Come un uomo sulla terra

Laura Operti

Come un uomo sulla terra, 60’, colore, Italia 2008. Un film di Riccardo Biadene, Andrea Segre, Dagmawi Yimer. Consulenza storica di Alessandro Triulzi. Col patrocinio di Amnesty International Sezione Italiana

I fatti di questi giorni sul “respingimento” dei barconi pieni di uomini, donne e bambini, umanità disperata alla ricerca di una vita migliore, rendono di estrema attualità il film Come un uomo sulla terra.

I racconti, le interviste, le immagini contenute nel film ci danno un quadro di conoscenze da cui si esce frastornati e sconvolti. Che cosa sia un viaggio via terra attraverso il deserto libico, fino alle spiagge del Mediterraneo e da qui per mare all’isola di Lampedusa è un racconto degli orrori che stride con ogni idea di umanità.

Ce lo racconta Dagmawi, studente di giurisprudenza, etiope, che a causa della dura repressione politica nel suo paese decide di emigrare. Attraversa in un allucinante container il deserto tra Sudan e Libia. Questo rimane il peggior incubo del viaggio in cui sente per sé e per gli altri compagni di sventura la morte più vicina. Dal 2003 l’Europa e in particolare l’Italia chiedono alla Libia di fermare il flusso di migranti che salpano dalle coste africane. La polizia libica dunque ha intrapreso una politica di controllo del movimento di persone che produce traffici illegali, contrabbando, abusi, detenzioni in luoghi spaventosi. Dan ha vissuto tutto questo, ma è riuscito a salvarsi. «Riescono a imbarcarsi –dice-Dan — solo i più forti, robusti e disperati».

Arriva a Roma e qui inizia a frequentare la scuola di Lingua Italiana Asinitas Onlus. Incontra altri giovani immigrati, uomini e donne che hanno avuto tragiche esperienze simili alla sua. Segue dei corsi di video, impara a fare documentari. Finalmente un po’ di buona sorte: talvolta “il vento gira”. Così decide, proprio attraverso un documentario, intervistando altri ragazzi, di consegnare al mondo la testimonianza di quello che sta accadendo in Libia. Sono impressionanti soprattutto le interviste alle giovani donne che raccontano le sevizie e le umiliazioni che hanno dovuto subire nel momento della detenzione, che può durare molto a lungo e ha lasciato ferite indelebili nel corpo di alcune di loro.

Quello che succede durante il percorso di fuga in Libia per questi uomini che provengono  da molti paesi africani, Burkina Faso, Nigeria, Niger, Mali, Etiopia, Eritrea, Somalia, è raccontato nel film in modo molto particolareggiato, perché si vuol far prendere coscienza di tutti gli snodi della violenza del sistema repressivo libico e delle sue connivenze. L’effetto che sortiscono le immagini e i racconti è dunque di grande sdegno per come vanno certe cose nel mondo, ma forse ancor di più di  ammirazione per queste persone che si rivelano incredibilmente forti nel contrastare le disgrazie e l’ingiustizia. È un film che infonde coraggio, non depressione.


 

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