Appropriarsi degli avvenimenti

Jake Lynch

Abito a St.Ives, sobborgo nord di Sydney, in una zona nota come Ku-ring-gai, così chiamata dalla gente aborigena sua tradizionale proprietaria e custode. Ku-ring-gai è stata nominata in uno studio comparativo l’anno scorso per avere la più alta qualità di vita in tutta l’Australia, che è a sua volta in cima all’Indice di Sviluppo Umano dell’ONU; per cui si potrebbe dire che godiamo della qualità suprema al mondo (se sentite un rumoretto di fondo, sono gli agenti immobiliari locali che temperano le matite).

Erano persone come me, senza dubbio, che Rihab Charida aveva in mente quando disse a un pubblico a Sydney che non poteva avere “letteralmente alcuna idea” di come fosse la vita per i palestinesi. Ascoltandola, ricordavo come, al mio primo viaggio in Cisgiordania, trovai che nulla di quanto avevo letto mi avesse del tutto preparato alle realtà quotidiane affrontate dagli amici che ci fecero sentire così ben accolti.

E nulla in cui ci s’imbatte in visite brevi può dare più che un’impressione generale dell’impotenza, del pericolo imprevedibile e dell’assoluta casualità della vita sotto l’occupazione militare israeliana.

Charida è conosciuta a molti di noi come corrispondente per l’Australia del canale televisivo informativo iraniano Press TV, nella cui funzione ha dovuto intervistarmi più volte. E’ anche figlia di profughi palestinesi e si rivolgeva al pubblico di un incontro settimanale divenuto un’istituzione  a Sydney, Politica al pub.

Il quale pub occupa un posto di rilievo in molte comunità australiane, per cui gli scambi di vedute che avvengono effettivamente in un circolo gaelico locale servono ad appropriarsi, a entrare negli avvenimenti mondiali, pur da questo continente privilegiato e alquanto schermato. Ogni venerdì sera un gruppo diverso di relatori fanno a turno per proporre dichiarazioni e rispondere alle domande del pubblico.

Quella sera si aprì con la celebre attrice teatrale e cinematografica Judy Davis, che arrischiò, e concluse con tempistica comica squisita, un aneddoto sul suo tentativo di servire un pranzo a un ospite ebreo, fallito quando risultò che il pasto preparato non ottemperava ad alcune osservanze religiose. Lei poi rievocò varie conversazioni avute nel corso degli anni con colleghi del mondo dello spettacolo sul conflitto con i palestinesi.

Il numero spiritoso eppur commovente di Davis finì con un invito a noi di unirsi a lei nel plaudire al coraggio di quelli che parlano chiaro, come Charida, e il compagno di discussione Antony Loewenstein, il giornalista e autore specializzato nel sollevare domande, nell’ambito della comunità ebrea di Sydney, che molti preferirebbero piuttosto non porre.

Una di queste immedesima nel conflitto anche il frondoso St.Ives; che dispone di una filiale della catena di cioccolaterie Max Brenner, locale fisso per i giovani del posto, preferibile certo, almeno per i loro genitori, a farli trascinare al pub – ma ci rende complici del conflitto e addirittura del comportamento della cosiddetta “Forza di Difesa Israeliana” (IDF, Israel Defence Force). Recentemente, Loewenstein ci ha avvisati dei vanti dei proprietari aziendali del caffé su come essi sostengono le truppe.

Sotto il titolo ‘In campo con i soldati’, il gruppo Strauss dice ai cibernauti della sua pagina web Responsabilità aziendale che:

“La nostra relazione con i soldati risale alla nascita del Paese e anche oltre. Consideriamo una missione e una necessità continuare a fornire sostegno ai nostri soldati, migliorare le loro condizioni di vita e di servizio, e addolcire i loro momenti speciali. Abbiamo adottato il plotone di ricognizione del Golan da oltre 30 anni fornendogli una continua varietà di prodotti alimentari per il loro addestramento o le loro missioni, e pacchetti di conforto personale per ognuno di loro che completa il percorso. Abbiamo anche adottato i soldati del Shualei Shimshon Meridionale del plotone del Givat allo scopo di migliorare le loro condizioni di servizio e viziarli con i nostri migliori prodotti proprio anche lì al fronte”.

Il plotone del Givat ha partecipato all’Operazione Piombo Fuso, l’assalto a Gaza iniziato il 27 dicembre 2008, e il plotone del Golan svolge la sua ricognizione nel territorio carpito illegalmente alla Siria nel 1967 e tuttora illegalmente trattenuto.

Apartheid

Il che pone Max Brenner su una linea di fronte diversa, quella che s’impone alla mente di chiunque si sia chiesto, come molti del pubblico di Politica al pub: cosa posso fare per reagire alla pura brutalità e illegalità di trattamento dei palestinesi da parte di Israele?

Il cioccolato in vendita da Max Brenner è importato da Israele, sicché i ricavi vanno direttamente a sostegno dell’economia del paese e l’azienda, secondo quanto afferma, fa di tutto per sostenere i militari. Finendo così direttamente in una categoria individuata da Naomi Klein come obiettivo valido per il boicottaggio.

E’ uno degli innumerevoli confronti persuasivi fra la situazione riguardante i palestinesi e quella dei neri nel Sudafrica dell’apartheid. In effetti, l’allora ministro sudafricano allo spionaggio, Ronnie Kasrils – un comunista d’annata di ascendenza ebraica – disse un paio d’anni fa, in visita ai territori occupati, che l’architettura della segregazione cui aveva assistito era peggiore che ai brutti tempi di casa sua.

“La miglior strategia per porre fine all’occupazione sempre più sanguinosa è che Israele diventi bersaglio di un movimento globale che ponga fine all’apartheid”, scrisse Klein in The Nation, mentre il martellamento di Gaza era al suo acme.

Negli anni ‘80, ricordo di aver partecipato alla massiccia dimostrazione anti-apartheid a Londra, dove parlò il leader in esilio dell’ANC Oliver Tambo, insieme al reverendo Jesse Jackson. “Non è il poveraccio o la prostituta”, attaccò Jackson rivolto alla folla ammassata in Trafalgar Square, “ma l’uomo con abito in tre pezzi a mantenere vivo l’apartheid in Sud-Africa oggidì”. Era un appello a mordere sulle aziende commerciali, che dipendono in ultima analisi da noi per sopravvivere.

Anche lo sport veniva considerato un mezzo per esercitare pressione. “Gli sport e il mondo degli affari hanno parecchio in comune”, farlocca il sito web di Strauss. “Non sorprende che il linguaggio degli affari usi spesso termini del mondo sportivo come lavoro di squadra, amicizia, tolleranza e sostegno”.

Uno dei manifesti classici anti-apartheid, che ornava le nostre camerette da studenti, mostrava un poliziotto sudafricano che brandiva un sjambok (frusta di cuoio, ndt) contro una folla di manifestanti neri, su cui campeggiava lo slogan: “Se tu potessi vedere il loro sport nazionale, forse ci terresti meno a giocar a rugby con loro”.

Posso immaginare di distribuire volantini davanti a Max Brenner a St Ives, magari mostrando una famiglia palestinese squadrata minacciosamente da un soldato israeliano che imbraccia il fucile, con un commento tipo “Se tu vedessi che cosa hanno a colazione, forse ci terresti meno a mangiare il loro cioccolato”. Potrebbe causare un bel po’ di casino.

A St.Ives vive una consistente comunità ebraica, anche se non dobbiamo saltare alla conclusione che i suoi membri automaticamente sostengano Israele, non più di quanto faccia Antony Loewenstein – in effetti, molti possono benissimo essere imbaldanziti a dire apertamente quanto credono giusto dal suo coraggio ed esempio. Un altro contingente di rilievo localmente è di emigrati sudafricani, molti dei quali contenti di vedere la fine dell’apartheid, sebbene molti di loro delusi dai perduranti problemi del paese abbiano votato, con i loro piedi, andandosene.

Lobbying

Gli attivisti in Australia stanno raddoppiando gli sforzi di lobbies per spingere il governo ad adottare una linea più ferma. Le dichiarazioni della facente funzione di primo ministro Julia Gillard all’inizio dell’ultima crisi, proclamanti “il diritto di Israele di difendersi” sono state oggetto di particolare scontento. Il ministro degli esteri Stephen Smith ha ora accettato di incontrare una delegazione che chiederà all’Australia di:
“Usare leve diplomatiche per:

  • richiedere che il Quartetto per il Medio Oriente e il suo inviato speciale Tony Blair, e l’inviato speciale USA in Medio Oriente George Mitchell, affrettino una giusta pace nel conflitto israelo-palestinese ponendo fine all’embargo economico e all’occupazione illegale di Israele dei Territori palestinesi;
  • esigere pieno e incontrastato accesso umanitario al personale umanitario e suoi assistenti, con l’inclusione di alimenti, carburante e trattamenti medici;
  • assicurare l’immediata rimozione del blocco israeliano di Gaza onde permettere libertà di movimento a persone e commerci verso e da Gaza”.

La lettera inviata a Smith continua:

“Sollecitiamo inoltre il governo australiano ad aumentare il proprio impegno umanitario verso i civili palestinesi toccati dal conflitto:

  • mediante l’aumento immediato dello stanziamento di fondi e risorse per gli sforzi di soccorso e ricostruzione ai fini di un recupero a lungo termine;
  • fornendo immediatamente sostegno in natura ai civili e specificamente aiuto a donne e bambini danneggiati dal conflitto per garantire l’accesso a servizi sanitari adeguati (incluse cure in paesi terzi e/o in Australia secondo quanto necessario);
  • aumentando immediatamente l’accesso a opportunità d’istruzione per i palestinesi, compresi programmi di borse di studio in Australia, per formare competenze adeguate alla ricostruzione a lungo termine a Gaza”.

Quest’ ultimo punto ci riporta il tema in modo diverso, ovviamente, dato che noi accademici universitari accetteremmo volentieri in molti casi borsisti palestinesi nei nostri corsi di laurea. Un’altra opzione, spesso sollevata, ci troverebbe più divisi, tuttavia. Dovremmo estendere il nostro boicottaggio dagli uomini del Gruppo Strauss a uomini e donne in funzioni accademiche?

Quando saltò fuori questa domanda a Politica al pub, Rihab Charida ebbe una pronta risposta: evitare il contatto solo con accademici e istituzioni chiaramente complici del regime. Un sollievo per me, visto che ho avuto il piacere di buona cooperazione e collegialità con colleghi israeliani che lavorano coraggiosamente per la pace, sia in termini professionali che personali, e che meritano il nostro sostegno.

C’è un fenomeno di psicologia sociale noto come “effetto astante”. Più spettatori ci sono sulla scena di un incidente da pericolo o depravazione, meno è probabile che qualcuno di essi prenda l’iniziativa per farlo finire.

L’assassino osservato all’opera da cinquanta persone se la squaglierà, perché tutti penseranno che qualcun altro abbia chiamato la polizia. Michael Ignatieff, in The Warrior’s Honor [L’onore del guerriero], sostiene che la pervasività globale della televisione ha reso le ineguaglianze del mondo odierno affare di ognuno e una sfida morale implicita per noi tutti. Ma può anche solo aver aumentato il numero di spettatori.

La mia collega, Annabel McGoldrick, ha trovato che il modo in cui i conflitti vengono riportati tende a farci sentire ‘scollegati’ da qualunque prospettiva di soluzione ai problemi sin troppo evidenti. Tuttavia, bisogna cominciare da qualche parte, anche proprio qui, da una cioccolata.


16.02.09

Titolo originale:  BRINGING IT HOME

Traduzione italiana a cura di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis