VITA COMUNITARIA: dalla trasformazione alla creazione – Margalida Reus

Vivo in comunità da 26 anni.
Quando arrivai a Bonnecombe, nel maggio 1982, le comunità , non solo quelle dell’Arca, erano in piena espansione: la vita comunitaria interpellava e attirava giovani e non giovani, e molti bussavano alla porta. Nel 1986 eravamo 100 persone a Bonnecombe, fra i quali 23 erano postulanti.
Siamo ora nel 2008 e molte cose sono cambiate!
Anche se vi sono molte forme di vita semi-comunitaria che emergono, le comunità di vita stanno sparendo. La vita comunitaria non è più di moda, non attira più le giovani generazioni, non fa più parte delle scelte di vita possibili nella società dei nostri giorni. Io faccio parte di quelle persone che hanno scelto di rimanere ancora in comunità.
Quando sono arrivata all’Arca, ciò che maggiormente aveva diretto la mia scelta era una sete di coerenza per la mia vita: che i miei pensieri e i miei atti potessero raggiungersi, unificarsi, per non vivere più uno sterile distruttivo divaricamento.
Nell’Arca, ho trovato quell’unità di vita che dinamizza l’essere profondo. Ho trovato anche come vivere il mio impegno per un mondo più giusto e più fraterno; sono cosciente del fatto che ogni gesto giusto nella mia vita quotidiana crea maggiore giustizia nel mondo e che la mia militanza non ha senso che se traduce questo movimento dall’interno verso l’esterno.
Oggi, per me la coerenza è sempre un motore potente per le  mie scelte, ma non è più il primo : oggi, vivo in comunità perché questa è un luogo privilegiato per vivere la trasformazione. Credo che è nella trasformazione interiore che si trova il senso della vita, non solo della vita comunitaria ma semplicemente della vita.
Gli ebrei sono molto chiari su questo punto. Ho sentito un giorno, in un ritiro comunitario, il rabbino Philippe Haddad. Ci diceva che la terra promessa viene descritta come il paese dove colano latte e miele, cioè un paese dove l’erba viene trasformata in latte, il polline in miele : la terra promessa è il luogo ove la trasformazione è possibile. Ci diceva: “nella speranza del mondo, c’è la speranza della mia propria trasformazione”.
Per i cristiani, questa trasformazione è particolarmente espressa nell’Eucarestia, ove il grano e l’uva trasformati in pane e vino diventano il corpo del Cristo, di quel Cristo che ci chiama alla trasformazione incessante, quel Cristo che è divenuto uomo perché l’uomo divenga, si trasformi in Dio, come dicono gli ortodossi.
La conversione, fondamento dell’Arca, deve condurci alla trasformazione. La vita comunitaria può essere il luogo ove questa trasformazione diventa possibile. Passa attraverso l’accoglienza dell’amore di Dio, che si esprime attraverso l’accoglienza dell’amore dei nostri fratelli e sorelle in comunità. Charles Legland ci diceva che la comunità è circolazione di amore. Posso trasformarmi quando sono sotto uno sguardo di amore e di benevolenza.
I fondamenti di ogni vita sono l’amore e la verità.
Sono anche i fondamenti della vita comunitaria.
Stabilirsi nell’amore e la verità è un’ascesi quotidiana essenziale che ci porta a quel movimento interiore che chiamo trasformazione : lasciarsi sempre rimettere in questione, accogliere le osservazioni degli altri come elementi che ci fanno crescere, imparare ad accettare l’altro nella sua differenza, la sua specificità, la sua verità. Imparare ad accogliere l’amore, a sentirsi amati e capaci di amare malgrado le nostre debolezze e la nostra miseria.
Apprendere ad amare senza giudicare. Sottoporci ad una costante potatura e purificazione.
In questa circolazione dell’amore che è la comunità, più siamo presi dall’amore di Dio, più diveniamo noi-stessi, la nostra identità diventa più specifica, unica.
E credo che sia su questo punto che la vita comunitaria mostra la sua debolezza : la comunità può essere un luogo ove la trasformazione si rende possibile ma è spesso un luogo ove vivere la identità specifica di ognuno non è facile. E’ come se ad un certo punto la comunità non potesse più assumere le conseguenze di questa trasformazione che lei stessa ha provocato. La trasformazione interiore porta alla scoperta della propria identità, della missione propria di ciascuno. Porta ad una differenziazione. Ciascuno di noi è diverso: carattere diverso, storia personale e cultura diverse, talenti diversi. Noi diciamo che alla base della nonviolenza c’è l’accettazione di ogni differenza. Alla base della nonviolenza c’è il cammino proprio a ciascuno della scoperta e l’accettazione della sua specificità propria.

E questa scoperta porta con sé un bisogno di creazione: si potrebbe quasi dire che fondamentalmente siamo creati per creare.
Credo che questo bisogno di creazione personale è una caratteristica molto importante della nostra società attuale: più cresce e si accentua la spinta verso l’uniformità, più l’essere umano ha bisogno di porre la propria diversità per poter vivere. E porre la propria diversità è anche dare ciò che abbiamo da dare di specifico. E’ in questo senso che uso la parola creare.
Mi pare che la vita comunitaria, in ogni caso così come era stata concepita nell’Arca, non era fatta per accogliere ciascuno e ciascuna nella propria specificità, nel proprio bisogno di creazione personale. Mi pare, al contrario, che l’Arca, come altre comunità nate nello stesso periodo, proponeva un modello al quale i compagni dovevano più o meno coscientemente conformarsi. Le cose sono cambiate ovviamente , ma ne rimangono delle tracce, e constatiamo soprattutto che non abbiamo un apprendistato comunitario che aiuti a sviluppare la specificità di ciascuno.
A Saint Antoine, ci poniamo questa domanda ora: può una comunità mantenere il proprio dinamismo creativo al di fuori del periodo della propria fondazione? E se si, come, in quale maniera?
Abbiamo appena festeggiato i nostri 21 anni (Saint Antoine è stata fondata nel settembre 1987). Abbiamo messo molta energia per la fondazione, per creare la nostra casa, per posare le basi della nostra vita comunitaria. Siamo riusciti perfino a mettere tutta la struttura a norma secondo le norme di sicurezza, la nostra vita materiale è più o meno assicurata nella nostra scelta di semplicità…e ora cosa facciamo? Come possiamo continuare a mantenere il medesimo spirito fondativo ? Come possiamo riuscire a non “sederci” in scelte già fatte? Come restare in uno stato di creatività permanente? Come possiamo dare a tutti quelli e quelle che si uniscono a noi la possibilità di fondare, di creare con noi ?
Stiamo riflettendo seriamente su questi temi e abbiamo anche previsto tre giorni di ritiro con due persone che verranno ad aiutarci dall’esterno, per cercare di “rifondare” la comunità, se non materialmente almeno nello spirito.
E mi sembra che al centro del problema ci sia proprio la creatività personale: le nostre comunità permettono alle persone che vi entrano di divenire ciò che fondamentalmente sono? Di dare ciò che loro hanno da poter dare? Se la comunità non dà uno spazio per la creazione personale ad ogni suo membro, non si rinnoverà, vivrà di rendita, del suo passato più o meno glorioso.
Sento spesso negli incontri dell’Arca la parola “eredi” : oggi noi siamo degli eredi, abbiamo ricevuto un tesoro che dobbiamo conservare.
Anche se sono profondamente riconoscente per questa eredità, non trovo che questa parola corrisponda a quello che vivo, non mi definisce. Non è quest’eredità che dà senso alla mia vita comunitaria; non è il passato che dà senso alla vita; il passato aiuta a costruirci, ci mostra cammini possibili, ci dà dei bagagli utili. Ogni generazione aiuta la prossima a costruirsi : il bambino vede più lontano di suo padre, perché è seduto sulle sue spalle. Si, ho ricevuto un’eredità e ringrazio molto per questo, ma non è per questo che rimango nella comunità. Il rischio di questa parola è di considerarlo come una definizione di ciò che noi siamo.
Non devo essere la guardia di un’eredità: devo utilizzarla per creare qualcosa di nuovo, farla fruttificare. Credo che la vera eredità che lasciano i fondatori sia il fatto di mostrare che il nuovo è possibile, che una nuova creazione è possibile, che una forma diversa è possibile, e che dobbiamo stare sempre in uno spirito di veglia, di vigilanza, per far emergere il Nuovo . Ci è chiesto di non mettere i nostri talenti sotto terra.
Per concludere, lessi un giorno in una rivista Panorama, una piccola citazione di un vescovo (purtroppo non ricordo il nome e neanche il numero della rivista). Parlava delle comunità religiose, e diceva:

“Non siate degli eredi, siate dei fondatori”.

Margalida Reus è la responsabile della Comunità dell’Arca di Lanza del Vasto di Saint-Antoine L’Abbaye
http://www.arche-de-st-antoine.com/

Traduzione italiana di Laura Lanza

Fonte: «ARCA notizie», anno XXIV, NUMERO 2 maggio/agosto 2009, quadrimestrale della Comunità dell’Arca in Italia