Fra l’Iraq e un postaccio

Jake Lynch

“Se la gente davvero sapesse, fermerebbe la guerra domani. Ma naturalmente non sa, e non può sapere. I corrispondenti non ne scrivono e la censura non farebbe passare la verità. Quello che inviano non è la guerra, ma solo un’immagine aggraziata della guerra, dove tutti compiono azioni coraggiose”.

Parole dal diario privato di C.P. Scott, redattore del «Manchester Guardian», basate su quello che adesso definiremmo un briefing per colazione con il Primo Ministro, David Lloyd George. Con le notizie efficacemente neutralizzate, le nostre immagini ossequiose della Grande Guerra, quasi un secolo dopo, sono quelle fornite dai poeti, piuttosto che dai giornalisti. La selezione offerta nel New Oxford Book of English Verse ne rievoca il tono fosco insinuantesi mentre l’ombra dell’esperienza al fronte si faceva gradualmente spazio fra le brillanti gesta cavalleresche su cui insistevano le narrative ufficiali.

L’Inghilterra “piange i suoi morti… con fiera gratitudine”, trilla Lawrence Binyon in For The Fallen [Per i caduti], scritto nel 1914. La morte è “augusta”, con “una gloria che brilla sopra le nostre lacrime”. Al tempo in cui scrive Wilfred Owen in Anthem for Doomed Youth [Inno alla gioventù condannata], gli uomini “muoiono come bestiame”, pianti solo da “i cori striduli, demenziali fra mura gementi”. Una volta che “la verità” ebbe penetrato le nebbie della censura e si fu cristallizzata nei versi di Owen e d’altri, la gente giunse a pensare a questa guerra come “quella per farla finita con tutte le guerre”; peccato che non sia andata così, ovviamente.

Per somma ironia, date le circostanze, Lloyd George ebbe le sue informazioni da un giornalista, per aver partecipato a una conferenza post-prandiale di Philip Gibbs, corrispondente del «Daily Chronicle», appena tornato dal fronte occidentale. Quanto Gibbs confidò al Primo Ministro e ai suoi ospiti, egli contribuì di buon grado a nascondere al vasto pubblico. Rammentò poi: “La verità venne riferita scevra del nudo realismo di orrori e perdite, e della critica dei fatti … non ci fu bisogno di censura ai nostri dispacci. Eravamo noi i nostri censori”.

L’atteggiamento di Gibbs narra solo in parte la storia della rappresentazione giornalistica delle guerre, ovviamente. Phillip Knightley, il giornalista investigativo veterano che riprende queste corrispondenze in The First Casualty [La prima vittima], il suo classico di storia del giornalismo di guerra, ha ragione di trattare questo argomento come un’arena di contestazione.

I notiziari negli USA e nei paesi della “coalizione dei volonterosi” hanno giocato un ruolo ignobile nella diffusione di propaganda in quanto all’invasione e occupazione dell’Iraq, non tanto mediante censura diretta quanto per convenzione e concorrenza. Un’azienda televisiva britannica, ITN, occasionalmente ripassa un’immagine memorabile di autorevoli reporter politici mentre escono dalla porta principale di Ten Downing Street [sede del primo ministro, ndt], con copie del famigerato dossier governativo Le armi di distruzione di massa dell’Iraq, e attraversano di corsa la strada fino alle loro postazioni di ripresa sfogliandolo intanto in fretta per superare i rivali nel raccontarlo agli spettatori.

Un’asserzione del dossier era che una fabbrica a Fallujah stava sfornando quantità industriali di cloro come precursore essenziale nella fabbricazione di munizioni chimiche. Gli ispettori UNMOVIC visitarono l’impianto e riferirono il 17 gennaio 2003, sul proprio sito web, che non era funzionante da qualche tempo. A un esame della stampa britannica del giorno dopo, risulta un solo accenno al termine cloro – nel Times, ma in riferimento all’obbligo d’occhiali nelle piscine.

Più avanti ci fu la disputa fra la BBC e il gruppo indipendente di monitoring Media Lens sul numero delle vittime in Iraq. Mentre il progetto Iraq Body Count, basato su quanto riferito da media e ONG, dava stime di decine di migliaia di uccisi nell’invasione e nelle violenze susseguenti, un team di epidemiologi della Johns Hopkins University produceva una cifra maggiore di ben un ordine di grandezza, 655.000 nei primi tre anni (fino al 2006). Essendo questa opera di professionisti – e pubblicata nella rivista medica The Lancet, verificata da pari – perché, chiedeva Media alla direttrice del telegiornale BBC Helen Boaden, i suoi giornalisti parevano preferire tuttora cifre risultanti tutto sommato dai brogliacci di dilettanti benintenzionati? Risposta, tipica BBC: Boaden si era affidata al consiglio del “nostro specialista del nostro settore d’analisi e ricerca”. Chi fosse costui e come fosse pervenuto alle sue conclusioni, era apparentemente destinato a rimanere segreto.

D’altronde … fu ovviamente alla BBC che Andrew Gilligan disse agli ascoltatori del programma mattutino Today che nel dossier era compresa un’asserzione benché il governo “la sapesse probabilmente falsa”. Gli costò il posto, e da ultimo quelli del Direttore Generale e del Presidente del Consiglio dei Governatori – tuttora i soli a essere stati licenziati per effetto diretto del proprio ruolo in questa guerra.

Sappiamo che “le risultanze di spionaggio e gli elementi fattuali disponibili vennero modellati attorno alla politica”, perché questo appare testualmente in un memorandum del capo dei servizi britannici, MI6, ed è stato furtivamente fatto avere a un altro giornalista, questa volta del Sunday Times. Che politica? Si era nei primi mesi del 2002, allorché i leader dei paesi della coalizione ancora mantenevano la finzione che nulla fosse stato deciso, che gli ispettori ONU avrebbero sicuramente trovato prova delle armi di distruzione di massa – o che ne sarebbero stati impediti – e che solo quello avrebbe innescato la guerra. Sappiamo che era finzione, ora – avendolo a lungo sospettato – perché niente meno che Alastair Campbell, allora Direttore alle Comunicazioni del Gabinetto, l’ha detto all’inchiesta Chilcot di Londra: l’accordo era già stato preso da tempo fra Bush e Blair. L’ambito dirigenziale BBC era decisamente insozzato dopo un’altra inchiesta precedente, di Lord Hutton, che trovò “infondate” le accuse di Gilligan sul dossier. Il contrasto fra la prosa turgida del verdetto Hutton e la poetica di parecchio di quanto evidentemente avvenuto in precedenza, indusse il satirico veterano Francis Wheen a concludere che alla democrazia avrebbe fatto meglio un’inchiesta permanente senza arrivare a un verdetto – visto che questo sarebbe stato inevitabilmente aggiustato con qualche sorta di corruzione politica.

L’eco delle elucubrazioni di un eminente politologo, il professor John Keane, che pone l’accento sulla trasparenza e la vigilanza sul potere esecutivo come pietre angolari della “democrazia guardiana”, è quanto si direbbe che ci resta in un’era in cui sono evaporate differenze ideologiche sostanziose fra i maggiori partiti politici in gran parte del modo ricco, almeno.

Se dobbiamo effettivamente vigilare su quanto viene fatto in nostro nome, dobbiamo concentrarci su quello che “veramente sappiamo”, per citare Lloyd George tramite C.P. Scott. Tony Blair, l’ex-primo-ministro britannico che fece l’accordo segreto col presidente Bush per entrare in guerra con l’Iraq, è comparso all’inchiesta Chilcot la settimana scorsa usando l’occasione per battere il tamburo per la guerra in Iran, paese menzionato ben 58 volte nella sua testimonianza.

Questo quando gli USA stanno intensificando la propria presenza militare nel Golfo Persico, con la dislocazione di due incrociatori attrezzati con avanzati sistemi anti-missile ora in pattuglia permanente. Al tempo stesso, quattro stati del Golfo stanno per essere attrezzati con batterie di missili anti-missile Patriot, che preverrebbe eventuali rappresaglie contro di loro qualora l’Iran finisse sotto attacco USA. Significativo che tale installazione sia stata annunciata non dal Pentagono ma da indiscrezioni ai quotidiani – un altro esempio da aggiungere alla carica in Downing Street dei redattori politici e innumerevoli altri di quanto si è definito “giornalismo a passaggi segreti”.

Poi ci sono state le successive ondate di propaganda in anni più recenti, parlando sempre più di “minaccia” iraniana. Due ricercatori israeliani, Muli Peleg e Lea Mandelzis, hanno mostrato quanto fossero sincronizzate le preoccupazioni ufficiali e quelle mediatiche, dopo la guerra inconcludente d’Israele conto Hezbollah in Libano nel 2006, per concentrare il dibattito pubblico invece sulla pretesa minaccia esistenziale che emanerebbe da Tehran. E il mio studio personale sulla stampa britannica ha mostrato come la tematica abbia guadagnato posizioni nell’agenda politica nella seconda metà del 2005 a seguito dell’elezione a presidente dell’Iran di Mahmoud Ahmedinejad, e contemporaneamente la trattazione mediatica sia divenuta via via più bellicosa e propagandistica.

In un mio precedente articolo di questa rubrica ho attirato l’attenzione sulle elisioni e omissioni in un servizio del Times di Londra, basato su asserzioni della “intelligence occidentale” che l’Iran fosse – nell’agosto 2009 – a un solo anno dall’acquisizione di un missile nucleare pronto all’entrata in servizio. Non contento di ciò, il giornale fece seguito a dicembre con una storia su un “catalizzatore neutronico” per un’ arma atomica apparentemente in mano iraniana, sempre secondo indiscrezioni spionistiche: documenti poi valutati come dei falsi dall’intelligence USA, secondo Philip Giraldi, funzionario CIA del contro-terrorismo dal 1976 al 1992.

Ormai siamo in una fase d’ostilità contro l’Iran che fa venir in mente l’attacco all’Iraq a partire dal 1998 – quando gli aerei da guerra USA e britannici intensificarono la propria campagna di bombardamenti nell’Operation Desert Fox – al 2002, allorché furono avviati sistematici preparativi per l’invasione dell’anno dopo. Ancora nel 2001, un dibattito organizzato a Londra da Reporting the World comprendeva comunicazioni di redattori anziani, fra i quali Richard Beeston, redattore diplomatico del Times, la cui linea collaterale è apparsa nella prima delle due storie d’intelligence di quest’anno. Parlando della trattazione dell’Iraq, fece allora notare: “Sto andando avanti e indietro dall’Iraq da dieci anni ormai e non mi viene in mente alcuna altra storia dove la manipolazione sia così smaccata e trasparente, e non solo da parte dell’Iraq, altrettanto dal nostro lato — spudoratamente”.

Gli alleati USA, vicini e lontani, stanno intensificando i loro preparativi di guerra da un po’. Negli ultimi due anni, il solo Abu Dhabi ha comprato armi americane per 20 miliardi di dollari, con ancora abbastanza spiccioli da investire nella squadra di calcio di Manchester City. Anche in Australia, i ministri hanno impegnato 16 miliardi di dollari per acquisire una flotta di aerei Joint Strike Fighter [F35] per attrezzare il paese “alla futura partecipazione alle operazioni della Coalizione”, come ha detto il ministro della Difesa John Faulkner al Parlamento allorché fu annunciata la prima tranche di spesa. Fatto curioso su questo aeroplano: il suo raggio d’azione è poco più di 1.000 kilometri, entro la qual distanza dall’Australia si trovano solo paesi amici. Se quindi dovrà avere un ruolo nella Coalizione, sarà presumibilmente lontano da qui.

Lo schema è il solito, allora, e bisogna far valere, non sparire, le similitudini. Siamo andati in guerra contro l’Iraq in groppa a un cumulo di menzogne, causando la morte di oltre un milione di persone e oltre quattro milioni di senzatetto. Questo è qullo che veramente sappiamo; dobbiamo tenerlo ben presente, non archiviarlo, e abbiamo bisogno che il giornalismo faccia altrettanto. Un ministro della difesa britannico, Bill Rammell, che conoscevo superficialmente quand’era funzionario della National Union of Students, recentemente si lamentava che stesse diventando impossibile convincere il pubblico ad andare in guerra, per tre ragioni principali:

“Primo, il declino di deferenza e l’aumento di sfiducia nelle autorità, che minano i processi decisionali governativo e militare. Secondo, le tecnologie elaborate da media 24/7 e la nuova era dell’informazione, che comporta l’esigenza di un diverso tipo di comunicazione fra il governo e il pubblico in quanto alle operazioni militari. Terzo, una cultura da libertà d’informazione per cui tutto quel che è noto allo stato debba essere di dominio pubblico”.

Al che si potrebbe rispondere: tutt’e tre sono reazioni razionali alla storia di propaganda e offuscamento, costata tanto sangue e tante risorse preziose, dalla Grande Guerra all’Operation Iraqi Freedom.

Una modesta annotazione di speranza, nel deprimente scenario: il gruppo pan-parlamentare sulle tematiche conflittuali ha condotto il primo dibattito in assoluto nel parlamento britannico sulla “prevenzione del conflitto” come base alternativa per rispondere a conflitti e crisi. Dura solo un’ora e mezza, ma gratifica molto attivismo determinato e un modo di argomentare paziente. Il gruppo è emerso dalla campagna per il Ministero per la Pace, che ha ospitato a Westminster nel 2005 il lancio del mio libro Peace Journalism (coautrice Annabel McGoldrick). Speriamo tutti che cresca ancora.


COMMENTARY ARCHIVES, 5 Feb 2010 Jake Lynch

Titolo originale: BETWEEN IRAQ AND A HARD PLACE

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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