Lo sfruttamento dei minori, quando viene dall’Oriente (note dal XXVII Torino Film Festival) – Laura Operti

Shonen di Nagisa Oshima, Giappone 1969

Del grande regista giapponese Nagisa Oshima, ancora vivente, un’opera Shonen (Il bambino) non tra le più conosciute da noi, ma molto nota in Giappone, che racconta a quale terribile trattamento deve sottomettersi un bambino per procurare denaro alla propria famiglia. Viene spontaneo pensare a tutti i fatti deprecabili nel mondo che vedono bambini costretti dagli adulti a commettere penose azioni per raccimolare qualche elemosina. Qui è molto peggio.

All’inizio del film si vedono due individui, un uomo e una donna con l’aria abbastanza per bene che camminano insieme a un ragazzino e a un bambino più piccolo: improvvisamente la donna si getta contro una macchina e finge un incidente. I bambini fungono da comparse e l’uomo, dopo aver inscenato la tragica messinscena, convince il conducente dell’auto spaventato e con addosso un grave senso di colpa, a regolare privatamente la cosa dal punto di vista economico. Dopo qualche tempo l’uomo che è il padre dei bambini, mentre la donna è la matrigna, chiederà al bambino di 10 anni di gettarsi allo stesso modo contro le macchine fingendo l’ incidente. E così avverrà infinite e infinite volte e il bambino, sconvolto dalla paura, riporterà ferite, contusioni, lividi devastanti per il suo corpo, ma soprattutto per la sua mente e la sua anima. La famiglia per non essere scoperta si sposta continuamente in ogni parte del Giappone fino nel più profondo nord, tutto coperto di neve, per continuare a praticare questa criminale estorsione ai danni degli automobilisti. Vivono in squallidi alberghi, tra l’altro impedendo al bambino di frequentare la scuola e di farsi degli amici. Il film si ispira a un fatto realmente accaduto nel 1966 che aveva suscitato una grande indignazione nell’opinione pubblica. L’autore vuole esprimere con queste drammatiche immagini la mentalità postbellica del Giappone, come microcosmo di quella autorità patriarcale dell’impero che si sta dissolvendo, fino a indurre i propri figli verso comportamenti criminali. Infine gli scellerati genitori saranno fotografati dalla polizia e arrestati.

Uno dei momenti più strazianti del film è quando il bambino cade in una forte crisi, tanto che vorrebbe suicidarsi, parché durante uno dei finti incidenti diventa casualmente colpevole della morte di una ragazzina. Solo la presenza del piccolo fratello che si aggrappa a lui, come a chiedere una protezione che non ha da nessuno, lo induce a non portare a termine il folle gesto. Negli adulti invece sino alla fine c’è l’indifferenza a ogni implicazione morale, propria di quasi tutti i protagonisti del cinema di Oshima , estremo accusatore della società e della sue leggi.

L’impatto di questo film sugli spettatori è molto forte ancora oggi che sono passati più di 40 anni e imprime al tema dello sfruttamento e del maltrattamento dei minori una svolta verso la conoscenza di quegli atti estremi di cui non va mai persa la memoria.

(dalla Retrospettiva Nagisa Oshima)

Baseco Bakal Boys di Ralston Jover, Filippine 2009

Manila, quartiere periferico di Baseko, povertà ovunque. Qui il giovane regista filippino Ralston Jover filma una storia di amicizia nell’estrema miseria che vede protagonisti dei ragazzini “Bakal Boys”, ragazzi del metallo. Quel che c’è intorno a baracche, strade sconnesse, rottami d’auto è un bellissimo mare, nelle cui profondità i ragazzini con coraggioso sprezzo del pericolo si immergono per trovare ferraglia da rivendere. Tra le altre cose trovano anche un‘ancora e la recuperano faticosamente dal mare. La portano a un commerciante di roba vecchia, la vendono e sono molto felici. Ma uno di loro Utoy si accorge che il suo amico Bungal non c’è più e allora lo cerca disperatamente nei giorni successivi, ma non lo trova. Continuerà a cercarlo nel mare per giorni e giorni… fino a che scomparirà anche lui. Una piccola storia che lascia una grande tristezza.

Al valore drammaturgico si aggiunge nel film quello della documentazione etno- antropologica sulle abitazioni,sulla cucina, su alcune consuetudini e gli affetti famigliari, sullo scenario di desolazione che fa da sfondo alla grande metropoli.

Un film importante per il pubblico italiano perché ci mostra da dove vengono molti degli immigrati filippini, compagni ormai da molti anni nelle nostre case. Di cui non conosciamo né una parola della loro lingua, il Tagalog, né la loro storia di colonizzati, né molte altre cose.

Con la solita arroganza, che porta a dire che tocca loro imparare la nostra lingua e la nostra cultura e non viceversa, almeno per qualche tratto: contraddicendo al fatto che se si vuole il tanto auspicato dialogo tra le parti, è naturale che ci sia un atteggiamento ispirato a quella che si chiama “reciprocità”.

(Dalla Feature Film Competion Premio Cipputi)

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