Che dirò ai miei studenti nel giorno della memoria?

Franco Berardi

«Hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame (…) li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».
(Stefano Nahmad, la cui famiglia ha subito le persecuzioni naziste)

Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri. E’ un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo. L’anno scorso, avvicinandosi il giorno della memoria che ogni anno si celebra nelle scuole, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato.
Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste parole:  “Ogni anno si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza. Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?”
Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della classe, in cui oltre Claude c’erano cinque italiani due marocchini un peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e due russi. L’opinione di Claude era quella di tutti. Sia ben chiaro: nessuno mise in dubbio la verità storica dell’Olocausto, neppure Yassin, un ragazzo marocchino appassionato alla causa palestinese e sempre pronto a criticare con durezza Israele. Tutti avevano seguito con attenzione e partecipazione la lettura delle pagine di Primo Levi. Però tutti mi chiedevano: perché non si fanno cerimonie pubbliche dedicate allo sterminio dei rom, dei pellerossa, o allo sterminio in corso dei palestinesi? Claude a un certo punto uscì fuori con una frase che non potevo contestare: perché nessuno ha pensato a un giorno della memoria dedicato all’olocausto africano? Pensai ai milioni di suoi antenati deportati da negrieri schiavisti, pensai all’irreparabile danno che questo ha prodotto nella vita dei popoli del golfo d’Africa occidentale, e conclusi il discorso in maniera che a tutti apparve risolutiva (vorrei quasi dire salomonica): “Nel giorno della memoria si ricorda l’Olocausto ebraico perché attraverso questo sacrificio si ricordano tutti gli Olocausti sofferti dai popoli di tutta la terra.”

Ammesso che la parola “identità” significhi qualcosa, e non lo credo, per me l’identità non è definita dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche e filosofiche poste dall’ebraismo della diaspora, non solo perché ho letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Jehoshua, Gerhom Sholem, Akiva Orr, Else Lasker Shule e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono sempre identificato profondamente con ciò che definisce l’essenza culturale dell’ebraismo diasporico. Nell’epoca moderna gli ebrei sono stati perseguitati perché portatori della Ragione senza appartenenza. Essi sono l’archetipo della figura moderna dell’intellettuale. Intellettuale è colui che non compie scelte per ragioni di appartenenza, ma per ragioni universali. Gli ebrei, proprio perché la storia ha fatto di loro degli apatridi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della figura moderna dell’intellettuale ed hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’Illuminismo e della laicità, e anche dell’internazionalismo socialista.
Come scrive Singer, nelle ultime pagine del suo Meshugah.
“La libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme
hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non
hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta.”
Per questo io sono ebreo, perché non credo che la libertà stia
nell’appartenenza, ma solamente nella singolarità. So bene che nel
ventesimo secolo gli ebrei sono stati condotti dalla forza della
catastrofe che li ha colpiti, a identificarsi come popolo, a cercare
una terra nella quale costituirsi come stato: stato ebraico. E’ il
paradosso dell’identificazione. I nazisti costrinsero un popolo che
aveva fatto della libertà individuale il valore supremo ad accettare
l’identificazione, la logica di appartenenza e perfino a costruire uno
stato confessionale che contraddice le premesse ideologiche che
proprio il contributo dell’ebraismo diasporico ha introdotto nella
cultura europea.
In Storia di amore e di tenebra scrive Amos Oz: “Mio zio era un
europeo consapevole, in un’epoca in cui nessuno in Europa si sentiva
ancora europeo a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come
loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente
patrioti lituani, bulgari, irlandesi slovacchi. Gli unici europei di
tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. In
Jugoslavia c’erano i serbi i croati e i montenegrini, ma anche lì vive
una manciata di jugoslavi smaccati, e persino con Stalin ci sono russi
e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra tutti vivono anche dei nostri
fratelli, membri del popolo sovietico.”

Il mio punto di vista sulla questione mediorientale è sempre stato
lontano da quello dei nazionalisti arabi. Avrei mai potuto sposare una
visione nutrita di autoritarismo e di fascismo?  E oggi potrei forse
sposare il punto di vista dell’integralismo religioso che pervade la
rabbia dei popoli arabi e purtroppo ha infettato anche il popolo
palestinese nonostante la sua tradizione di laicismo? Proprio perché
non ho mai creduto nel principio identitario non ho mai provato
particolare affezione per l’idea di uno stato palestinese. I
palestinesi sono stati costretti all’identificazione nazionale
dall’aggressione israeliana che dal 1948 in poi si è manifestata in
maniera brutale come espulsione fisica degli abitanti delle città,
come cacciata delle famiglie dalle loro abitazioni, come
espropriazione delle loro terre, come distruzione della loro cultura e
dei loro affetti. “Due popoli due stati” é una formula che sancisce
una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l’idea –
profondamente ebraica – secondo cui non esistono popoli, ma individui
che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio
secondo cui gli stati non possono essere fondati sull’identità, sul
sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione,
sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.
Pur avendo un interesse intenso per l’intreccio di questioni che la
storia ebraica passata e recente pone al pensiero, non ho mai scritto
su questo argomento neppure quando l’assedio di Betlemme o il massacro
di Jenin o l’orribile violenza simbolica compiuta da Sharon nel
settembre del 2000 o i bombardamenti criminali dell’estate 2006
provocavano in me la stessa ribellione e lo stesso orrore che
provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di Netanja o gli
omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal lancio di razzi
Qassam.
Non ho mai scritto nulla, (mi dispiace doverlo dire), perché avevo
paura. Come ho paura adesso, non lo nascondo. Paura di essere accusato
di una colpa che considero ripugnante – l’antisemitismo. So di poter
essere accusato di antisemitismo a causa della convinzione, maturata
attraverso la lettura dei testi di Avi Shlaim, e di cento altri
studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo, discutibile nelle sue
scelte originarie, si è evoluto come una mostruosità politica. Pur
avendo paura non posso però più tacere dopo aver discusso con lo
studente Claude. Considero il sionismo causa di infinite ingiustizie e
sofferenze per il popolo palestinese, ma soprattutto lo considero
causa di un pericolo mortale per il popolo ebraico.  A causa della
violenza sistematica che il sionismo ha scatenato negli ultimi
sessant’anni, la bestia antisemita sta riemergendo, e sta diventando
maggioritaria se non nel discorso pubblico nel subconscio collettivo.
Dato che non è possibile affermare a viso aperto che il sionismo è una
politica sbagliata che produce effetti criminali, molti non lo dicono,
ma non possono impedirsi di pensarlo.
Aprendo la discussione sulle parole dello studente Claude, ho scoperto
che gli altri studenti, italiani e marocchini, romeni e peruviani, che
pure nel loro svolgimento avevano trattato la questione secondo gli
stilemi politicamente corretti, costretti ad approfondire il
ragionamento e a far emergere il loro vero sentimento, finivano per
identificare il sionismo con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere
la strada che conduce verso l’antisemitismo. Considerando criminale e
arrogante il comportamento dello stato di Israele, identificandosi
spontaneamente con il popolo palestinese vittimizzato, finivano
inconsapevolmente per riattivare l’antico riflesso anti-ebraico.
Proprio la rimozione e il conformismo che si coltivano nel giorno
della memoria stanno producendo nel subconscio collettivo un profondo
antisemitismo che non si confessa e non si esprime. Perciò credo che
occorra liberarsi della rimozione e denunciare il pericolo che il
sionismo aggressivo rappresenta soprattutto per il popolo ebraico.
Trasformare la questione ebraica in un tabù del quale è impossibile
parlare senza incorrere nella stigmatizzazione benpensante sarebbe
(anzi è già) la condizione migliore per il fiorire dell’antisemitismo.

Si avvicina il 27 gennaio, che sarà anche quest’anno il giorno della
memoria. Come potrò parlarne nella classe in cui insegno quest’anno?
Non c’è più Claude, ma ci sono altri ragazzi africani e arabi e slavi
ai quali non potrò parlare dell’immane violenza che colpì il popolo
ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi all’immane violenza che
colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi questo riferimento
apparirei loro un ipocrita, perché essi sanno quel che sta accadendo.
E come potrò tacere le analogie tra l’assedio di Gaza e l’assedio del
Ghetto di Varsavia del quale abbiamo parlato recentemente? E’ vero che
gli ebrei uccisi nel ghetto di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre
i morti palestinesi sono per il momento solo mille. Ma come dice Woody
Allen i record sono fatti per essere battuti. La logica che ha
preparato la ghettizzazione di Gaza (che un cardinale cattolico ha
definito “campo di concentramento”) non è forse simile a quella che
guidò la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli
ebrei di Varsavia costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che
divenne in poco tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno
a loro un muro di cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri
di altezza esattamente come quello che Israele ha costruito per
rinchiudere i palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di
uscire dai valichi che erano controllati da posti di blocco militari?
Per motivare la loro aggressione che uccide quotidianamente centinaia
di bambini e di donne, i dirigenti politici israeliani denunciano i
missili Qassam che in otto anni hanno causato dieci morti (tanti
quanti l’aviazione israeliana uccide in mezz’ora). E’ vero: è
terribile, è inaccettabile che il terrorismo di Hamas colpisca la
popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica forse lo sterminio
di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato, la distruzione di
una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono pistole, bombe a mano,
bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi agli invasori. Armi
del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam. Eppure nessuno può
condannare la difesa disperata degli ebrei di Varsavia.
Cosa posso dire, dunque, nel giorno della memoria? Dirò che occorre
ricordare tutte le vittime del razzismo, quelle di ieri e quelle di
oggi. O questo può valermi l’accusa di antisemitismo?

Se qualcuno vuole accusarmi a questo punto non mi fa più paura. Sono
stanco di impedirmi di parlare e quasi perfino di pensare ciò che
appare ogni giorno più evidente: che il sionismo aggressivo, oltre ad
aver portato la guerra e la morte e la devastazione al popolo
palestinese, ha stravolto la stessa memoria ebraica fino al punto che
nelle caserme israeliane sono state trovate delle svastiche, e fino al
punto che cittadini israeliani bellicisti hanno recentemente insultato
cittadini israeliani pacifisti con le parole “con voi Hitler avrebbe
dovuto finire il suo lavoro”.
Proprio dal punto di vista del popolo ebraico il sionismo aggressivo
può divenire un pericolo mortale. L’orrenda carneficina che Israele
sta mettendo in scena nella striscia di Gaza, come i bombardamenti
della popolazione di Beirut due anni fa, sono segno di demenza
suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei passati sessant’anni e
può vincere anche questa guerra contro una popolazione disarmata. Ma
la lezione che ne ricavano centinaia di milioni di giovani islamici
che assistono ogni sera allo sterminio dei loro fratelli palestinesi è
destinata a far sorgere un nuovo nazismo.
Israele può sconfiggere militarmente Hamas. Può vincere un’altra
guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del 1973. Può vincere
due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua vittoria estende il
fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che divengono
terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua vittoria
approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un miliardo e
duecentomilioni di islamici. E siccome nessuna potenza militare può
mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti aggressivi
dovrebbero sapere che un giorno o l’altro l’odio accumulato può dotarsi di
una forza militare superiore, e può scatenarla senza pietà, come senza pietà
oggi si scatena l’odio israeliano contro la popolazione indifesa di Gaza.

Fonte: http://www.rekombinant.org