The Wishful thinking. Storia del pacifismo inglese nell’Ottocento

Paolo Candelari

Giovanni Aldobrandini, The Wishful thinking. Storia del pacifismo inglese nell’Ottocento, LUISS university press, Roma 2009, prefazione di Eugenio Biagini, pp. 678

Come dice il sottotitolo il libro tratta della storia del pacifismo inglese nell’Ottocento.

E’ un libro corposo, erudito, adatto a chi vuole addentrarsi nella storia: ricco di riferimenti storici, filosofici, sociali, con dovizia di citazioni e di documentazione.

Oggetto di questo libro, come dice l’autore nell’introduzione, è la storia del pacifismo inglese vittoriano e edoardiano. Si propone una lettura critica del dibattito storiografico soprattutto inglese ed americano.

Il periodo trattato è quello che va dal Congresso di Vienna (1815) alla prima guerra mondiale (1918), ma con ampi excursus sia prima che dopo, soprattutto per inquadrare il contesto e dar conto delle origini anche ideali del movimento per la pace.

Il libro prende le mosse dalla fondazione della “Society for the Promotion of Permanent and Universal Peace” a opera di due esponenti quaccheri, in seguito nota come Peace Society, avvenuta nel 1815 e che contraddistinguerà il movimento per la pace per tutto il secolo. Si era la termine delle guerre napoleoniche: venti anni di guerra praticamente ininterrotta che coinvolsero tutta l’ Europa, con la partecipazione diretta dell’Inghilterra, altrimenti restia a intervenire direttamente nelle contese europee. L’impressione fu grande e traumatica: un anticipo di quelle che saranno le guerre mondiali. Negli ambienti più sensibili della società inglese ci si pose pertanto il problema del rifiuto della guerra: particolarmente in quegli ambienti religiosi che da secoli rifiutavano integralmente la guerra, come appunto i quaccheri.

Il libro seguendo la traccia della storia della Peace Society e di altri movimenti similari, approfondisce lo sfondo politico, economico e religioso del fenomeno pacifista: viene illustrata la storia della politica estera dell’Inghilterra nell’Ottocento e dell’opposizione pacifista e radicale alla guerra, alle sue guerre e alla cultura della guerra. Vengono prese in considerazione le relazioni tra gli attori politici e sociali (i movimenti pacifisti e quelli radicali, i loro attivisti, i loro leader, gli intellettuali, le elite politiche soprattutto aristocratiche, i ceti emergenti del commercio, dell’industria e della finanza); le loro tattiche, le strategie, i vincoli politici, economici e geopolitici, ma anche psicologici e ideologici, le continuità di argomentazioni, idee e lotte.

Ma presenta anche una visione più generale che contribuisce a farci comprendere le ragioni teoriche del pacifismo. E scopriamo con sorpresa quanto sono intrecciate le ragioni del commercio e quelle della religione, e diano un contributo comune alla formazione del pacifismo. La stessa realpolitik, a prima vista spietata visione dell’interesse di stato, può fungere da collante per il pacifismo.

Le origini del pacifismo si possono rintracciare nella tradizione liberale, nel femminismo, nel socialismo della Fabian Society, non però nel socialismo marxisto che ha sempre avversato le idee e i movimenti pacifisti nell’epoca trattata.

Una parte a sé è destinata al Romanticismo e all’Illuminismo come matrici del pacifismo.

Vi si trova anche un resoconto delle grandi conferenze internazionali dedicate alla pace e del lavoro svolto dalle organizzazioni internazionali, a cominciare ovviamente dalla Società delle Nazioni e da Wilson. Interessante poi la trattazione di figure straordinarie, veri e propri paladini del pacifismo, come Bernard Shaw e Bertrand Russel, mentre un capitolo è didicato alle inflenze che Tolstoj e Gandhi hanno avuto sul pacifismo inglese.

Importante anche la ricerca delle radici dei movimenti pacifisti che permette di scoprire una peculiarità britannica: infatti i gruppi pacifisti più convinti e radicali ebbero origine in quegli ambienti religiosi radicali sorti e sviluppatisi nei secoli XVII e XVIII.

L’autore distingue sin dall’inizio tra due “macro”correnti del pacifismo: quello assoluto, che vede nella guerra un male assoluto da evitare per principi morali, e un pacifismo relativo o “politico”, con varie sottocorrenti al loro interno, divisione valida per certi aspetti ancora oggi.

Il libro si chiude con una dettagliata disamina del grande dibattito suscitato da coloro che cercarono di opporsi alla Grande Guerra e una analisi della resistenza talvolta eroica che molti pacifisti opposero una volta esplosa la guerra. Da quei dibattiti si sono sviluppate le speranze in una gestione condivisa e multilaterale della politica mondiale che daranno luogo a istituzioni come la Società delle Nazioni.

Nel capitolo finale l’autore osserva opportunamente che: “…il carattere ottimista e utopista del pacifismo inglese in tutte le sue espressioni nonostante le contraddizioni, la sua ingenuità e a tratti la sua arroganza moralista, non ci deve far dimenticare che i pacifisti, e in particolare questi pacifisti, hanno rappresentato la “coscienza inquieta e critica” di ogni comunità politica e che anche sbagliando, come ha scritto il pur scettico Raymond Aron, si sono fatti carico del dovere della speranza”.


 

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