Leggere Gandhi a Teheran… e non solo!

Nanni Salio

Ramin Jahanbegloo, Leggere Gandhi a Teheran, Marsilio, Venezia 2008

La copertina del libro

L’attualità del pensiero e dell’opera di Gandhi sono di straordinaria importanza e una ulteriore conferma, se necessaria, viene da un piccolo e agile libricino, Leggere Gandhi a Teheran (Marsilio, Venezia 2008) del filosofo iraniano Ramin Jahanbegloo. Una pubblicazione preziosa che giunge in un momento particolarmente drammatico nella storia dei rapporti tra Occidente e Islam, soprattutto in Medio Oriente nella guerra Israele/Palestina.

In sei brevi capitoletti, l’autore delinea in modo sintetico, efficace e preciso, gli aspetti salienti della concezione etico-politica di Gandhi, che fa da sfondo ai temi del dialogo, della democrazia e delle dinamiche che lacerano il mondo musulmano al suo interno e nei confronti dell’Occidente.

Con il significativo titolo di “scontro tra intolleranze”, il primo capitolo affronta immediatamente il “dialogo tra civiltà”, in alternativa allo “scontro di civiltà” teorizzato da Samuel P.Huntington, criticato anche da Edward Said, il quale lo considerò piuttosto uno “scontro di ignoranze”. E viene ricordato il periodo d’oro del “paradigma di Cordoba”, che vide il fiorire in Spagna di una civiltà multiculturale capace di arricchire tanto l’Occidente quanto il mondo musulmano mediante un processo di dialogo nel rispetto della diversità culturale e religiosa che costituisce ancora oggi un luminoso esempio di convivenza delle tre religioni abramitiche, al quale l’Europa può tuttora ispirarsi.

Un punto cruciale nel dialogo tra le culture è quello della nonviolenza che, si precisa subito, “non è un vessillo da issare un giorno e ammainare quello successivo”, ma “una concreta necessità nelle relazioni internazionali”. Una piccola nota negativa riguarda il fatto che nel testo italiano, ma non nell’originale inglese, viene utilizzata la forma riduttiva e piuttosto fuorviante di non violenza (due termini staccati tra loro), invece che nonviolenza (una sola parola) come ci ha invitato a scrivere Aldo Capitini, da oltre mezzo secolo, per evidenziare il ruolo positivo e non solo passivo e generico di questa concezione politica.

Nei due successivi capitoli, Jahanbegloo entra nel vivo della concezione della nonviolenza di Gandhi: ne ricostruisce il legame con giainismo e buddismo e gli aspetti teorici generali. Accenna al rapporto con la democrazia, senza tuttavia approfondirlo nei suoi aspetti problematici. Se, come ci viene ricordato, secondo Gandhi “la democrazia disciplinata e illuminata è la più bella cosa nel mondo”, è altrettanto vero che Gandhi fu un attento osservatore delle democrazie occidentali, e criticò aspramente la nostra civiltà nel famoso pamphlet Hind Swaraj, di cui ricorre quest’anno il centenario dalla pubblicazione, avvenuta nel 1909.

Cosa direbbe Gandhi delle odierne grandi democrazie: la politica imperialista delle amministrazioni USA che viola sistematicamente ogni regola di convivenza stabilita in sede internazionale; la deriva nazionalista e militarista della “sua” India; la tragica politica di Israele, descritta un po’ troppo semplicisticamente come l’ “unica democrazia mediorientale”? Non è necessario sottolineare che nessuna di esse ha assunto la nonviolenza come modello della propria politica estera e di difesa.

Negli ultimi tre capitoli viene affrontata una delle questioni più nodali: il rapporto tra Islam e nonviolenza. Pur non essendo un tema nuovo, esso è poco conosciuto, passato sotto silenzio e spesso travisato. Ed è intorno a questo tema che si dovranno intensificare i nostri interessi e le nostre iniziative future.

La domanda cruciale viene posta direttamente: “Un Gandhi musulmano è possibile?” E la risposta è altrettanto netta: sì, sono esistiti vari “Gandhi musulmani”. Il più noto e giustamente grandioso è Abdul Ghaffar Khan, soprannominato Badshah Khan, la cui incredibile biografia è descritta in modo avvincente da Easwaran Eknath in un libro che abbiamo fatto tradurre oltre vent’anni fa, ma ancora oggi poco conosciuto nonostante una riedizione in occasione del ventennale della morte (Easwaran Eknath, Badshah Khan. Il Gandhi musulmano, Sonda, Casale Monferrato 2008).

Ma oltre a questa leggendaria figura che seppe costruire un esercito di centomila resistenti nonviolenti all’occupazione inglese lungo la frontiera del Nord Ovest, la famigerata terra delle temibili tribù Pathan, spicca anche quella di un altro compagno di lotta di Gandhi, Maulana Abul Kalam Azad. Entrambi questi personaggi furono interpreti nonviolenti del pensiero religioso dell’Islam, così come Gandhi lo fu dell’induismo attraverso la sua lettura allegorica della Bhagavad Gita.

Il “dialogo tra le civiltà” richiede di essere sostenuto tenacemente, come vanno facendo con grande intelligenza i curatori del sito http://www.resetdoc.org/IT. Gandhi non smise di sottolineare in tutta la sua intensa azione politica l’importanza del dialogo anche con gli avversari più duri, che prima o poi diventano necessariamente gli interlocutori con i quali giungere a onorevoli compromessi.

E’ quanto da tempo si va facendo nel campo della ricerca per la pace, come testimonia l’immensa opera di Johan Galtung (www.transcend.org) che offre strumenti rigorosi, laici, rispettosi, per facilitare la trasformazione nonviolenta dei conflitti.

Perché le possibilità offerte da questi studi si possano concretizzare quanto prima in pratiche politiche nonviolente, è tuttavia necessario che Gandhi non venga letto solo a Teheran, ma anche a Washington, Gerusalemme, Gaza, Delhi, Pechino, Roma e ovunque ci sia bisogno di seminare speranza, per poterne raccogliere i frutti prima che sia troppo tardi.


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