…e poi, sempre a lume di (più) candele… – Cinzia Picchioni

A proposito del secondo incontro Leggere Gandhi a Torino
Centro Studi Sereno Regis, mercoledì 18 marzo 2009

Abbiamo cominciato ad appoggiare i piedi bene-bene per terra, a rilassare le spalle, a chiudere gli occhi (per un po’ potevamo non vedere), la bocca (per un po’ potevamo non parlare) e siamo stati/e qualche tempo in silenzio, per acquietare la mente dopo le molte parole.
Abbiamo letto (p. 47) Gandhi dire: «La forza sta nell’assenza di paura» e lo yoga ci offre abhyaya mudra, il gesto (mudra) del coraggio (abhyaya), che è anche chiamato il «gesto che tiene lontana la paura». Lo abbiamo sperimentato: abbiamo immaginato di avere un piano su cui appoggiare il braccio destro e, ruotando sul gomito, abbiamo alzato l’avambraccio, lentamente, fino a che la mano è stata accanto alla spalla, parallela, un po’ come l’iconografia vuole rappresentare il saluto «augh» degli Indiana pellerossa. E ci siamo fermati/e. Con la mano destra un po’ concava, come a raccogliere il coraggio, o anche ben tesa, per «fermare» la paura. Il gesto fa parte di una sequenza «I dodici gesti della pace», inventata da una delle più grandi maeste – donne – di yoga viventi, Gabriella Cella Al-Chamali. Vive e insegna in un ashram sulle colline di Piacenza (che da solo meriterebbe una visita).
A p. 51 di Hind Swarâj si legge Gandhi dire: «Se non corressimo da luogo a luogo con l’aiuto delle ferrovie e simili strumenti da far impazzire, potremmo evitare gran parte della confusione che ne deriva». Abbiamo ricordato l’avvento – accanto allo Slow Food – dello «Slow Travel», nato negli Stati Uniti da un pugno di appassionati slow travelers le cui regole sono: resta almeno una settimana in un posto; guarda quello che ti sta intorno e piuttosto che correre a vedere i «soliti» posti turistici usa la teoria dei «Cerchi Concentrici» e fai questi cerchi intorno a te, proprio lì dove sei in quel momento. Per chi volesse approfondire: www.reduceartflights.com; www.aitr.it; D. Demetrio, Filosofia del camminare, Cortina; Il cammino di Santiago de Compostela, L’Età dell’Acquario; A. Fiorin, Salam shalom e E. Rigatti, Minima pedalia, entrambi di Ediciclo (www.ediciclo.it).
Sempre a proposito del viaggiare
Se avessimo un minimo di buonsenso termineremmo il viaggio ancora prima di iniziarlo, tornando in noi. L’unico turismo responsabile è quello necessario. […] Per quanto lenti, incerti o spediti, sono i nostri passi il vero viaggiare, non ruote, ali o navi, comodi e veloci mezzi di trasporto, che però ci lasciano fermi. […] No, non è il mezzo di trasporto o la sua velocità che fa di noi dei turisti consapevoli della necessità di viaggiare, ma […] salire le scale e guardare dalla finestra della cella che fu di Tommaso d’Aquino, toccare la terra su cui si sdraiò Francesco d’Assisi… (tratto da F. Zaccaria, Lontano da dove?, «Valore alimentare», maggio 2006).
Abbiamo saputo che già nel 1982 Marguerite Yourcenar diceva:
Visitare bene un paese equivale a cercare di conoscerlo e, fino a un certo punto, a farlo proprio nel suo presente e nel suo passato, a tentare di vedere infine ciò che significa per coloro che ci vivono.
Pronunciava queste parole in una conferenza dal titolo Viaggi nello spazio e nel tempo, ma oltre che nello spazio e nel tempo abbiamo scoperto si può viaggiare stando fermi/e: lo yoga ci offre Shavayatra, cioè «viaggiare attraverso il corpo» e lo abbiamo sperimentato: ci siamo appoggiati/e allo schienale, abbiamo allungato le gambe, abbiamo rilassato le braccia lasciandole penzolare nel vuoto e abbiamo visualizzato e/o percepito con la coscienza corporea i vari punti del corpo che sentivamo pronunciare. Centro fra le sopracciglia …cavità della gola … articolazione della spalla destra …articolazione del gomito destro… e così via, per 61 punti che ci hanno riportato alla partenza, al «centro fra le sopracciglia», dove risiede il «terzo occhio», quello che «vede» la vera realtà, quel «non si vede che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi» di cui parla Il piccolo principe. Lo Shavayatra è una tecnica di rilassamento che aumenta l’abilità a concentrarsi e, addestrando la mente a concentrarsi su un punto per volta, può anche considerarsi una tecnica di meditazione.
E a proposito della domanda di p. 51 «È il Dio dei musulmani diverso da quello degli indù?» abbiamo praticato Dharmikasana, il gesto della devozione, una pratica che andrebbe eseguita in ginocchio, ma che noi abbiamo svolto dalle sedie, piegando la schiena, lasciando le braccia abbandonate verso terra, in un’attitudine di umiltà che intendeva richiamare le parole pronunciate da Gandhi a p. 51 “Se io mi inchino gentilmente, a maggior conto lo farà lui» (e «lui» è un musulmano). La posizione yoga è proprio quella assunta dai musulmani durante le loro preghiere. E mentre il nostro corpo stava flesso nella posizione della devozione abbiamo ascoltato queste parole:
Flettiti e resterai integro, piegati e ti raddrizzerai, svuotati e sarai colmato, consumati e ti rinnoverai, abbi poco e riceverai molto, abbi molto e sarai confuso. Perciò il saggio abbraccia l’Uno ed è di esempio al mondo. Non si mette in mostra e perciò risplende, non si giustifica e perciò viene riconosciuto, non si vanta e perciò emerge, non si identifica con le sue opere e perciò dura. È perché non compete che nessuno può competere con lui. (tratto da Lao-tzu, La regola celeste, (dal Tao Te Ching), Demetra, Bussolengo 1995).

Ancora a p. 51 di Hind Swaraj abbiamo letto della protezione delle mucche, e giacché nello yoga esiste proprio una posizione «del muso di mucca (o vacca)», l’abbiamo sperimentata, pur nella sua forma «facilitata», dalla sedia. Si chiama Gomukhasana e – per ribadire il concetto che lo yoga è una scienza eminentemente pratica – è un po’ difficile spiegarla con parole. Conviene provarla. E noi l’abbiamo fatto.
Infine a proposito del capitolo 12, p. 55, dove si parla dei medici, ho trovato una frase-mantra di Zoroastro (o Zaratustra. Tra l’altro poco prima – p. 46 – avevamo letto dello zoroastrismo):
La cura viene dalle piante e dal coltello, da una persona retta e santa e dal mantra che uno canta.
E così abbiamo sperimentato l’azione curativa del mantra ascoltandone uno, cantato per tre volte, terminato dalla recita del suono primordiale, Om, seguito da tre volte la parola Shanti che significa «pace». Abbiamo avuto tra le mani il testo – in sanscrito e in italiano – come «ricordo» della serata. Il testo – recitato in sanscrito, il linguaggio dell’anima – dice così:

Om
saha navavatu
saha nau bhunaktu
saha viryam karavavahai
tejasvi navadhithamastu ma vidvisavahai
Om shanti, shanti, shanti
Possa proteggerci entrambi (maestro e praticante),
per crescere insieme in conoscenza
e perché la nostra ricerca diventi in entrambi vigorosa e luminosa.
Che non abbiamo mai a odiarci.
Om pace, pace, pace.

Grazie, Cinzia Picchioni