Shirin Neshat

Laura Operti

Shirin Neshat

Shirin Neshat bei einem Publikumsgespräch zu “Women Without Men” im Wiener Gartenbaukino | Di Manfred Werner CC BY-SA 3.0, Collegamento

Nell’universo dell’arte Shirin Neshat brilla di una luce particolare: fotografa, videoartista, ora regista di grandissimo talento, esprime una sublime forza eversiva rispetto a ciò che del suo paese di nascita, l’Iran, ma non solo, la opprime, la rattrista. Quel che si coglie dalla sua opera è proprio questo volersi liberare dagli elementi delle realtà sociali e politiche che avviliscono le donne e dal dolore di ciò che è persecuzione, chiusura, soffocamento .Nei vari mezzi in cui si esprime, Shirin Neshat, comunica dramma, inquietudine, ma anche molta energia. E qui ci sembra nascondersi e alimentarsi il suo grande fascino, riconosciuto ai più alti livelli internazionali nelle Biennali d’Arte e ora nei Festival del Cinema.

Shirin, che da molto tempo vive a New York, ha partecipato nello scorso settembre alla manifestazione Torino Spiritualità, con un intervento sull’”Estetica del disinganno” e con la presentazione di un video suo e uno del marito e compagno d’arte Shoia Azari alla Noire Contemporary Art.

Torino è una città che le è cara perché è qui che le straordinarie fotografie del progetto Women of Allah furono fatte conoscere da Marco Noire e Silvia Chessa nel 1997. Ho un ricordo personale in proposito: quando al Salone del libro scoprii per caso il catalogo della Mostra , mi resi conto di essere di fronte a un’opera eccezionale. In queste foto l’artista, sola o con un bambino o altre figure, è vestita con il chador, e le parti del corpo che restano visibili- viso, mani, piedi-sono ricoperte di segni calligrafici in lingua farsi che riportano versi d’amore. Questo non impedisce che l’immagine forse più celebrata sia quella della donna che abbraccia un’arma da fuoco. All’interno di una dialettica dell’esistente, del doppio schermo, che è il cuore della sua opera.

Per ricordare solo alcune tappe del suo percorso nei grandi luoghi dell’arte, ecco la partecipazione alla Biennale di Istanbul 1997, il Leone d’oro alla Biennale di Venezia 1999, per il video Turbulent, il primo di una serie dedicata al tema dell’identità sessuale in rapporto alla struttura sociale dell’Iran islamico; e ancora la personale al Castello di Rivoli, 2002 , la partecipazione a Documenta di Kassel 2002, e a Torino la partecipazione a una collettiva della Fondazione Sandretto.

Avvenuto il passaggio dalla fotografia al video, la sua Weltanshaung, usando lo strumento dell’immagine in movimento, ricerca storie emblematiche che esprimono livelli altissimi di drammaticità universale.

Visto in più occasioni, mi ha fatto una grande impressione Possessed 2001, una esplorazione della follia. Girato a Essaouira in Marocco è la vicenda di una donna che si muove in mezzo alla gente senza Hejab e nessuno si accorge di lei, fino a che lei non sale su alcuni scalini, si agitar, il suo comportamento diventa bizzarro e infine emette urla di terrore. A questo punto si verifica una sorta di inversione e la folla che le si è radunata intorno è come “possedutair“ dall’elemento schizoide che è nella donna. Qualcosa si rompe nell’ordine costituito e irrompe il caos, la fuga verso il lato oscuro dell’irrazionalità.

Le opere che la Noire Contemporary Art ospita in questi mesi sono Munis 2008, 12’45”e Odissey 2007, 11’. Munis è una delle quattro storie che appartengono al film Women without men, vincitore del Leone d’argento al Festival del Cinema di Venezia 2009, ispirato all’omonimo romanzo della scrittrice iraniana Shahmush Parsipur . E’ l’anno del golpe, 1953, che riuscì a deporre il governo democratico di Mossadegh per restaurare il potere dello Scià: si vedono manifestanti per le strade, cariche delle polizia, comizi, urla, feriti, morti. Le allusioni ai fermenti e alle sommosse dell’oggi sono nelle immagini . Ma qui l’elemento poetico sta nella donna, Munis, (l’attrice Shabnam Tolouei) che, testimone della morte di un attivista politico, lo vuole raggiungere, suicidandosi, gettandosi nel vuoto, come se per sempre potesse giacere al suo fianco e insieme a lui “vivere” come martire la battaglia contro il despotismo.

Odyssey di Shoja Azari è girato in un mattatoio fuori uso di Casablanca in Marocco, luogo desolato dove si praticava , come in tutti i mattatoi oltre che l’uccisione, anche la tortura dei poveri animali, forse senza l’intenzione crudele, ma per uno scivolamento verso il male che accomuna uomini e animali. I lunghi piani sequenza nelle silenziose tenebre di questo luogo di morte sono accompagnati come colonna sonora dai versi del poeta iraniano Ahmad Shamlou, in un immaginario dialogo tra la terra e l’uomo. La voce della terra dice all’uomo.”Ti ho dato il mio cuore, la mia anima, ti ho dato l’amore e tu mi hai abbandonato perché volevi raggiungere il cielo. Ma il cielo ti ha ingannato e ti ha fatto credere che la giustizia è la cosa più importante. Se tu, invece, avessi capito l’amore, non ci sarebbe stato bisogno di giustizia”.

Da un vecchio e malandato mattatoio il segno di quella “perdita”che l’umanità si è procurata da sola.

Fino al 15 dicembre, v. Piossasco 29 Torino

Tel. 3397158165, 0115364000 apertura su appuntamento


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