Tanto ho navigato…

La storia di Zaher, profugo afghano che sognava Venezia
di Orsola Casagrande e Alessandra Sciurba
VENEZIA Il vento non era proprio quello giusto, ma gli aquiloni sono volati in alto ugualmente. «Nel nostro paese – dice Ahmed – gli aquiloni sono un simbolo importante prima ancora che un gioco da bambini o un passatempo. Perché gli aquiloni sono il simbolo della libertà. Volano in aria, liberi, in cielo dove non ci sono confini, frontiere, barriere». Ahmed è afghano, rifugiato in Italia. Con lui ci sono al porto di Venezia tanti ragazzi afghani e kurdi, di Iraq e di Turchia. Sono qui, insieme a Razzismo Stop, i centri sociali del nord est, il consigliere verde Beppe Caccia, il centro pace del comune di Venezia. Sono al porto per ricordare il giovanissimo Zaher Rezai, che a soli tredici anni aveva intrapreso un viaggio pieno di insidie, lungo e faticoso. Un viaggio verso la libertà come scrive nei versi struggenti che ha affidato a un piccolo taccuino che riproduciamo in questa pagina. Zaher è morto, schiacciato sotto il tir al quale si era attaccato, a pochi chilometri da quella che lui aveva identificato come libertà. Ieri mattina al porto si è voluto ricordare Zaher, insieme ai tanti profughi che come lui sono arrivati proprio a Venezia. Qualcuno è riuscito a scendere a terra e a chiedere asilo politico. Altri sono vivi per miracolo. Altri ancora sono in Italia dopo essere stati respinti una o due volte alla frontiera. Ieri si è ricordato Zaher ma si è chiesto anche che vengano rispettati i diritti basici delle persone. A partire da quello di potere chiedere asilo politico. Perché la maggior parte di coloro che arrivano al porto di Venezia vengono respinti dalla polizia di frontiera senza toccare nemmeno il suolo. Nessuno ad accoglierli, nessuno a cui raccontare la loro odissea, nessuno a raccogliere la loro richiesta di asilo. Il comune di Venezia per protesta contro questa pratica dei respingimenti della polizia di frontiera ha ritirato dal porto i suoi funzionari ai quali veniva impedito di vedere e parlare con i profughi in arrivo. Non respingete i cacciatori di aquiloni, c’era scritto in uno degli striscioni appesi dalle associazioni che hanno ricordato la lunga scia di vittime al porto di Venezia, dove ogni anno arrivano circa un migliaio di persone. Paolo Costa, presidente del porto veneziano, ha indicato come “rimedio” all’arrivo dei profughi l’installazione di sofisticate apparecchiature a infrarossi per individuare gli “intrusi”. E questo la dice lunga sull’attenzione di Costa (anche commissario per il Dal Molin di Vicenza) per i diritti umani di chi viene da paesi in guerra.Ma del resto Costa è d’accordo con la nuova base Usa a Vicenza che produrrà nuove guerre, non stupisce dunque che delle vittime delle guerre gli interessi poco o nulla. Ieri la rete di associazioni “Tuttiidiirittiumanipertutti” ha chiesto che la polizia di frontiera interrompa la prassi dei respingimenti, che gli enti deputati all’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo subordinino il loro lavoro al porto all’impegno del ministero e degli altri organi competenti di rispettare i diritti dei profughi e dei migranti. La risposta del Cir è arrivata subito, Chris Hein, il presidente, ha detto che «è comunque meglio esserci che non esserci», altrimenti ha aggiunto, «i profughi si troverebbero di fronte soltanto agenti di polizia». Una delegazione ha poi incontrato l’autorità doganale per esporre anche a loro queste richieste e chiedere di prendere posizione su fatti che avvengono all’interno del luogo in cui anch’essi operano. I due funzionari che hanno accolto gli esponenti delle associazioni si sono detti coinvolti nel problema e preoccupati anche loro per l’inefficienza, legata a diverse ragioni, del servizio di accoglienza al porto di Venezia. Proprio ieri, poche ore prima della manifestazione, altri migranti erano stati respinti in Grecia dopo essere stati scoperti dalla polizia di frontiera. E venerdì una donna kurda con i suoi due figli è stata portata a terra. Soltanto le pressioni di questi giorni hanno evitato che fossero rispediti in Iraq: sono stati invece portati in ospedale perché necessitavano di cure mediche e quindi trasferiti in un centro di accoglienza a Chioggia.

IL TACCUINO DI UN «CLANDESTINO» Sogni e speranze in forma di poesia
di Francesca Grisou
Zaher Rezai, figlio di Mahmud, era un Hazara di Mazar- i Sharif, città che nel 1998 fu teatro di una delle tante stragi di civili hazara che l’Afghanistan ricorda. Zaher aveva allora pochi anni ed era uno dei fortunati sopravvissuti. Qualche anno dopo, ancora bambino, Zaher era in Iran. Lavorava come saldatore, appuntando diligentemente schizzi emisure sul suo taccuino. Il profilo che emerge dalla lettura e traduzione del taccuino di un «clandestino » è il seguente: un ragazzo in fuga dalla persecuzione, costretto a lavorare in giovane età come saldatore, che a malincuore si getta in un viaggio di speranza che sa bene essere pieno di insidie. La storia di Zaher può essere eletta ad icona delmigrante afghano, molto spesso minorenne, se non all’arrivo, di sicuro alla partenza. Comunque potenziale richiedente asilo. Il caso dei migranti afghani, giovanissimi per lo più, è la storia di una diaspora silenziosa. Dato il numero esiguo non ha eco sui giornali, ma rivela un disagio sociale legato non solo alla guerra o all’occupazione del Paese, bensì ad un feroce conflitto etnico e religioso di cui non si ha notizia in Occidente. Si aggiunga a questo la prolungata condizione di diaspora ed esilio, giunta ormai alla terza generazione, che ha costretto per decenni intere famiglie a migrare senza sosta tra Paesi limitrofi poco ospitali (Pakistan e Iran) e zone interne dell’Afghanistan. A questa diaspora silenziosa Zaher dà finalmente una voce; una voce dolcissima. Tra i versi delle sue poesie egli cerca il coraggio per andare avanti, al di là del mare, dove crede sia garantito il suo diritto all’esistenza. Il taccuino trovato in tasca al ragazzo conteneva in poche pagine il riassunto di una vita: alcuni talentuosi schizzi corredati da misure dettagliate per il lavoro di saldatore che svolgeva in Iran; una nota sui risparmi racimolati e alcune poesie, appuntate o imparate forse lungo il tragitto. La calligrafia del ragazzo rivela un grado di istruzione molto basso e ci conferma che, come tanti altri suoi connazionali, Zaher non ha avuto la possibilità di frequentare la scuola. Eppure, difficile a credersi per noi Italiani, conosceva a memoria e recitava tra sé un certo numero di versi in rima. Poesie classiche, molto spesso poesie antiche di alcuni secoli, che parlano di amore e nostalgia; in cui l’amato è Dio e l’amore mistico il desiderio di ricongiungersi a lui nello splendore e purezza della pre-eternità. Tu porti il profumo delle gemme che sbocciano,/sei come un fiore di primavera/…/È dolce il tuo affetto/ amo parlare con te…/Tu sei un amico incantevole/sei una seta di passione e bellezza Mi piace sottolineare questo perché l’amore per la poesia di questi giovani migranti afghani è il primo indice della sensibilità, della dignità e del rispetto con cui sono educati fin da piccoli. Nell’intervistarli emerge fin troppo spesso la sofferenza della discriminazione, la determinazione con cui essi lottano per vedere riconosciuto il loro diritto di esistere semplicemente in quanto «persone umane ». Il sogno europeo è l’«Europa dei diritti umani». Sogno a cui non intendono rinunciare. Inutile respingerli; ci proveranno di nuovo, fino a morire se serve. Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore/che o riuscirò in fine ad amarti o morirò annegato. Andare avanti! A tutti i costi. «In Iran non si può stare, in Afghanistan non possiamo tornare», ripetono in modo ossessivo iminorenni intervistati. La poesia continua. Racconta la paura del respingimento; di essere trattato come un migrante qualsiasi o peggio come un ladro o un clandestino. Giardiniere, apri la porta del giardino; io non sono un ladro di fiori, io stessomi son fatto rosa, che bisogno ho di un altro fiore qualsiasi La paura del viaggio. Il tratto di mare che ancora lo separa dal diritto d’asilo. Questo corpo così assetato e stanco/ forse non arriverà fino all’acqua del mare./Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino,/ ma promettimi, Dio,/che non lascerai finisca la primavera. Deve ancora cominciare l’inverno. Nel limbo di Patrasso Zaher si imbarca su una nave diretta verso l’Italia. Ecco il mare, l’ultima traversata. Oh mio Dio, che dolore riserva l’attimo dell’attesa/ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera Per la mia esperienza dimediatrice è cosa comune che i ragazzi afghani, anche analfabeti, conservino versi di poesia amemoria e li ripetano spesso per darsi coraggio durante il viaggio e l’esperienza della diaspora. Quello che sento ripetere più spesso parla del dolore della morte in esilio. Vorrei dedicarlo in chiusura a Zaher, ricordando che purtroppo questo è il pensiero fisso che si legge negli occhi dei migranti afghani con cui vivo e lavoro ogni giorno. Se un giorno in esilio la morte deciderà di prendesi il mio corpo/ Chi si occuperà della mia sepoltura, chi cucirà il mio sudario?/In un luogo alto sia deposta la mia bara/ Così che il vento restituisca alla mia Patria il mio profumo

Un giorno Cacciari mi ha chiesto…
di Gerardo De Fabrizio
Il piccolo Geylo non aveva ancora tre anni, quando le fiamme, scaturite probabilmente da un cortocircuito di una stufetta elettrica, sono divampate la scorsa notte nel campo nomadi di Borgo Arpinova, pochi km a nord di Foggia. Il corpicino carbonizzato del bambino di nazionalitàmacedone è stato rinvenuto dai vigili del fuoco tra i resti della roulotte dove viveva con i genitori e altri due fratellini. L’incendio si è verificato in tarda serata e, dalla roulotte dove dormiva il bambino, si è propagato velocemente distruggendo venticinque baracche e costringendo all’evacuazione le famiglie che vivevano lì. Dopo i soccorsi, la zona interessata è stata posta sotto sequestro per ulteriori accertamenti sulle cause del rogo. Una tragedia annunciata quella del campo nomadi alle porte di Foggia dove vivono, tra le altre, 53 famiglie macedoni. Arpinova è una periferia difficile, con strade disastrate, elettricità ed illuminazione scarsa, condizioni igienico sanitarie precarie e servizi della nettezza urbana pressochè inesistenti. L’accampamento era stato costruito per accogliere al massimo 500 nomadi, provenienti per lo più dalla vecchia area allestita in via San Severo e sgomberata dopo un incendio analogo. Poi, come spesso accade, il numero delle famiglie è aumentato e oggi il campo ne ospita 116. Hamed Mohamad Karim Signor sindaco Cacciari, un giorno leimi ha chiesto com’è adesso la situazione in Afghanistan. Lì così su due piedi non ho trovato una risposta adatta. Non volevo ripetere sempre le stesse cose, perché la situazione oggi in Afghanistan è molto di più che una guerra, un migliaio di Ong e qualche foto di talebani e forze alleate.Macome si fa a spiegare lemille cose che mi passano per la testa: la mia gente, gli occhi pieni di speranza, le promesse e i continui paradossi a cui non so dare risposta. Mi sono vergognato e ho solo sorriso abbassando gli occhi. Solo oggi, parlando al telefono col padre di Zaher, ho sentito il dovere di rispondere a quella domanda rimasta in sospeso. Lui, affrontando con coraggio la situazione,mi diceva: «Che Dio perdoni me e gli altri, perché lo abbiamo ucciso con le nostre stesse mani: io e imiei coetanei qui in Afghanistan, che abbiamo creato solo un ambiente di guerra in cui nessuna possibilità è lasciata ai giovani; coloro che lo hanno accolto perché hanno fatto in modo che per cercare salvezza si dovesse infilare sotto un camion ». Io che ho la «fortuna» di essere in Europa, invidiato damigliaia di giovani illusi, li vedo ogni giorno arrivare chiedendo aiuto. So cosa cercano; so da cosa scappano; so quale prezzo devono pagare e mi chiedo sempre più ossessivamente «perché». Signor sindaco, la situazione oggi in Afghanistan è quella di un Paese in cui la gente non può essere altro che burattino o complice; un Paese da cui i ragazzi più bravi e volenterosi capiscono devono fuggire;ma dove? A che prezzo? «Signor sindaco, la situazione oggi in Afghanistan è un ragazzo di 13 anni morto sotto un camion a Venezia per eludere il controllo di chi avrebbe dovuto offrigli asilo». Ecco cosa avrei dovuto rispondere. * Regista afghano e rifugiato politico

«Tanto ho navigato…» A cura di Hamed Mohamad Karim e Francesca Grisot. Grazie a Domenico Ingenito per l’aiuto a tradurre.

Foglio 9
Tu porti il profumo delle gemme che sbocciano,/ sei come un fiore di primavera/Mi faccio per te inebriato e felice/ quando vieni a cercarmi/ È dolce il tuo affetto/amo parlare con te

Foglio 8
E anche quando mi togli la parola/il tuo pentirti è bello/Tu sei un amico incantevole/ sei una seta di passione e bellezza/Ora vediamo fino a quando/ t’accorderai col cuore mio

Foglio 11
Questo corpo così assetato e stanco/forse non arriverà fino all’acqua del mare./Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino,/ ma promettimi, Dio,/che non lascerai finisca la primavera./
Oh mio caro, che dolore riserva l’attimo dell’attesa/ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera

Foglio 13
Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore/che o riuscirò infine ad amarti o morirò annegato./
Giardiniere, apri la porta del giardino; io non sono un ladro di fiori,/io stesso mi son fatto rosa, non vado in cerca di un fiore qualsiasi

da “il manifesto”, 21 dicembre 2008