Gran Torino

Gran Torino

Enrico Peyretti

Gran Torino. Regia: Clint Eastwood. Con Bee Vang, Brian Haley, Brian Howe, Clint Eastwood, Dreama Walker, Geraldine Hughes. USA, 2009

Il soldataccio è umano

Gran Torino, chissà perché, è il nome di un’auto Ford del 1972, di quelle auto smargiassone dell’America prima delle batoste risanatrici. Walt, il proprietario, le somiglia, a prima vista. Ha fatto la guerra di Corea, e, dentro, è in macerie. Ha ucciso tredici uomini, non per necessità di difesa, e si disprezza nel disprezzare quei popoli. Ma ora se li ritrova vicini di casa, nel sobborgo di Detroit.

È convenzionalmente razzista, gli fanno schifo. Ma le vicende del quartiere lo portano a difenderli da una banda di violenti, ancora più schifosi.

Nasce buon vicinato e persino amicizia. Walt sente un rude affetto per Thao, il ragazzo che egli educa alla sua maniera, e per la ragazza che gli fa da interprete.

Il film tragico è la storia di una guarigione, nella malattia del vecchio Walt: guarisce dal razzismo, che resta un gioco verbale, guarisce dalla fede nelle armi, guarisce dal disastro interiore che la guerra ha prodotto in lui.

Sarà con la pura forza della dignità disarmata che affronterà quei violenti, provocandoli a cadere nelle mani della legge, e pagando lui stesso, ma così guarisce, nel modo scelto da sé, dalla tubercolosi che lo rode, quasi come quel rimorso. Ora è «in pace», anche da quel tormento. Insieme ai teppisti, ne escono male le famiglie dei due figli di Walt, conformisti senz’anima. Ne esce bene persino il pretino, appena partorito dal seminario, e in corso di educazione, come Thao.

Se vogliamo elencarli, i temi del film, toccati con saggezza, sono la guerra, il suo effetto su chi l’ha fatta (qui ci si ricorda dell’israeliano Valzer con Bashir), il razzismo e la sua cecità, la vecchiaia e la sua densità, la religione e le sue rare possibilità, la violenza mostruosa, ma impotente a togliere umanità.