Il lupo allevato nell’ovile – Aldo Bodrato

Pedofilia e vita delle chiese locali

Lo scandalo dei preti pedofili, dopo aver colpito la periferia, a cerchi concentrici si focalizza sempre di più sulle istituzioni portanti della Chiesa stessa, diocesi di antica e tradizionale fedeltà, collegi e comunità monastiche di secolare prestigio, istituzioni che dipendono direttamente da Roma, fino a concentrarsi sui centri stessi di formazione del clero, la pupilla dell’occhio dei papi, quel percorso formativo al presbiterato celibatario e maschile, che sono i seminari, punto di maggior resistenza del conservatorismo cattolico pre e post-conciliare.

In sostanza i lupi, che divorano la vita spirituale dei giovani fedeli e dilapidano il prestigio della Chiesa, non vengono da fuori, non entrano nell’ovile, forzando con l’astuzia delle modernità e la lusinga delle mondanità, i punti in cui il recinto è stato reso debole dalle troppe concessioni allo spirito del tempo dagli innovatori. È uno dei punti deboli dell’Enciclica, inviata dal papa ai vescovi d’Irlanda, non aver saputo spingersi con coraggio nell’analisi profonda delle cause secolari di questo particolare “malessere” della Chiesa, ma di essersi limitata a un più che superficiale rimando alle conseguenze della secolarizzazione e, anche peggio, a un malinteso permissivismo, conseguente la cattiva interpretazione del Concilio. La pedofilia qui denunciata ha radici ben più antiche della secolarizzazione stessa e nulla ha a che fare con lo spirito e la lettera, sia pure fraintese, del Vaticano II.

No. I lupi che dilaniano la Chiesa non sono emanazioni del nemico, ma i frutti malati della stessa formazione seminariale della Chiesa, che ha come perno generale la richiesta di riconoscersi chiamati al celibato, imposto come legge prima e quasi unica, e l’esclusione delle donne dal presbiterato stesso e da ogni vero ruolo costruttivo nel curriculum formativo del prete e da ogni incarico di rilievo nella Chiesa.

Lo ripetevano da tempo teologi contestatori come Hans Küng, ora lo dicono, con formule più sfumate, anche cardinali di sicura obbedienza ratzingeriana come Schoenborn e saggisti prudenti come Lucetta Scarafia, addirittura dalla prima pagina dell’«Osservatore Romano».

Certo non dicono che il celibato e che l’esclusione delle donne dal presbiterato sono causa diretta della pedofilia presente tra il clero. Sarebbero degli irresponsabili che esagerano ed esasperano una prospettiva da tenere presente, ma da non considerare assoluta e forse neppure prevalente. Dicono che il celibato obbligatorio e la marginalizzazione del ruolo delle donne nella Chiesa hanno un ruolo negativo nella formazione del clero, nella sua maturazione relativa al controllo e all’esercizio della sessualità. Dicono che non il celibato in sé, ma la sua obbligatorietà e esclusività, come via di accesso ai ruoli guida nella comunità ecclesiale, tende a formare nelle coscienze degli aspiranti l’idea che l’emarginazione della questione sessuale nella vita del clero sia doverosa e che una scarsa propensione all’esercizio dell’amore eterosessuale o omosessuale è premessa indispensabile e sufficiente a fare un buon prete e ad aprirgli una promettente carriera. Di qui la creazione di un percorso formativo e la diffusione di una spiritualità celibataria, disattenta alla maturazione sessuale dell’individuo e propensa a lasciare aperte vie secondarie e deviate all’esercizio della sessualità stessa.

Indubbiamente, dunque, una revisione del percorso seminariale è necessaria, come è necessaria una ridiscussione dell’obbligo celibatario per i preti e una riconsiderazione del ruolo delle donne nella Chiesa. Questo non solo in vista del contenimento di ogni tendenza sessuale deviante, ma anche del rinnovamento dei criteri con cui si risponde al bisogno di pastori qualificati per le molte comunità locali della Chiesa.

La pedofilia non è l’unico guaio per la Chiesa, conseguente la pratica del presbiterato celibatario e maschile. Un guaio ancora maggiore è la scarsità del clero che obbliga ad affidare più comunità ad un unico pastore. Così il ruolo del prete viene ridotto a quello di galoppino, costretto a correre qua e là per distribuire i sacramenti, riducendo gli stessi a formalità burocratiche, prive di ogni valore esistenziale e spirituale. Accade così che non sono le necessità pastorali a determinare la formazione e la qualità dei preti, ma, al contrario, sono le regole restrittive, che presiedono alla formazione del clero, a mettere quest’ultimo nell’impossibilità di rendere alla comunità il servizio per cui sarebbe chiamato.

«Sotto questo aspetto quando una comunità pastorale viene formata accorpando tra loro sette o otto parrocchie, rette da un solo parroco, accade che tutte le parrocchie vengono derubate della loro identità spesso antica e delle loro più preziose potenzialità pastorali e spirituali. E l’esperienza mostra già ora che la mancanza di una presenza costante e attiva del clero in una chiesa conduce alla vaporizzazione, all’estinzione della vita cristiana della chiesa stessa» (W. Beinert, «il Regno» n. 4 del 2010, p. 80).

La pedofilia non è dunque la sola conseguenza, più o meno diretta, del celibato ecclesiastico obbligatorio e della conseguente carenza formativa del clero dal punto di vista affettivo. Conseguenza è anche l’impoverirsi della quantità e della qualità del clero stesso. Impoverirsi che sta gradualmente distruggendo la chiesa al suo interno, privandola della possibilità di sviluppare la vita spirituale, pastorale e comunitaria delle chiese locali, che sono il vero cuore pulsante della Chiesa. Per rimediare a tutto ciò non è più possibile pensare solo ad un sinodo. Probabilmente occorre un Concilio.

(questa nota sarà pubblicata in un prossimo numero de «il foglio», mensile di alcuni cristiani torinesi)

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