Pace con giustizia per la Birmania – Jake Lynch

Perché i dentisti russi estraggono i denti ai pazienti dal naso? Perché i russi hanno paura ad aprire la bocca. Non è male come barzelletta, e ha acquisito attualità recentemente, degna di stare alla pari con quelle classiche dell’era sovietica, come quella sui poliziotti di Mosca soliti ad andare in pattuglia in tre (uno sapeva leggere, l’altro sapeva scrivere, il terzo teneva d’occhio due pericolosi intellettuali).

Fra coloro che ne ridacchiano ci sono i lettori della stampa privata birmana in pieno sviluppo. Oggi, si calcola, circa 170 nuovi settimanali o mensili rivaleggiano per l’attenzione nei chioschi, mentre dieci anni fa non ce n’erano proprio. Non sono affatto tutti di proprietà privata come sembrano– provenendo il denaro in molti casi da individui ben addentro al regime. Uno, the Northern Star [la Stella Polare], è gestito da un ex-ufficiale; un altro dal figlio di un generale.

Ma i loro giornalisti sono occupati a saggiare i limiti di dove possono spingersi, sotto lo sguardo attento del Press Scrutiny Bureau [Ufficio Vaglio Stampa] nazionale, dove la barzelletta russa è solo un esempio modesto di una delle loro tecniche chiave. Le storie sulla situazione politica birmana vengono controllate da vicino, ma nel riportare notizie dall’estero c’è un po’ più di larghezza.

Indugiare sulla sfida al regime autoritario dello Zimbabwe, per esempio, o sui processi in corso agli ex-dirigenti del regime dei Khmer Rossi nella vicina Cambogia, è sufficiente al lettore accorto per cogliere le ovvie trasposizioni. In un altro caso di scaltrezza, l’espressione Birmania libera, si dice, era artatamente nascosta in una immagine di una recente edizione, riuscendo a eludere il censore.

Ho sentito un accattivante resoconto di prima mano di questi giochetti da gatto e topo da un navigato giornalista birmano a un raduno la settimana scorsa nella città thai di Chiang Mai, a un duecento kilometri dal confine fra i due paesi. La gran parte dei presenti erano giornalisti birmani esiliati: blogger, o editorialisti della panoplia di media alternativi basati sul web come Irrawaddy News o Prachat Thai, con uno o due corrispondenti locali di media internazionali.

Il raduno, sesta conferenza annuale dei Media Birmani, era organizzato dall’Associazione dei Media Birmani in collaborazione con la Democratic Voice of Burma, e sponsorizzato dall’ US National Endowment for Democracy.

Hanno commemorato Kenji Nagai, il fotoreporter e operatore televisivo giapponese ucciso da un soldato che gli ha sparato in una strada di Rangoon mentre riprendeva le proteste dei monaci del settembre 2007. I suoi datori di lavoro, un’agenzia stampa e fotografica con sede a Tokyo – APF – avevano finanziato un premio in suo onore.

La prima vincitrice, Eint Khaing Oo, una reporter 24-enne di una delle riviste, aveva esagerato nel trattare le privazioni dei cittadini sfollati per il ciclone Nargis, nel 2008 – così evidenziando la colpevole mancanza di sostegno ufficiale – ed era stata sbattuta in prigione per “aver causato pubblica confusione”. Il premio è stato accettato da un amico per conto suo.

Il giornalista birmano – chiamiamolo Shwe – raccontò come lui e i suoi colleghi giocavano costantemente d’azzardo con un tale risultato “tentando di premere contro i limiti del consentito” e cercando di “approfittare della situazione entro la cornice data”.

Gli altri giornalisti a Chiang Mai sono stati ammoniti a non fotografarlo, per non metterlo inavvertitamente in pericolo. Shwe era tentato dalle potenziali occasioni di trattare le prime elezioni in Birmania in 20 anni, previste per il 2010.

Ci possono essere, ha detto, due o forse perfino quattro partiti governativi, con quelli d’opposizione, forse compresa la National League for Democracy, il partito guidato da Aung San Suu Kyi che fu privato della vittoria nelle elezioni del 1990 allorché i militari si ripresero proditoriamente il paese.

La legge elettorale non è ancora stata pubblicata, tuttavia è probabile che prescriva un parlamento bicamerale. La costituzione, a norma della quale devono aver luogo queste operazioni, consacra il posto delle forze armate – sotto la denominazione fuorviante e sinistra di State Peace and Development Council (SPDC)– come ente guida nella gestione del paese. Quindi è probabile che ci siano ben poche sorprese nel risultato e, ha detto Shwe, “la gente crede che le elezioni saranno probabilmente manipolate” (sulla cui questione è stato visibilmente cauto a non esprimere una propria opinione).

Giornalisti attivisti

Molti dei convenuti a Chiang Mai si considerano attivisti oltre che giornalisti. Loro scopo è usare il proprio giornalismo per catalizzare e realizzare in qualche modo un cambiamento politico in Birmania.

Un veterano della lotta, U Win Tin, giornalista e dissidente 78enne rilasciato il settembre scorso dopo 19 anni di prigione, aveva registrato un messaggio che è stato rivisto su video alla conferenza. Contrastare l’ingiustizia, disse, era dovere di ciascuno “e specialmente dovere di tutti i giornalisti”. Per assolvere il quale “dovrebbero tirar fuori la verità e scrivere secondo il codice dell’etica”.

La strategia si basa sulla questione di principio che, se il mondo esterno ne viene a sapere di più su quel che avviene nel paese, l’opinione pubblica sarà indignata, la coscienza verrà punta sul vivo, la pressione sui governi avrà consistenza, il che si tradurrà in qualche modo in una pressione sul regime stesso. Dopo tutto, secondo questa ipotesi, i generali che gestiscono la Birmania sembrano tenerci molto a controllare il flusso d’informazione, quindi ci dev’essere qualcosa in ballo.

C’è parecchio di apprezzabile in questo approccio. Ha effettivamente contribuito all’impressionante movimento di solidarietà, che ha esercitato un’efficace pressione sui governi perché applicassero sanzioni economiche sulla Birmania. Una direttiva dell’Unione Europea, per esempio, proibisce alle aziende degli stati membri di fornire armi al paese, o “la vendita, la fornitura o il trasferimento, direttamente o indirettamente, di attrezzatura che potrebbe essere usata per la repressione interna”.

Riconoscendo le politiche di sviluppo brutali e corrotte del regime militare, proibisce inoltre esportazioni di attrezzatura o tecnologia “dove l’impresa in questione è coinvolta in operazioni di taglio e lavorazione di legname, in attività minerarie di carbone, oro, argento, ferro, stagno, rame, tungsteno, piombo, manganese, nickel e zinco ed estrattive e di lavorazione di pietre preziose e semi-preziose”.

Le regole furono rafforzate in una nuova versione adottata nell’aprile 2008, mesi dopo la rivoluzione di zafferano. Kenji Nagai morì e molti giornalisti e fotografi indigeni corsero pesanti rischi per portare fuori le immagini ora incise indelebilmente nella coscienza di milioni di persone nel mondo. Le colonne di monaci in abiti arancioni che sfilavano davanti alle pagode di Rangoon passarono direttamente sugli schermi televisivi grazie ad attivisti-giornalisti attrezzati, addestrati e mobilitati dalla Democratic Voice of Burma e dalle reti sotterranee, lasche ma efficaci, che hanno fondato e sostenuto nel corso di molti anni.

Così la prima parte della strategia sta funzionando. Negli Stati Uniti, analogamente, il parlamento ha approvato una nuova legge nel luglio 2008, che limita le importazioni di gemme: un ulteriore giro di vite per mettersi in pari con le sanzioni UE. Alcuni deputati che contribuirono al dibattito parlamentare hanno fatto riferimento frequentemente alla copertura mediatica della repressione dei monaci e della risposta insensibile del regime al ciclone Nargis.

Ma nulla illustra meglio le frustrazioni rabbiose presenti negli sforzi per isolare l’SPDC che l’impotenza dell’unica superpotenza mondiale. Tale è la nullità dell’influenza USA in questo caso che gli americani hanno dovuto scoprire da soli, proprio mentre stavano completando la costruzione della nuova dispendiosa ambasciata a Rangoon, che la sede del governo birmano doveva essere trasferita nella nuova capitale Naypyidaw, costruita appositamente.

Questo dettaglio proviene da un impressionante studio accademico dei ricercatori Renaud Egreteau and Larry Jagan (Back to the Old Habitus, Ritorno alle vecchie abitudini, redatto per l’Istituto di Ricerca sull’Asia Sudorientale Contemporanea di Bangkok), secondo i quali i generali birmani sono ora in grado di praticare un “isolazionismo senza isolamento”. Credono cioè di poter non considerare UE e USA, dice la relazione, fintantoché possono giocare la Cina contro l’India, e assumere un ruolo semi-staccato nell’Association of South-East Asian Nations. La Birmania ha declinato il suo turno alla presidenza ASEAN, nel 2006, ed è ben decisa a ignorare l’assistenza di qualunque nuovo ente di diritti umani – previsto dalla Carta ASEAN di nuova adozione – affidandosi invece ai suoi forti legami bilaterali con Singapore e la Thailandia.

Molti nella regione, come altrove, sperano in un impegno più costruttivo ed efficace dell’amministrazione Obama rispetto a quanto abbiano mai avuto dal presidente George W. Bush, che si accontentò di occasionali pronunciamenti ventosi come al Vertice APEC del 2007 a Sydney, quando definì la repressione successiva alle proteste del settembre come “priva di giustificazioni” e “tirannica”. Hillary Clinton, in uno dei suoi primi tour da segretario di Stato, indicò che Washington stava “considerando quali misure potesse prendere che possano influire sull’attuale governo birmano e modi per poter aiutare più efficacemente i birmani stessi”.

Ci può quindi essere spazio per un’azione multilaterale più concertata, che forse comporti una posizione più attiva da parte degli altri membri ASEAN e offra modi di associare anche Cina e India – sebbene ciò dipenderà da livelli ben maggiori di fiducia che siano suscitati da Obama con effettivi cambiamenti di politica per convincere i cinesi, in particolare di non essere oggetto di una politica di accerchiamento  da parte di Washington.

La Cina ha perso influenza in Birmania, dice lo studio di Egreteau e Jagan, con la purga del 2004 in cui la fazione ‘Military Intelligence’ del SPDC, assiduamente coltivata a Pechino, fu improvvisamente marginalizzata. Il suo capo, Khin Nyunt, fu “degradato” dopo la pubblicazione della sua “road map” verso una “fiorente democrazia disciplinata”, il cui culmine sono le elezioni dell’anno prossimo. Ciò “seminò confusione nella comunità internazionale”, dicono gli autori, i quali si basano su franchi incontri avuti con diplomatici e analisti i cui nomi non sono divulgati e su numerose fonti pubbliche, al punto che i thai proposero di ospitare una conferenza multilaterale con coinvolgimento ufficiale per discutere la transizione birmana dandole una mano – il cosiddetto “processo di Bangkok”. L’iniziativa non ebbe successo, ma ne rimane il potenziale affinché possano emergere elementi “pragmatici e aperti di mente”, magari attraverso il processo elettorale, da impegnare più efficacemente in conversazioni su autentiche riforme, sia pure forse in forma privata.

La giustizia in fase transitoria

Vale la pena di domandarsi come la comunità giornalistica impegnata rappresentata a Chiang Mai potrebbe contribuire a un tale processo. Un altro interessante articolo accademico di Roman David e Ian Holliday, due ricercatori con sede alla City University di Hong Kong, considera il concetto di giustizia transitoria nel contesto birmano. E’ un argomento spesso sollevato all’indomani di una guerra o di mutamento di regime, allorché insorgono problemi sulla colpevolezza di un gran numero di persone – ovviamente i capi, ma anche ufficiali, soldati, polizia e molti altri – in violazioni di diritti umani.

Il dubbio è: accusare tutti di complicità trascinandoli individualmente in tribunale e processandoli con qualche sembianza di regolare processo, oppure ricorrere ad altre procedure capaci di garantire a una popolazione sollevata dalla tirannia ma ancor furiosa per i suoi effetti che le cose sono davvero cambiate? Secondo David e Holliday, bisogna superare tre test: di adeguatezza, discontinuità e fattibilità. Cioè, il processo di transizione non deve semplicemente perdonare tutti, deve tirare una vera riga conclusiva sul passato, e dev’essere fattibile nell’ambito delle risorse del nuovo stato e in modo tale da non gettare ombre sulle sue prospettive.

La Commissione Sudafricana per la Verità e la Riconciliazione è spesso – come anche in questo caso – proposta a modello. I perpetratori dovettero vuotare il sacco a fondo sul proprio coinvolgimento e testimoniare in udienze pubbliche su quanto sapevano, in particolare sulla sorte di singole vittime, potendone ottenere in cambio l’amnistia. Per la Birmania sarebbe opportuna qualche variante, si sostiene, insieme a un’operazione di ripulitura in cui i pubblici ufficiali potrebbero ripudiare le loro pratiche precedenti e impegnarsi solennemente a intraprenderne di nuove – o perdere il posto. La mia collega dell’ università di Sydney, Wendy Lambourne, che è un’autorità in materia, insiste che nel quadro deve entrare anche la giustizia sociale, la gente deve provare un palpabile senso di equità nella vita quotidiana.

L’attrazione della giustizia in fase transitoria (o pretransitoria, come la chiamano David e Holliday per la Birmania), consisterebbe nell’incentivare la possibilità di ritenere possibile il cambiamento dall’interno del regime. Se le alternative sono o resa incondizionata agli avversari o mantenimento dell’attuale potere, si incoraggia probabilmente una mentalità da “fine amara”, specialmente se i generali riescono a mantenere abbastanza contatti esterni diversi da poter considerare le sanzioni UE e USA con spensierata indifferenza.

Il mio contributo al raduno di Chiang Mai è consistito nel lanciare l’idea del giornalismo di pace come principio organizzativo per la comunità di attivisti/giornalisti, uno dei cui essenziali principi è evitare il modello di reportage a “tiro alla fune”, dove qualunque cosa non sia “vincente” tende a essere interpretata e riferita come “perdente”. I giornalisti di pace si attiverebbero volentieri per qualunque suggerimento, da qualsiasi parte, per un cambiamento in direzione della trasparenza, democrazia e dei diritti umani in Birmania – compresa l’idea della giustizia in fase transitoria – per rimbalzarli nella sfera pubblica della discussione. Ci vorrebbe parecchio autocontrollo – ti monta la rabbia al titolo provocatorio dello studio di David/Holliday, Setting the Junta Free [Rilasciare la Giunta] – ma questo può essere un valido contributo alle prospettive di vero cambiamento. E sarebbe un modo per onorare il sacrificio di persone come Kenji Nagai, U Win Tin and Eint Khaing Oo.

Back to the Old Habits, di Renaud Egreteau e Larry Jagan, può essere scaricato da: http://www.irasec.com/en/publications_detail.php?hId=95

‘Setting the Junta Free’ è apparso nel periodico australiano Journal of Political Science, Vol 41, No 1 (solo in abbonamento).

(da Chiang Mai, Thailandia)
Traduzione italiana a cura di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale:  PEACE WITH JUSTICE FOR BURMA
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=897