarie, anche se contribuiscono a creare un danno morale e culturale. Per fare un solo esempio, le “ronde padane” sono state un clamoroso insuccesso, ma questo vale anche per gran parte delle politiche di governo. Loro fanno le leggi, ma il paese reale, sia quello che non vota, circa la metà, sia quello abituato a farsi i fatti propri, violando impunemente le leggi, va per conto suo. Sinché non ci sarà la resa dei conti, inevitabile.

I problemi ignorati

Questa “resa dei conti” si chiama “picco del petrolio”, cambiamento climatico globale, crisi energetica e ambientale dilagante, crisi di un modello economico e di sviluppo basato sulla rapina e sulla crescente diseguaglianza, crisi delle dinamiche relazionali ed esistenziali. I tempi sono quanto mai prossimi, anche se non si misurano con quelli delle scadenze elettorali: un paio di decenni. Ne abbiamo persi quattro, da quando fu lanciato l’allarme dal Club di Roma, nel 1972.

Ma di tutto questo non troviamo traccia nei programmi delle forze politiche. Parlare di programmi è in realtà un eufemismo, poiché le competizioni sono fatte con lo stile dei venditori di saponette: messaggi insulsi che suonano come un’ennesima offesa a chi ha mantenuto un minimo di buon senso e di onestà intellettuale.

Il ruolo dei movimenti di base

Cosa doveva fare il movimento No TAV, che da vent’anni si oppone, in modi sostanzialmente e coerentemente nonviolenti, a un progetto privo di qualsiasi reale giustificazione, che non sia quella delle grandi opere e della grande corruzione? Con i 90.000 voti concentrati nella lista cinquestelle ha contribuito alla sconfitta dell’amministrazione di centro sinistra. Ma forse la Lega ha raccolto le motivazioni che stanno alla base di questa protesta? No di certo, il “programma” annunciato è in linea con quello di governo: nucleare, TAV, FIAT, grandi opere. La loro apparente preoccupazione per lo sviluppo locale è gia sfumata di fronte alle pressioni e agli accordi sottobanco con le strutture di potere economico.

Tuttavia, il nodo cruciale riguarda il ruolo che i movimenti di base possono avere nel futuro. Sono molti coloro che sostengono che “una nuova politica può venire solo dal basso” ( da Franco Ferrarotti a Edgar Morin a Paul Hawken per citarne solo alcuni).

Sinora è mancata una capacità di aggregazione su scala locale, nazionale, internazionale, su temi unificanti che permettano di modificare alla radice il modo di far politica, di stabilire un’altra agenda con ordini di priorità che partano effettivamente dagli ultimi e dai più bisognosi.

Ma qualcosa si sta tentando di fare, pur con molte difficoltà. La campagna, nazionale e internazionale, contro la “privatizzazione dell’acqua” è un buon esempio di capacità aggregante, concreta, efficace.

Un “manifesto” di questa possibile politica dal basso fu lanciato un secolo fa da un omino molto noto, ma non altrettanto seguito. Di ritorno da Londra nel 1909, Gandhi scrisse di getto una radicalissima critica alla “moderna civiltà occidentale”, che anticipò le analisi riprese in seguito da Schumacher, Illich, Latouche, con diverse accentuazioni: piccolo è bello, semplicità volontaria, decrescita.

Perché allora non avviare un ampio dibattito sui complessi temi della sostenibilità, a partire dalla nuova edizione di questo scritto fondamentale? (Mahatma Gandhi, Vi spiego i mali della civiltà moderna. Hind Swaraj, Gandhi edizioni, Pisa 2009).

Uomo molto concreto e attivo, Gandhi avrebbe apprezzato moltissimo ciò che le reti dei comuni virtuosi, dei gruppi di base e delle città in transizione stanno realizzando. E avrebbe sicuramente considerato anche il Manuale pratico della transizione di Rob Hopkins (Arianna editrice, Bologna 2009) una utilissima miniera di proposte per creare aggregazione e avviare quel processo di swaraj (autogoverno) da lui teorizzato, sperimentato e sognato.

Entrambi i libri due buoni antidoti all’apparente predominio della Lega e delle destre berlusconiane!


 

 

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