Obama: i primi 10 giorni

Johan Galtung

Pochi politici hanno suscitato tante aspettative quanto il 44° presidente USA, Barack Obama. Un gran numero di persone ama gli USA ed è contento di amarli, distinguendo fra gli USA e la loro politica estera. L’amore rende ciechi, secondo il proverbio, ed è effettivamente servita molta cecità per amare gli USA sotto il loro 43° presidente; possa il suo nome andare sepolto ai margini della storia.

Obama ha tenuto coperte le sue carte durante la campagna elettorale, mostrandone solo due: Cambiamo! e Sì, possiamo! Comprensibile: era lì per vincere, col suo carisma, il suo fascino e la sua intelligenza. Ogni carta rivelata avrebbe potuto allontanare elettori. Ma, avendo vinto il 4 novembre, poteva mostrare le sue carte, magari meno quelle politiche che coloro prescelti per portarle avanti. Vecchi re stanchi e una regina o due, carte logore, alcune corrotte, nessun jolly fra di esse, bensì artefici di politiche che adesso si suppone dovrebbero cambiare.

Cambiare? Non ha mai detto come, così i più hanno interpretato il cambiamento come “progressivo” dopo 8 anni all’indietro. Forse è stato frainteso, volendo essere superattivo e multivalente piuttosto che docile e monovalente come il suo predecessore? Con l’Iraq, solo la Guerra al Terrorismo, affrontando il Medio Oriente molto sotto tono e solo alla fine?

Obama non è progressista ma pragmatico, cioè atto a fare quel che si può fare data l’alchimia politica USA. Ma è anche davvero superattivo e multivalente, ed è difficile battere il numero di carte giocate durante i 10 giorni fra l’inaugurazione il 20 gennaio e la data di redazione di queste note, 30 gennaio. La saggezza di giocarne tante così subito è un altro discorso; magari passerà il resto dei suoi quattro o otto anni a spostarle.

Diamo uno sguardo. Alcune carte di portata nazionale hanno l’alone dell’ovvio, come le regole per il lobbismo, i periodi di immunità per politici pensionati, e la trasparenza generale. Ma c’è altro.

Moises Naim, redattore-capo di Foreign Policy, commenta i primi giorni in “Bushifying Obama [il bushizzarsi di Obama]” (El País, 26 gennaio 2009):

[1] le forze armate USA hanno bombardato un gruppo di presunti combattenti taliban nel nordest del Pakistan, uccidendo o ferendo 14 persone; la protesta pakistana lamentava il mancato cambiamento d’atteggiamento.

[2] Timothy Geithner, il nuovo Segretario al Tesoro, accusò la Cina di cercare di destabilizzare il dollaro sui mercati valutari mondiali.

[3] La guerra in Afghanistan da intensificare, altre 70,000 truppe.

[4] Non si permetterà all’Iran di sviluppare armi nucleari.

[5] Sostiene il diritto di Israele di difendersi contro Hamas; con la differenza che adesso ci sono più ebrei al governo.

Nessun cambiamento; effettivamente, le politiche su Pakistan-Gaza-Afghanistan possono essere tutte in linea con il suo predecessore; solo più attive e più simultanee. Che cosa avrebbe potuto fare?

[1] Parlare col Pakistan prima di bombardare. A che proposito, dopo tutto?

[2] Parlare con i cinesi, chiedendo come hanno fatto a portare 400 milioni di persone dalla povertà a un ceto medio inferiore in, diciamo, 14 anni, un primato mondiale. E come inoltre programmino un sistema sanitario universale che li renderebbe smaglianti.

[3] Se l’Iraq era un pantano, provi quest’altro. Potrebbe essere all’opera Zbigniew Brzezinski, dietro quel vecchio arnese di guerra di Holbrooke di infausta fama jugoslava, alle prese con il Grande Gioco, che vuole l’Afghanistan per dominare il mondo a partire dall’Asia centrale? Geo-politica alla MacKinder, del 1904? Troppo tardi, troppo irrilevante. Obama sta cercando una tomba? Sta credendo ingenuamente ai suoi generali? L’Afghanistan aspetta.

[4] Parlare con l’Iran prima di minacciare. Riconoscere quanto è avvenuto nel 1953.

[5] Mitchell non è stato così importante in Irlanda, lo furono piuttosto Adams e i suoi (ma niente premio Nobel, erano dalla parte sbagliata). Il cambiamento per Mitchell sarebbe stato parlare direttamente con Hamas.

Vecchie politiche stanche. Oh USA, perché non impari mai?

Risposta: perché la struttura profonda e la cultura profonda di uno stato imperiale ha penetrato da lungo tempo anche la mente di Obama, alla scuola d’èlite di Punahou a Honolulu? Forse più di quanto non sappia?

“Il discorso cui sono mancate le ali” è stato il commento di The Times di Londra il giorno dopo. C’è stato un bel po’ di dio prima, durante e dopo. E la storia e i predecessori, le attese lodi a Gettysburg, e all’invasione della Normandia, d’accordo. Ma sistemare l’Occidente, per noi? E Khe Sanh, l’enorme base dei marine in Vietnam per attaccare con ogni mezzo la “pista Ho Chi Minh”?

Che cosa significa questo per l’impero USA? La sua continuazione, per il momento con carisma e fascino. Ma questi possono ridursi a poco.

Non c’è stato nulla su un commercio più equo. Niente mano forte sull’economia finanziaria, e in quanto alla sanità più accento sui costi che sui diritti umani. Nulla sulla riduzione del dispiegamento militare. C’era qualcosa sulla risoluzione dei conflitti alla Mitchell, ma con Rahm Emanuel come capo-gabinetto alla Casa Bianca e il dissenziente Jimmy Carter zittito, neppure invitato a porgere il benvenuto alla convention democratica. Decisamente troppa preoccupazione per la guida, troppo poca sui negoziati fra uguali. Né, immaginiamoci, un invito ai paesi musulmani, che se la passano meglio di tutti gli altri con la crisi economica, per scambiarsi esperienze. Né a Cuba, per imparare la sua superiorità nei parametri sanitari come l’aspettativa di vita (che invece sta calando per le donne negli USA) e la mortalità infantile? Ma quella non è la voce dell’Impero.

Che cosa vuol dire questo per la Caduta dell’Impero USA entro il 2020? La previsione tiene. La liberazione dall’Impero viene dalla Periferia, non dal Centro, come la storia mostra molto chiaramente:

“A coloro che sono attaccati al potere con la corruzione e l’inganno e lo strangolamento del dissenso: voi siete sul lato sbagliato della storia; ma porgeremo la mano se aprirete il pugno”.
Presidente Obama, legga la scritta a mano sul muro, segua il suo consiglio, dischiuda il pugno e sia sul lato giusto della Storia.


2 febbraio 2009

Titolo originale: OBAMA: THE FIRST TEN DAYS

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Sereno Regis